Le «politiche attive» che non smuovono lo stagno
di Marta Fana, da Il Manifesto del 17 agosto 2016
La notizia dell’avvio dei lavori della nuova Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro prova a smarcare il governo dalla responsabilità di un’economia stagnante. La risposta, ancora una volta, è basata esclusivamente sulle politiche dal lato dell’offerta (di lavoro) e ignora il dato più rilevante: l’occupazione non cresce perché non si crea lavoro.
Stando alle informazioni emerse fin dai tempi dell’approvazione del Jobs Act e ad oggi confermate, fulcro delle nuove politiche attive sarà il cosiddetto assegno di ricollocazione, o più infelicemente un voucher, da spendere in formazione o riqualificazione. Tanto più lontano il disoccupato è dalla probabilità di trovare un lavoro tanto maggiore sarà l’assegno. Questo assegno però potrà essere revocato nel caso in cui il disoccupato rifiuterà un’offerta di lavoro congrua rispetto alle proprie competenze, alla distanza tra la residenza/domicilio e il luogo di lavoro e la retribuzione.
Il meccanismo di iscrizione per l’ottenimento dell’assegno assomiglia fin troppo al processo di registrazione alla Garanzia giovani, il cui mancato successo è inequivocabilmente registrato dall’Eurostat, secondo cui, nel 2015, l’Italia registra il record di giovani Neet, coloro che non studiano e non lavorano. Il finanziamento dell’operazione di responsabilità dell’Anpal sfrutterà le risorse liberate dalle minori richieste di assegni di disoccupazione registrate nel 2015, senza che nessuno si chieda quante di queste risorse siano in realtà state sottratte a tutte quelle categorie, come gli stagionali, per cui la Naspi è solo una chimera.
Inoltre, le risorse disponibili per il prossimo anno rappresentano l’ennesimo tentativo di gestire una politica strutturale con dotazioni una tantum, a meno di non voler pensare che la disoccupazione diminuirà costantemente o più verosimilmente aumenteranno le categorie di lavoratori che in caso di cessazione del rapporto di lavoro non hanno diritto alla Naspi, ad esempio i lavoratori occasionali retribuiti a mezzo di voucher.
Ancora più rilevante è notare che ci si appresta ad attuare un provvedimento, secondo molti epocale, senza mai guardare alla domanda di lavoro, quindi alle imprese, le stesse che nell’ultimo trimestre hanno addirittura registrato una riduzione della ricerca di personale, sia nell’industria che nei servizi. Ennesima dimostrazione che il moltiplicatore degli sgravi concessi, nel 2015 e in misura inferiore anche nel 2016, sul costo del lavoro è, quando non negativo, nullo.
Non soltanto, il lavoro creato negli ultimi due anni è sempre più a bassa qualità, sia dal punto di vista delle mansioni svolte, sia dal punto di vista dei diritti e delle retribuzioni. Un risultato atteso, così come la frenata del Pil. Nello schema noto della domanda e dell’offerta, quando l’offerta supera costantemente la sua controparte, il risultato non può che essere un abbassamento del prezzo, che in questo caso è il salario. Un automatismo del mercato, sempre più spesso lasciato operare liberamente come si trattasse di brioche. Addirittura, Maurizio Del Conte, presidente Anpal, dichiara al Sole24ore che alle imprese verrà chiesto «un coinvolgimento, su base volontaria per fornirci le vacancy» dei posti di lavoro. E «stiamo studiando anche la possibilità di riconoscere all’azienda un contributo di outplacement». Mettere a disposizione delle imprese ulteriori fondi per trattenere per qualche mese un lavoratore, così come è stato appunto per la Garanzia giovani.
La stagnazione economica è un risultato che non dipende da fattori esterni, dall’impianto costituzionale – i cui principi fondamentali sono spesso disattesi -, ma solo ed esclusivamente da scelte politiche, con cui non bisogna scendere a compromessi. Se ad oggi, la piena occupazione appare un miraggio, forse non vale altrettanto per la riduzione dell’orario di lavoro, che si affaccia sul presente come una pura e autentica necessità.
Ma per ribaltare la miopia non disinteressata che ha fin qui caratterizzato la politica, bisogna ripartire da una visione del lavoro integrata con la questione della produzione, quindi della creazione di posti di lavoro di cui non può occuparsi in via esclusiva il settore privato.