Al centro della vittoria di 10 anni fa sull’acqua c’erano i servizi pubblici, ancor più importanti oggi con la pandemia. Il risultato è stato disatteso dal «partito» della privatizzazione, ma i beni comuni son divenuti elemento unificante
di Tommaso Fattori, da Jacobinitalia.it del 12 giugno 2021
L’assoluta attualità del referendum tradito è rivelata dalla pandemia. La prima ovvia lezione che ci viene dalla crisi multiforme in cui siamo immersi è che i servizi pubblici sono essenziali per la vita e che il futuro della società non può essere lasciato nelle mani, visibili o invisibili, del mercato. Avremmo affrontato diversamente l’epidemia se negli anni passati centrodestra e centrosinistra non avessero definanziato il sistema sanitario e la scuola, se non avessero smantellato la ricerca pubblica e privatizzato la gestione dei servizi essenziali, dal trasporto pubblico locale alle Rsa, se non avessero distrutto i diritti del lavoro rendendolo normalmente precario e semischiavizzato, con milioni di persone ormai prive delle minime tutele. E se non avessero ucciso sul nascere ogni forma di democrazia partecipativa e lentamente manomesso i meccanismi della democrazia parlamentare, al punto che oggi un governo di larghissime intese procede per cabine di regia tecniche e con le solite valanghe di decreti legge.
L’importanza di avere un sistema sanitario pubblico e servizi essenziali gestiti secondo la logica dell’interesse collettivo, non del profitto di pochi, è ormai evidente anche a chi ha sostenuto per anni la necessità dei tagli e delle privatizzazioni. Hanno fatto bene i sindacati a ribadire come il lavoro dei dipendenti dei servizi pubblici fondamentali, dalla sanità all’acqua e ai trasporti, abbia permesso agli ospedali di funzionare anche nelle settimane più drammatiche. I servizi pubblici sono funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali di tutti noi.
E la battaglia per l’acqua pubblica culminata con il referendum del 2011 – simbolica testa d’ariete per aprire una più universale campagna di riappropriazione dei beni comuni, cura del mondo, ricostruzione di legame sociale – è confermata nella sua piena attualità proprio dall’oggettivo intreccio delle tante dimensioni di questa crisi pluridimensionale, che non è solo sanitaria ma anche ecologica, economica e sociale. Fra la vittoria referendaria del 2011 e questa pandemia c’è stato per la verità un altro evento traumatico che ha rivelato come l’assioma neoliberista «pubblico = inefficiente, privato = virtuoso» si stia sbriciolando sotto i colpi dell’esperienza vissuta e dell’evidenza empirica: il crollo del Ponte Morandi.
Stiamo assistendo in questi ultimi tempi anche al miserevole spettacolo di chi invoca lo Stato dopo aver incensato per decenni la funzione salvifica del mercato e dei privati, invocando il taglio indiscriminato delle tasse. Tanti corifei del liberismo duro e puro che hanno contribuito alla demolizione dello stato sociale, dalla sanità alla previdenza, dalla scuola ai trasporti, adesso chiedono sussidi a fondo perduto e massicci interventi e investimenti pubblici. Esattamente come è accaduto dopo la crisi del 2008 per salvare il sistema finanziario globale con soldi pubblici.
Il movimento come legislatore
Sono passati dieci anni dai referendum del 2011 e sono passati quasi vent’anni dal primo Forum Mondiale Alternativo dell’Acqua tenutosi a Firenze nel 2003, sull’onda lunga delle giornate di Genova 2001 e del Forum Sociale Europeo del 2002. Erano i primi passi del movimento per l’acqua, che in quella fase originaria portò alla formazione di un Forum regionale in Toscana e all’elaborazione collettiva della prima legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico integrato, allora su scala regionale, che raccolse 43 mila firme in pochi mesi.
Fin dai suoi albori, il movimento per l’acqua ha affiancato alla pars destruens, ossia alla critica dei processi di privatizzazione, una pars construens. Ha elaborato in forma partecipativa un modello alternativo di gestione dell’acqua concreto e dettagliato che consente di andare oltre la privatizzazione e oltre le distorsioni delle vecchie forme di gestione pubblica. Non basta ripubblicizzare ciò che è stato in varia forma privatizzato, occorre «ripubblicizzare il pubblico» e renderlo comune e partecipato. La pars construens è stata fin dall’inizio condensata, per l’appunto, in leggi di iniziativa popolare: il movimento si è fatto legislatore. Dopo la prima legge toscana, il percorso del movimento legislatore è continuato costituendo nel 2006 il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua e poi, l’anno successivo, elaborando una legge d’iniziativa popolare nazionale, ancora oggi ferma in Parlamento dopo essere stata trasformata in legge di iniziativa parlamentare, e un’altra legge regionale, stavolta nel Lazio, l’unica andata in porto e approvata ancorché rimasta inattuata, un destino analogo a quello del vittorioso referendum del 2011.
Il significato epocale del referendum e la democrazia dimezzata
Il voto referendario del 2011 ha avuto un significato epocale. La grandissima maggioranza del popolo italiano si è espressa nettamente per fermare il processo di privatizzazione che pareva inarrestabile, chiedendo la totale ripubblicizzazione dei servizi locali e l’esclusione dei profitti dalla gestione dell’acqua e dei beni comuni. Il modello di privatizzazione che si intendeva perseguire prima del referendum era quello britannico, che prevede il ricorso obbligatorio a gare per l’affidamento della gestione dei servizi di pubblica utilità, vietando agli enti locali la gestione diretta o tramite azienda propria. Non è stata quindi la sconfitta del governo Berlusconi ma la sconfitta di un’ideologia privatista che aveva da tempo incantato anche il centrosinistra, ormai del tutto incapace di distinguere fra sfera delle merci e sfera dei beni comuni, fra sfera del mercato e sfera dei servizi pubblici di interesse generale, fra consumatori e cittadini. Fino al punto di ritenere naturale che tra le finalità di un servizio pubblico vi sia quella di distribuire dividendi agli azionisti, remunerare i capitali, generare profitti. Il voto del 2011 ha sconfitto i privati a caccia di rendite parassitarie in servizi vitali e fondamentali ma anche le oligarchie politiche che avevano contribuito alla degenerazione del modello pubblico avviando i primi partenariati pubblico-privato.
A dieci anni dal referendum tradito è lecito domandarsi quanto conti la volontà popolare e cosa significhi che «la sovranità appartiene al popolo». Che il voto referendario non avesse seguito i desiderata del sistema politico è cosa nota. I cittadini non tennero in conto, anzi contraddissero, le indicazioni dei partiti di riferimento, a partire dalla base degli elettori di destra che votò per l’acqua bene comune. Così fece anche l’elettorato del Pd, i cui vertici decisero di dare una timidissima indicazione per il Sì a pochi giorni dal referendum, quando era ormai chiaro quale fosse il sentimento del Paese. Renzi, allora sindaco di Firenze e futuro segretario nazionale, aveva comunque mantenuto la sua netta indicazione per il No, mentre Pierluigi Bersani ebbe a dichiarare subito dopo la consultazione referendaria che quel voto «andava interpretato», scegliendo una posizione a metà fra Don Abbondio e Azzeccagarbugli.
In questi dieci anni si sono susseguiti governi di ogni sorta, tecnici o pseudotecnici, di centrodestra, di centrosinistra, fino agli ultimi esecutivi autoproclamatisi «del cambiamento» o di unità e salvezza nazionale. La verità è che quanto è stato trasversale agli orientamenti politici il voto popolare a favore dell’acqua pubblica, altrettanto trasversale alle forze parlamentari è il partito della privatizzazione, dal Pd alla Lega, passando per Fratelli d’Italia, Forza Italia, Italia Viva e tante altre microformazioni. Nè ha brillato il M5S, la cui prima stella avrebbe dovuto essere proprio l’acqua pubblica ma che ha visto tanti suoi deputati presentare emendamenti che, se accolti, stravolgerebbero la legge nei suoi principi e nel suo impianto.
Questo fronte trasversale conta sui grandi gruppi editoriali che in questi anni hanno sempre descritto come apocalittico lo scenario che sarebbe seguito all’approvazione della legge dei movimenti, rilanciando in particolare la campagna allarmistica orchestrata da Utilitalia e dal fronte dei gestori sui costi della ripubblicizzazione erroneamente stimati in 23 miliardi di euro. In realtà la ripubblicizzazione, come ben chiarito da uno studio dettagliato del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua che smonta pezzo a pezzo la tesi di Utilitalia, costerebbe al massimo 2 miliardi di euro ma genererebbe vantaggi immediati che permetterebbero di recuperare questa cifra in breve tempo. Nel complesso, i vari soggetti gestori producono ogni hanno più di 700 milioni di euro di utili che in un caso di gestione pubblica verrebbero utilizzati nei primi tre anni per recuperare il costo della ripubblicizzazione e in seguito sarebbero utilizzati per aumentare la quota degli investimenti.
Quanto all’attuale presidente del consiglio Mario Draghi, fu il primo a rendere esplicita la volontà di ribaltare l’esito referendario. Nell’agosto del 2011, a meno di due mesi dal voto, in qualità di governatore della Banca d’Italia, Draghi firmò, insieme al presidente della Bce Trichet, la famosa lettera all’allora presidente del consiglio Berlusconi in cui indicava come necessaria «una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali» e aggiungeva che ciò avrebbe dovuto riguardare in particolare «la fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala». Ecco perché non stupisce che il Pnrr del governo Draghi nasconda un ennesimo tentativo di procedere sulla vecchia strada, ma attraverso una strategia diversa da quella di dieci anni fa: non più obbligare alla privatizzazione ma raggiungere lo stesso risultato promuovendo e incoraggiando il modello della grandi Multiutility quotate in Borsa. La riforma del settore idrico contenuta nel Pnrr, così come rivisto dal governo Draghi, mira di fatto alla privatizzazione del servizio idrico, in particolare nel Mezzogiorno, incoraggiando alla costituzione di grandi «operatori integrati».
Cosa è successo dopo il tradimento del referendum? Acqua, clima e finanza
Cosa è successo in questi anni? Certamente siamo stati facili Cassandre, considerato che una gestione privatistica del servizio idrico ha come obiettivo primario il profitto e che il profitto si ottiene sempre aumentando le tariffe, precarizzando il lavoro e riducendone il costo, non effettuando gli investimenti necessari, abbassando la qualità del servizio e aumentando i consumi. Questo accade con le Spa dell’acqua e accade con le grandi Multiutility, che soffrono oltretutto delle diseconomie di scala che tipicamente caratterizzano le gestioni di eccessive dimensioni.
Avevamo previsto anche il progressivo peggioramento della qualità delle acque di falda e di superficie, frutto di un complessivo modello di sviluppo distruttivo e dell’incapacità di preservare il ciclo delle acque nella sua integrità e di garantire, attraverso i piani di bacino, il giusto equilibrio tra prelievi e capacità naturale di ricostituzione della risorsa. Oltretutto la privatizzazione genera contraddizioni evidenti: il gestore dovrebbe incentivare il risparmio idrico e un uso più consapevole dell’acqua, ma se ciò avviene, si riduce anche il profitto. Insomma, molto poco è stato fatto per ridurre i consumi, ristrutturare le reti e migliorare i sistemi di depurazione, a partire dalla necessaria separazione di acque nere e acque meteoriche. Nulla è stato fatto per restituire la vegetazione alle aree che abbiamo inaridito o per riprogettare le città e le abitazioni contemplando aree verdi, sistemi di immagazzinamento di acqua piovana e reti cosiddette duali. Poco e nulla è stato fatto per favorire una vera economia circolare e la massiccia transizione a pratiche agricole biologiche e prive di veleni. Una visione sistemica che è purtroppo mancata e che è invece fondamentale anche per contrastare il caos climatico.
Infine avevamo visto giusto prevedendo il progressivo processo di mercificazione e finanziarizzazione dell’acqua, ormai da tempo scambiata sui mercati finanziari come una merce qualsiasi. Esistono svariati Etf che riflettono l’andamento di titoli legati a questo bene vitale e c’è persino qualche fondo specializzato. Ma da pochi mesi il Cme Group, la più grande piazza finanziaria globale dei contratti a termine, ha creato il primo future al mondo sull’acqua, ossia uno di quei contratti derivati che consentono di acquistare un prodotto a un prezzo prefissato, in un periodo differito nel tempo. Il derivato impiega come sottostante il Nasdaq Veles California Water Index, che a sua volta rispecchia il prezzo dei diritti sull’acqua in California, un mercato che vale oltre un miliardo di dollari. L’acqua dolce e di buona qualità è sempre più scarsa. A seguito della crisi climatica, l’acqua stoccata nei ghiacciai e nelle nevi perenni si sta riducendo e a ciò si sommano l’inquinamento delle falde e il sovrasfruttamento della risorsa idrica da parte dei nostri sistemi produttivi. Insomma, grazie al cambiamento climatico, all’inquinamento e all’attuale modello produttivo il valore dell’investimento nell’asset finanziario acqua è destinato a salire. Scrivo «grazie a», non «a causa di», dato che, dal punto di vista di chi specula sui mercati finanziari, la scarsità della risorsa è tendenzialmente un fatto positivo. Per riprendere le parole di Cme «con quasi due terzi della popolazione mondiale che affronterà la scarsità d’acqua entro il 2025, questa crisi rappresenta un rischio crescente per le imprese e le comunità in tutto il mondo» e di conseguenza rappresenta un’ottima opportunità di investimento e di guadagno.
Anche l’acqua è quindi oggetto di speculazione finanziaria da parte di investitori che scommetteranno sul fatto che in futuro il suo prezzo possa salire o scendere sui mercati, e che si arricchiranno giocando su queste oscillazioni, come già accade per svariate materie prime.
La speranza, l’impegno, la vittoria
In tutti questi anni il movimento per l’acqua bene comune ha dimostrato una considerevole capacità di resistenza. Si è indebolito rispetto al 2011 ma è sempre stato in grado di mantenere vive e attive molte vertenze territoriali e un coordinamento nazionale. Ha fatto da argine alle incessanti spinte privatrizzatrici e ha avuto la lungimiranza di allargare il proprio orizzonte, impegnandosi nella costruzione di un movimento europeo per l’acqua capace di iniziativa su scala internazionale, come nel caso dell’Ice Right2Water.
A me pare che tanto nella dimensione nazionale che in quella internazionale si debba lavorare per rafforzare un’alleanza ecologista e altermondialista per la giustizia sociale, ambientale e climatica. In questi anni sono infatti apparsi sulla scena altri movimenti fratelli, come i Fridays for Future, e altre reti sorelle, come la Società della Cura. Apparentemente meno strutturato e meno visibile, sta prendendo forma anche un movimento che utilizza il concetto dei beni comuni come elemento unificante e capace di dare un orizzonte di senso a percorsi e pratiche fra loro diverse per dimensione e oggetto, che vanno dal recupero di immobili abbandonati alla coltivazione collettiva di terre, dalla produzione di beni comuni digitali alla reinvenzione di nuovi modelli di gestione partecipativa dei servizi pubblici. Ciò che unisce questi mondi è il commoning, ossia l’attività di condivisione, autonormazione e autogoverno che crea legame, relazioni e comunità aperte. E che genera esternalità ambientali e sociali positive, cura e riproduzione di beni condivisi.
Molto più statico e regressivo è invece il panorama della politica istituzionale, in stretto rapporto con i grandi poteri economici da cui dipende anche in termini finanziari. Resta così a oggi incolmato l’abisso fra la volontà espressa nel 2011 dalla maggioranza degli italiani e l’opposta volontà della grandissima parte del mondo politico, che continua silenziosamente a perpetuare la mercificazione dei beni comuni e dei servizi pubblici. Una frattura che non potrà continuare ancora a lungo, dato che ogni volta che la tragedia delle privatizzazioni si manifesta, come nel caso del crollo del Ponte Morandi, nella popolazione crescono rabbia e consapevolezza. Ecco perché non smetteremo di impegnarci, di organizzarci e di lottare finché non ci saremo ripresi i beni comuni e finché non avremo ottenuto dal Parlamento una legge che dia finalmente attuazione a ciò che il popolo ha stabilito in quei referendum di dieci anni fa.
* Tommaso Fattori è stato fra i principali promotori dei Referendum del 2011, ambasciatore europeo dell’Ice Right2Water, membro fondatore del Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua e dello European Water Movement.