Conciliazione vita-lavoro nell’ “Indagine sull’occupazione femminile e maschile nelle imprese lombarde” per il 2014-2015

In attesa di poter visionare il Rapporto sulla situazione del personale 2016-2017, che verrà trasmesso dalle aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti alle Consigliere di Parità regionali e alle RSU entro il 30 aprile,  pubblichiamo un estratto dal documento “Indagine biennale sull’occupazione femminile e maschile nelle imprese con più di 100 addetti” pubblicato sulla pagina della Consigliera di Parità di Regione Lombardia per il biennio 2014/2015. In questo testo si analizzano i dati di quasi 3mila aziende lombarde, cosa che ci permette di avere un quadro d’insieme sulla situazione delle disparità salariali uomo-donna, delle azioni positive a favore della conciliazione vita-lavoro, dell’accesso all’occupazione, alla  formazione e alla carriera delle donne lombarde.

L’estratto che proponiamo si intitola “Welfare aziendale e conciliazione vita-lavoro”. Viene subito da fare un’appunto, essendo il Sial Cobas fortemente contrario al welfare aziendale per tre motivi:

  • i rinnovi contrattuali dovrebbero garantire aumenti significativi in busta paga e invece confindustria e confederali li hanno barattati con il welfare aziendale (benefits/ assicurazioni sanitarie)
  • il welfare aziendale non si traduce in pensione e TFR
  • il welfare aziendale è detassato e quindi impoverisce la casse dello stato e il welfare pubblico. Questo significa per esempio che se si perde il lavoro si perdono le mutue sanitarie e si deve tornare a rivolgersi alla sanità pubblica che nel frattempo è stata dissanguata.

Anche sulla questione della conciliazione vita-lavoro, pensiamo che dei tre“pilastri” delle politiche di conciliazione vita-lavoro, le forme di flessibilità organizzativa e/o oraria realizzate dall’azienda siano le famose “azioni positive” fondamentali. Lo rende evidente il caso della lavoratrice dell’Ikea di Corsico, licenziata perchè non si adeguava al cambiamento di orario di lavoro che non le permetteva di occuparsi dei figli di cui uno disabile al 100%.

Gli altri due pilastri delle politiche di conciliazione (i trasferimenti monetari – congedi, assegni, bonus bebé) – e i servizi di welfare aziendale (per l’infanzia e gli anziani) non sono davvero risolutivi, sempre perchè si presentano come “non universali”. I vari assegni e bonus statali e comunali sono di natura incerta, rinnovati di anno in anno e fino ad esaurimento budget, per cui non coprono tutte le donne che ne avrebbero diritto. Inoltre sono di entità limitata se si considera che l’iscrizione a un anno di nido pubblico è molto onerosa e i posti non sono sufficienti per tutte le richieste. I servizi di cura offerti dal pacchetto di welfare aziendale sono legati al mantenimento del posto di lavoro ed in ogni caso, meglio avere più fondi pubblici per asili di qualità, gratuiti e per tutti, che questo “welfare aziendale” a discrezione dell’azienda, o no?

———————————————————————————————-

Il welfare aziendale e la conciliazione vita-lavoro

Nel biennio 2014-2015, solo il 28% delle aziende aveva in attivo o aveva stipulato delle forme di accordo aziendale o sindacale e/o dei regolamenti interni che prevedono iniziative di conciliazione vita-lavoro o di welfare aziendale.

Tuttavia, la percentuale di aziende che hanno fatto degli investimenti economici in misure di welfare e conciliazione negli ultimi due anni risulta leggermente più alta di quella per le quali risultano attivi accordi o regolamenti di welfare. Essa infatti è pari al 39%, l’equivalente di 1159 su 2977 imprese, nove punti in percentuale in più rispetto alla percentuale di aziende che hanno stipulato accordi o regolamenti interni. Considerando le 1159 aziende che hanno investito in welfare, l’ammontare medio del loro investimento è di circa 2,8 milioni di euro in due anni (pari a circa 1,4 mln l’anno), che corrisponde a una media del 3% sul bilancio. Se però si considerano anche le aziende che non hanno investito alcunché, l’investimento medio in welfare scende a 1 milione di euro in due anni, ovvero 500.000 euro l’anno, pari allo 0,7% del bilancio. Una cifra davvero modesta se si considera l’elevato numero di addetti nelle imprese oggetto dell’indagine e che potrebbero beneficiare dei servizi di welfare aziendali, pari a più di un milione e mezzo.Quanto alle aziende che hanno dichiarato di aver previsto degli investimenti su welfare e conciliazione nell’anno in corso, essa è pari al 37% del totale, ovvero 1112 su 2977 imprese, una percentuale di due punti inferiore rispetto a quella relativa alle aziende che lo hanno fatto negli ultimi due anni. Considerando le sole aziende che intendono investire nell’anno in corso, l’ammontare dell’investimento previsto è di 1,7 milioni di euro, pari al 2,9% del bilancio. Confrontando il dato dell’anno in corso con quello dei due anni precedenti, gli investimenti attuali appaiono più generosi di quelli passati in valore assoluto (1,7 milioni annui nell’anno in corso contro 2,8 negli ultimi due anni ovvero 1,4 milioni l’anno circa). Tuttavia, se considerati in termini di percentuale sul bilancio, essi risultano coerenti (3% sul bilancio negli ultimi due anni vs 2,9% sul bilancio nell’anno in corso). Ciò significa che le aziende prevedono di chiudere il bilancio in crescita rispetto agli anni precedenti, confermando al contempo la stessa percentuale riservata al welfare e alla conciliazione.

Alle aziende è stato chiesto di indicare le forme e gli strumenti di welfare e di conciliazione vita-lavoro in tre diverse domande. La prima domanda riguarda le forme di flessibilità organizzativa e/o oraria. Queste ultime, assieme ai trasferimenti monetari (congedi, assegni, bonus bebé) e ai servizi (per l’infanzia e gli anziani), rappresentano uno dei tre “pilastri” delle politiche di conciliazione vita-lavoro e costituiscono uno strumento molto potente per consentire ai dipendenti di meglio equilibrare il tempo di lavoro con il tempo di cura e/o privato. Le analisi delle risposte indicano che il 75,6% delle 2977 intervistate ha adottato una qualche forma di flessibilità oraria e/o organizzativa. La percentuale è di molto superiore a quella relativa alle aziende che hanno all’attivo accordi o regolamenti sul welfare (circa il 28%, si veda la tabella 3.2). Ciò porterebbe ad affermare che in molti casi le politiche sugli orari di lavoro non sono rientrate né all’interno della contrattazione sindacale/aziendale sul welfare né sono state inserite all’interno dei regolamenti.

Come si evince dalla Figura 3.1, il 24,4% delle aziende non ha adottato alcuna forma di flessibilità organizzativa e/o oraria. Di conseguenza, il 75,6% – ovvero tre aziende su quattro – lo ha fatto. L’elevata percentuale si spiega soprattutto con l’offerta del part-time: il 65,2% delle aziende, ovvero 1941 su un totale di 2977, prevede contratti part-time per i propri dipendenti. Dopo la riduzione del tempo di lavoro, la forma di flessibilità oraria più utilizzata è quella che riguarda gli orari di entrata ed uscita, prevista da 1281 aziende, ovvero dal 43% del totale. La terza forma di flessibilità più diffusa è la banca delle ore, che interessa il 27,7% delle aziende, seguita dagli orari flessibili su base settimanale o mensile (19%). Risultato deludente per quanto riguarda invece il lavoro agile, utilizzato dal 4,9% delle aziende. La seconda domanda sugli strumenti di welfare è dedicata ai congedi parentali, di maternità e di paternità. Purtroppo riteniamo che gli items (ovvero le possibili risposte) non sono stati posti in maniera adeguata, lasciando al rispondente la facoltà di scegliere tra quattro tipologie: paternità, maternità facoltativa, congedo parentale e permessi ex legge 104. Poiché la maternità facoltativa è il termine con cui – prima dell’entrata in vigore della legge 53/2000 – si chiamavano i congedi parentali, nelle risposte c’è un’evidente sovrapposizione fra due item, ovvero fra maternità facoltativa e congedo parentale, che nel caso delle donne con le attuali norme coincidono. Perciò, riteniamo che l’unico item che può essere correttamente commentato è quello relativo ai permessi per l’assistenza agli anziani con disabilità (ex legge 104), utilizzato dall’82% delle imprese. Alle aziende è stato infine chiesto di segnalare quali ulteriori strumenti di welfare hanno adottato nel biennio con la possibilità di scegliere tra diverse possibilità. Queste ultime includono sia trasferimenti monetari veri e propri sia servizi o voucher utilizzabili per usufruire dei servizi. La figura sottostante riporta, per ciascuna risposta, la percentuale di imprese, sul totale delle 2977,che hanno attivato il corrispettivo strumento di welfare aziendale. Quello più diffuso è il ticket restaurant, adottato dal 60,7% delle imprese. Il secondo strumento più utilizzato è quello che riguarda la previdenza complementare, con il 23,6% delle aziende che offre la possibilità, per il dipendente, di beneficiare di forme integrative della pensione. A seguire, il 10,4% delle aziende elargisce liberalità occasionali in concomitanza con la nascita dei figli dei dipendenti (nella forma, per esempio, di un “bonus bebé” aziendale) o in occasione di altri eventi della vita dei dipendenti. Percentuale molto simile per quelle aziende che offrono sconti sui trasporti (10,3%). Seguono le borse di studio per i figli (9,6%), i bonus per l’acquisto di beni e consumo (9%), per l’assistenza sanitaria (8,8%), per i servizi di cura per l’infanzia come asilo nido o baby-sitting (8,3%) e per i centri estivi e per vacanze studio per i figli dei dipendenti (6,6%). Da notare da una parte la modesta percentuale di aziende che hanno adottato strumenti di welfare che consentono ai dipendenti di usufruire dei servizi di cura per l’infanzia (l’8,3%) e dall’altra parte la ancor più bassa percentuale di aziende che offrono servizi (o voucher utilizzabili in servizi) per familiari anziani o con disabilità: solo il 2,5% dei casi. In sintesi, dai dati emerge che l’offerta di servizi di cura (o di voucher che ne riducano il costo) resta una politica di welfare ancora poco utilizzata dalle aziende, e ancor meno utilizzata per quanto riguarda la cura degli anziani.

Confrontando il dato sui servizi per gli anziani con il dato, sopracitato, che riguarda l’utilizzo dei congedi per la cura degli anziani disabili, emerge un chiaro sbilanciamento a favore del secondo (a cui ricorre l’82% delle imprese) rispetto al primo (fornito solo dal 2,5% delle aziende). In altre parole, le aziende tendono a promuovere quegli strumenti, come la legge 104, che affidano la responsabilità della cura al dipendente, al quale è consentito assentarsi dal lavoro per farsi carico del genitore o del parente disabile. Al contrario, quegli strumenti che consentirebbero invece di esternalizzare le attività di cura tramite servizi non vengono adeguatamente promossi. Eppure, è noto che dei “tre pilastri” della conciliazione (trasferimenti economici, servizi e politiche degli orari), sono proprio i servizi (secondo pilastro), coniugati con le politiche sugli orari (terzo pilastro), a garantire il mantenimento di un alto livello di occupazione femminile riducendo il rischio di fuori-uscita delle donne dal mercato del lavoro a causa delle mancate possibilità di conciliare l’attività di cura con quella professionale (Crompton 2006, Orloff 2006 e 2008). Pertanto il buon risultato sul fronte dei congedi per la cura degli anziani disabili dovrebbe essere accompagnato da politiche altrettanto efficaci sul fronte dei servizi della cura, in modo da lasciare ai dipendenti – quasi sempre donne – maggiore libertà di scelta rispetto alla modalità con cui si intende farsene carico. Lo stesso ragionamento vale per la cura dei figli. Pur non avendo dati che con certezza ci indichino l’utilizzo dei congedi parentali e quindi l’utilizzo della maternità facoltativa, quell’8,3% di aziende che dispongono di nidi aziendali o che offrono ai propri dipendenti i voucher per il nido o il baby-sitting ci appare ancora troppo bassa, a fronte degli elevati costi degli asili nidi in Lombardia.