Salute e sicurezza sul lavoro: la parola al Sial Cobas

Quando si parla di rischi e di danni da lavoro viene immediatamente da pensare alle conseguenze degli infortuni, cose che sono più o meno evidenti nell’immediato, man mano che si verifica un evento e di cui si conosce un esito. Ma non è tutto qui. Le malattie professionali spesso sono sottovalutate dai datori di lavoro e troppo poco approfondite dal medico competente. Anche in questo ambito chi lavora deve conoscere i propri diritti per esercitarli. “Tra i danni del lavoro le malattie professionali sono ampiamente sconosciute, pur costituendo un enorme fardello per la salute del lavoratore. Si denunciano poco e, nonostante le denunce, il più delle volte vengono non riconosciute dagli Enti preposti”, avverte Claudio Mendicino, medico del lavoro, già Organo di vigilanza Ats di Milano. Vediamo insieme al Sial Cobas cosa possiamo fare per tutelarci.

Iniziamo col rispondere a qualche domanda.

Cosa si intende per malattia professionale? Si tratta di qualsiasi stato morboso che possa essere posto in rapporto causale con lo svolgimento di una qualsivoglia attività lavorativa. Contrariamente all’infortunio, si sviluppa nel tempo e ciò rende più difficile (ma non impossibile) dimostrarne la dipendenza dall’attività lavorativa.

“L’importanza di una prevenzione nei luoghi di lavoro sugli aspetti della salute (oltre alla sicurezza antinfortunistica) è fondamentale – spiega Mendicino -. E la sorveglianza sanitaria dovrebbe essere regina della modalità con cui contrastare la tendenza di ammalarsi per causa lavorativa. Dico dovrebbe perché il più delle volte è constatato che non si svolge secondo i canoni che dovrebbero essere seguiti e i risultati si vedono”. Questo perché, ammette l’esperto, “l’attività che i medici competenti svolgono nelle aziende per portare avanti la sorveglianza sanitaria dei lavoratori è sempre più routinaria, sempre meno legata al raggiungimento di risultati utili al lavoratore e sempre più utili invece alla necessità di ottemperare astrattamente delle norme”.

Il medico competente, ricordiamolo bene, ha dei doveri e il lavoratore deve conoscere quali sono gli aspetti legati all’attività di sorveglianza sanitaria.

La visita deve tendere a individuare i rischi, criticità che il sanitario è obbligato a conoscere. Il medico competente, che conosce i rischi del luogo di lavoro in cui opera, deve poter svolgere l’attività sanitaria mirando ad appurare l’esistenza e le conseguenze di quei rischi specifici. In che modo? “Svolgendo attività mediche periodiche utilizzando gli strumenti in suo possesso tra cui la cartella sanitaria prevista dalla legge, registrando i dati del lavoratore, gli esami che il lavoratore cita nel corso della visita, tutto ciò che il lavoratore riferisce legato alla sua salute. Deve inoltre indicare che tipo di approfondimenti effettuare”, dice Mendicino. Su questi, prosegue, “vale la pena precisare che quando il medico competente richiede accertamenti finalizzati a esprimere un giudizio di idoneità, questi accertamenti sono a carico del datore di lavoro, come previsto per legge. Non devono quindi essere demandati al medico di base”.

E una volta ottenuto l’esito?

Il giudizio può essere di idoneità piena o parziale, con prescrizioni e/o limitazioni, oppure di non idoneità. Il datore di lavoro non può non tenerne conto.

“Vale la pena ricordare che è la stessa norma, ovvero il decreto 81, che prevede che quando c’è un giudizio di limitazione e di non idoneità il datore di lavoro deve ricollocare il lavoratore non idoneo ad altra mansione”, specifica Mendicino. Non dobbiamo dimenticare che il giudizio di non idoneità è relativo a una mansione specifica, non al lavoro. Inoltre, “anche quando il giudizio è di altra natura il lavoratore non deve necessariamente accettarlo come se fosse intoccabile: la legge tutela il lavoratore che lo richiede attraverso l’istituto consolidato del ricorso avverso il giudizio del medico competente”. Contrariamente a quello che si pensa non si tratta di una denuncia, di qualcosa che ha a che fare con conseguenze legali che spesso spaventano il lavoratore. “Si tratta di un ricorso che il lavoratore fa all’azienda sanitaria di riferimento, in Lombardia ATS, nel resto d’Italia ASL, e nello specifico all’organo di vigilanza affinché richiamando il lavoratore a visita possa, dice la legge, confermare, modificare o revocare il giudizio del medico competente e esprimerne uno alternativo”.

In tutti i casi, il lavoratore ha diritto ad avere una idoneità specifica alla mansione che sia rispettosa delle sue problematiche di salute.

Qualora, e capita frequentemente, nonostante una buona sorveglianza sanitaria si dovessero verificare problematiche di salute che il lavoratore ipotizza essere in parte o in tutto dipendenti dall’attività svolta, che fare? “E’ importante che venga riconosciuta la dipendenza della malattia dal lavoro sia perché costituisce un giusto diritto al risarcimento, anche se non gli darà la salute che aveva prima; sia perché attraverso questi meccanismi gli organi di vigilanza hanno il dovere di intervenire per evitare che peggiori il danno e soprattutto che lo stesso si verifichi per altri lavoratori”, spiega Mendicino.

Ma perché un danno già conclamato, quale è una malattia professionale, acquista una valenza preventiva nei confronti dei rischi lavorativi?

Perché, una volta avviato l’iter di riconoscimento, la pratica si snoda in due filoni differenti:

  1. La segnalazione perviene a INAIL, che dopo avere valutato il caso, visionata la documentazione sanitaria e “visitato” il lavoratore in questione, decide se riconoscere o meno l’origine professionale del danno (spesso non la riconosce o quantifica il relativo danno biologico in misura incongrua; in questi casi è necessario rivolgersi al sindacato/patronato, per avviare le procedure di contestazione di tale decisione).
  2. Parallelamente e contemporaneamente la segnalazione/referto giunge per via telematica all’organo di vigilanza sui luoghi di lavoro dell’ASL/ATS (SPRESAL, SPISAL, etc), che è tenuto ad avviare un’indagine di polizia giudiziaria, in quanto si tratta di contrastare un reato (lesioni colpose o omicidio colposo – rispettivamente art. 590 e 589 del codice penale) perseguibile d’ufficio. Questa indagine, nell’ambito della quale il sindacato può e deve fare sentire la propria voce e controllare l’operato, consente all’organo di vigilanza di mettere in luce le cause che hanno determinato la malattia professionale e di pretenderne la rimozione o, quando ciò non sia possibile, la mitigazione.

A conclusione: cosa può fare la lavoratrice e il lavoratore per tutelarsi? Tutte le attività di tutela possono essere fatte in autotutela dal lavoratore, ma trovano il massimo della loro utilità attraverso la messa in comune delle esperienze sia a livello aziendale attraverso i delegati sindacali, i collettivi che si occupano di salute e sicurezza, e soprattutto le figure dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza detti RLS, dai quali bisogna pretendere che una volta eletti e nominati svolgano il loro compito; sia attraverso il supporto che il sindacato può dare all’esterno dell’azienda, attraverso sportelli dedicati a queste tematiche, come quelli gestiti dal Sial Cobas e a cui è possibile attingere tutte le volte che la lavoratrice e il lavoratore ne necessita.

Contrariamente a quanto si pensa (e a quanto insinuano i datori di lavoro), non è il lavoratore che “denuncia” la malattia professionale, bensì qualsiasi medico (di base, specialista, del patronato) che, anche solo nel sospetto di una relazione tra la patologia del proprio assistito e l’attività lavorativa da questo svolta, deve segnalare la cosa agli organi preposti, INAIL, ASL/ATS e Ispettorato del lavoro.

Nella pratica quotidiana sono rarissimi i casi in cui i medici di famiglia o gli specialisti fanno partire, attraverso la redazione telematica di quello che si chiama “primo certificato di malattia professionale”, l’iter di riconoscimento di cui sopra. E’ per questo che, con l’obiettivo di fare emergere i troppi casi di vere e proprie patologie dovute al lavoro, ampiamente oscurati e negati, bisogna mettersi in contatto con organizzazioni sindacali in grado di portare avanti le istanze dei lavoratori.

Tutto ciò, senza che il lavoratore si senta (o sia indotto a sentirsi) “colpevole” di aver denunciato il proprio datore di lavoro e/o i propri dirigenti. Il sindacato, oltre a tutelare il lavoratore malato nei confronti dell’ente assicurativo (l’INAIL, per l’appunto) spesso sordo e inadempiente, potrà spingere l’organo di vigilanza preposto (il servizio ASL/ATS deputato alla tutela dei lavoratori) a compiere il proprio dovere di verifica dei fattori di rischio professionali che hanno prodotto la malattia e, una volta individuati e accertati, a disporne la rimozione da parte dell’azienda responsabile, che ne dovrà rispondere anche in sede penale e civile.

Trovi il video completo dell’intervento di Claudio Mendicino sul canale Youtube del sindacato Sial Cobas, LaborWeb, cliccando QUI.