Governo Techno || Cosa farà il nuovo ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale?

di Emanuele Braga, da Global Project, del 24 febbraio 2021

Con l’insediamento del governo Draghi in Italia, all’avvio del Next Generation EU, sembra che l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione ci faranno finalmente vivere meglio, tutto sarà più facile e saremo finalmente una società pulita e progredita.

Potremo finalmente dimenticarci quell’Italia arretrata, un po’ mafiosa, sempre in ritardo, che non paga le tasse, piena di fannulloni e senza wi fi. Ci sentiremo finalmente a proprio agio arrivando silenziosamente con auto elettriche in palazzi immersi nel verde, sicuri dei nostri dottorati di ricerca, per riunioni in ampie stanze luminose, dove si entra tranquilli e in orario con il riconoscimento facciale, controllando l’orologio biometrico, preoccupati di aver consumato più energia di quella che ci spetta.

Bene, grazie Super Mario, non vediamo l’ora.

A me pare che questa narrazione sia forte, e quindi pericolosa, perché oppone uno stereotipo a un altro, quando la realtà e quindi la politica sta da un’altra parte.

In realtà su questioni come innovazione tecnologica e digitalizzazione non possiamo nel 2021 essere ingenuamente tecno-ottimisti e un po’ californiani.

millennials sono più che ventenni, sono persone adulte e voti elettorali che sono cresciute dentro il modello della Silicon Valley.

Forse il dibattito politico dei prossimi mesi, visto l’arrivo del Next Generetion EU e una prevedibile accelerazione di investimenti nel digitale, dovrebbe alzarsi un pò di livello. La questione è: che cosa abbiamo imparato negli ultimi dieci anni di transizione digitale, dopo la creazione di piattaforme come Google, Amazon, Facebook, Apple, e una infinità di più piccole come Uber, Deliveroo, Zoom, Skype, Airbnb, Spotify…

Una prima cosa incontestabile sul medio-lungo periodo è che tutte quante accumulano molti più profitti delle aziende tradizionali: anche sotto pandemia le piattaforme digitali hanno guadagnato molto e in modo monopolistico. Oltretutto, di solito eludono il fisco. Insomma: contribuiscono molto poco alle casse degli stati.

In secondo luogo, l’automazione fa aumentare le disuguaglianze. Chi guadagna bene sono i manager e i creativi di alta fascia. Rispetto a una azienda tradizionale, i team dirigenziali sono composti da poche persone, se paragonato al radicamento globale che ciascuna di queste piattaforme ha. Queste posizioni sono le uniche a percepire un reddito alto.

In terzo luogo, una produzione altamente automatizzata crea disoccupazione cronica e laddove si creano posti di lavoro, godono di pessime condizioni lavorative. Dietro a una App, molto spesso, ci sono persone con salari da fame che sono addett* alla manutenzione, i così detti Turchi Meccanici, pensiamo anche ai lavoratori della logistica e delle consegne, per non parlare di chi allena le intelligenze artificiali nel Sud-est asiatico.

In quarto luogo direi che la digitalizzazione e la computazione delle nostre vite aumenta la polarizzazione della politica e la manipolazione dei comportamenti. Abbiamo già visto come sia aumentata la dipendenza a stare nella infosfera 24/24h e di come si perda il contatto con la realtà. La realtà coincide sempre di più con ciò che pensa la propria bolla. I soggetti privati che detengono il monopolio sulla gestione di questi dati possono sempre di più controllare e determinare i nostri comportamenti. Innovazione tecnologica significa, per chiunque sia del settore, controllo dei dati. Controllo dei dati significa mercato, sorveglianza sociale e potere politico centralizzato in mano al privato.

Queste cose le insegniamo nelle università da almeno 10 anni… Come è possibile che non ci sia un dibattito politico, almeno a partire da questi presupposti, su cosa significa investire nel digitale nel 2021 in Italia?

Davvero credo che questi punti siano poco contestabili e che siano patrimonio comune di chiunque sia davvero dentro al settore.

Per l’agenda neoliberale, investire nel digitale significa privatizzare i servizi creando enormi profitti per alcune imprese del settore, impoverire il welfare pubblico di gettito fiscale, distribuire sempre meno risorse attraverso il lavoro che diventa sempre più flessibile e, infine, dare a queste imprese il potere della sorveglianza sociale.

Suppongo che questo sia il programma del Ministro per l’innovazione tecnologica e transizione digitale Vittorio Colao, perché questo è il programma dell’impresa per cui lavorava prima di diventare ministro: la McKinsey & Company. Scuola di pensiero statunitense di tanti neoliberali tecno-ottimisti che vengono assunti per privatizzare i servizi pubblici e le pubbliche amministrazioni a favore dei big della Tech.

Questo è forse il motivo per cui una economista in gamba, neppure particolarmente di sinistra radicale, come Mariana Mazzucato, se n’è andata sbattendo la porta dalla task-force diretta da Vittorio Colao sotto l’ultimo governo Conte.

All’inizio di questo anno scolastico, su molti diari di bambin*in Italia è arrivata la richiesta di consenso per l’adozione dello strumento Classroom di Google, come stanza per condurre le lezioni e gestire la formazione di alunni e alunne. Questo è solo l’inizio.