Previdenza complementare e pensioni da fame
Guardare il dito e ignorare la luna
di coniarerivolta del 5 febbraio 2020
Siamo nel bel mezzo di un rinnovato dibattito sulle pensioni. Complice l’imminente fine della “sperimentazione” di quota 100 (che, ricordiamo, era prevista per il triennio 2019-2021) e del manifestarsi del cosiddetto “scalone”, si torna a parlare di come riformare il sistema pensionistico. Nelle settimane scorse, sulle pagine de “Il Foglio” si è sviluppato un dibattito circa la previdenza complementare. La discussione trae origine da due recenti proposte: da un lato, quella avanzata dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, di istituire un fondo pensione complementare gestito dall’Inps, volontario e a capitalizzazione; dall’altro, quella rilanciata da Massimo Mucchetti, giornalista ed ex senatore del PD, di istituire un fondo pensione complementare pubblico, sempre a contribuzione volontaria e gestito dall’Inps, ma a ripartizione.
Come si vedrà, nessuna di queste proposte è rivoluzionaria. I problemi del sistema pensionistico italiano, che difficilmente possono essere risolti con forme di previdenza complementare, sono ben più profondi e ben diversi da quelli normalmente indicati dai “tecnici”, che suggeriscono riforme sempre più draconiane. Senza politiche finalizzate alla piena occupazione e ad un aumento significativo dei salari sul mercato del lavoro, il problema del nostro sistema pensionistico è destinato ad acuirsi di fronte al progressivo invecchiamento demografico. Il dibattito menzionato, tuttavia, è interessante perché ci permette di evidenziare gli interessi che si muovono intorno alla ghiotta torta del risparmio dei lavoratori. Ma andiamo, come al solito, con ordine.
La previdenza complementare (o “previdenza di secondo pilastro”) è stata introdotta in Italia con il decreto legislativo 124 del 1993. Lo scopo di questa forma di risparmio previdenziale è quello di integrare la previdenza obbligatoria (o “previdenza di primo pilastro”), finanziata attraverso i contributi che il lavoratore e il datore di lavoro sono tenuti, per legge, a versare. In altri termini, i lavoratori possono decidere su base volontaria di versare una parte dei propri risparmi – nonché il proprio TFR (trattamento di fine rapporto, ossia la liquidazione) – in determinati fondi, con lo scopo di ottenere una prestazione pensionistica aggiuntiva rispetto a quella obbligatoria al momento del pensionamento. Si tratta, in sostanza, di una forma di detenzione del risparmio alternativa a quella che può essere rappresentata dall’acquisto di titoli di Stato, azioni, obbligazioni (e così via…), tramite intermediari finanziari o in autonomia.
A differenza, però, di queste forme di detenzione del risparmio, per la previdenza complementare sono previste alcune disposizioni specifiche: agevolazioni fiscali volte a incentivarne l’utilizzo; un’apposita autorità di controllo, la COVIP (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione); forme di silenzio-assenso per quanto riguarda il conferimento del TFR in fondi pensione. In particolare, se il lavoratore non decide cosa fare del suo TFR, in alcuni casi esso è automaticamente trasferito nel fondo pensione previsto dai contratti collettivi applicabili o dalla legge.
Esistono quattro diversi tipi di fondi pensione: i fondi pensione negoziali (istituiti dalle parti sociali, sindacati e datori di lavoro, nell’ambito della contrattazione collettiva), i fondi pensione aperti (gestiti da banche, assicurazioni e altri operatori finanziari), i piani individuali pensionistici e i fondi pensione preesistenti al 15 novembre 1992. La materia è regolata dal decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 e prevede un sistema di contribuzione volontaria e a capitalizzazione, mentre la previdenza di primo pilastro è obbligatoria e a ripartizione. Ricordiamo in breve il significato di questi termini, che ci dicono con quale tipo di finanziamento è alimentata una determinata forma pensionistica. Un sistema a ripartizione è caratterizzato dal fatto che i contributi dei lavoratori di oggi vanno a finanziare le pensioni dei lavoratori di ieri (i pensionati di oggi). In un sistema a capitalizzazione, invece, ciascun lavoratore, ci si consenta l’estrema semplificazione, contribuisce alla propria pensione, andando ad accantonare i contributi in un fondo, sul quale si accumuleranno interessi e dividendi a seconda del rendimento della forma di investimento prevista dal fondo pensione al quale si aderisce. Il sistema a ripartizione, quindi, è basato su un esplicito patto di solidarietà intergenerazionale; il sistema a capitalizzazione invece su un atto di risparmio e accumulazione individuale di risorse.
Eccoci, adesso, alle proposte su cui si è scatenato il dibattito. Sia la proposta di Tridico che quella di Mucchetti partono dalla constatazione che il sistema di previdenza complementare introdotto nel 1993 non ha dato i risultati sperati. Se l’obiettivo era quello, duplice, di favorire la partecipazione dei lavoratori a forme di risparmio pensionistico e incrementare la disponibilità di risparmi che andassero a finanziare il debito pubblico italiano e le imprese che effettuano investimenti in Italia, esso è ampiamente fallito.
I dati snocciolati dalla COVIP nella sua relazione annuale per l’anno 2018 parlano chiaro. Il numero di adesioni risulta molto limitato: a fine 2018 gli iscritti a forme di previdenza complementare sono circa 7,6 milioni di soggetti, meno di un terzo delle forze di lavoro; ad aggravare il quadro, i lavoratori effettivamente versanti sono stati meno di 6 milioni (meno del 23 per cento delle forze di lavoro). Alcune categorie di lavoratori fanno particolarmente fatica ad alimentare la propria posizione pensionistica integrativa. Giovani, lavoratori meridionali, autonomi e donne sembrano particolarmente penalizzati, a causa di condizioni di lavoro peggiori e retribuzioni sensibilmente più basse. E come stupirsi? Con stipendi da fame e grande discontinuità di retribuzione, figuriamoci se possono mettere da parte qualcosa per la pensione. Deludente è anche il contributo delle forme pensionistiche complementari agli investimenti produttivi e al finanziamento della spesa pubblica in Italia. Nel 2018 solo il 27,7 della massa patrimoniale dei fondi pensione è stato infatti rivolto a investimenti nazionali, mentre i titoli di Stato italiani fanno registrare investimenti pari a poco più di un quinto del totale del patrimonio dei fondi.
Mucchetti propone, “per irrobustire le entrate dello Stato … senza imporre nulla ai contribuenti” e per favorire gli investimenti in Italia, la creazione di un fondo di previdenza complementare pubblico a ripartizione. Tridico, invece, pensa a un fondo a capitalizzazione. Al di là delle differenze tra i due fondi, è particolarmente interessante soffermarsi sulle obiezioni che tali proposte hanno sollevato.
Contro la proposta di Mucchetti si è scagliato Giuliano Cazzola, strenuo difensore della riforma Fornero, ex deputato, con un passato nel PSI, nel Popolo della Libertà, nel Nuovo Centro Destra e in Scelta Civica (il partito di Mario Monti). Oggi aderisce a +Europa. Basterebbe questo nutrito curriculum a qualificare qualsiasi suo intervento sulle pensioni come “la voce dell’austerità”, eco delle lacrime di coccodrillo della Fornero, ma prendiamoci la briga di leggere alcuni passaggi del suo intervento. Scrive Cazzola che la proposta Mucchetti è figlia di una cultura statalista e risulterebbe in una “catena di Sant’Antonio”. Nel sistema a ripartizione proposto da Mucchetti, argomenta Cazzola, i contributi non finirebbero “in una posizione individuale, fatta di risorse reali e gestita a capitalizzazione”, ma andrebbero a pagare i trattamenti in essere, “mentre la pensione più elevata, domani, sarebbe finanziata dai contributi versati, appunto, dai lavoratori di domani”. In altri termini, la proposta di Mucchetti finirebbe per chiedere ai giovani di sopportare un onere insostenibile: “il patto che lo Stato impone tra le generazioni diventerebbe ancora più leonino per quelle future”.
Alla proposta Tridico, invece, ha risposto Elsa Fornero in persona, che ha definito il fondo complementare dell’Inps “un altro passo sulla via del declino”. La Fornero scrive che, laddove il fondo “non debba offrire particolari agevolazioni fiscali o garanzie di rendimento – che ricadrebbero … sulla fiscalità generale, ponendo un problema di disparità di trattamento rispetto ai lavoratori iscritti agli altri fondi … – il loro vantaggio potrebbe derivare dai più bassi costi di amministrazione, e perciò da un maggiore rendimento netto”. Ma sarebbe utile tutto ciò? Poco, scrive la Fornero. Meglio sarebbe una “campagna di formazione/informazione” per spiegare agli italiani come gestire i propri risparmi, accompagnata da interventi sui costi per rendere più appetibili i fondi pensione. Ma la proposta Tridico, secondo Elsa Fornero, fa peggio. La finanza pubblica, scrive, è sempre affamata di risorse “per l’incapacità di ridurre la spesa”. L’idea di utilizzare il canale della previdenza complementare per aumentare le risorse dello Stato per investimenti è pericolosa, in quanto non c’è nessuna garanzia che il pubblico sia più efficiente del privato nell’indirizzare le risorse. Inoltre, scrive sempre la Fornero, ai rischi sul lavoro si aggiungerebbero i rischi sul risparmio, a causa di investimenti che, essendo gestiti dal pubblico, finirebbero per essere destinati a finanziare progetti di dubbia utilità, alla mercé di interessi localistici.
Lasciando perdere le dichiarazioni di principio sulla “cultura statalista” e sull’inefficienza del pubblico, concentriamoci su alcuni passaggi di queste obiezioni. La Fornero, dopo i danni procurati ai lavoratori quando era al Governo con Monti, continua a cercare di evangelizzare il dibattito con i suoi richiami alla responsabilità fiscale. Se la finanza pubblica è sempre affamata di risorse non è “per l’incapacità di ridurre la spesa”, come dice la Fornero. Tale incapacità non c’è affatto, come abbiamo visto negli ultimi anni. La finanza pubblica richiede risorse perché proprio queste riduzioni di spesa hanno fatto avvitare su se stessa l’economia italiana, riducendo i tassi di crescita e, dunque, la base imponibile, facendo aumentare ulteriormente il rapporto debito/PIL. E se, come scrive Mucchetti, è vero che pensioni più alte domani dovranno essere pagate da contributi più alti dei lavoratori (di oggi e di domani) è perché le regole di bilancio europee, di cui lui è un accanito difensore, impongono il perseguimento del pareggio di bilancio e il cosiddetto “pareggio attuariale” dei conti dell’Inps e delle altre casse di previdenza. Il pareggio attuariale (ovvero la situazione in cui, in prospettiva, entrate e uscite del sistema pensionistico si bilanciano) è stato perseguito attraverso riforme volte ad aumentare l’età pensionabile, agganciare quest’ultima all’aspettativa di vita, estendere il sistema contributivo a discapito di quello retributivo. È proprio a causa di queste riforme e del feticcio dei bilanci in equilibrio che si crea un artificioso scontro generazionale tra pensionati e lavoratori. Ed è sempre a causa di queste riforme e ai vincoli di bilancio, che hanno ridotto drammaticamente gli importi delle future pensioni, che si è sostanzialmente costretti a inventarsi stratagemmi di ogni tipo per cercare di incrementare le pensioni senza influire sui contributi dei lavoratori e sulle finanze pubbliche.
Come se non bastasse, il sottotesto evidente di questo dibattito riguarda lo spazio a disposizione del mercato: le proposte di creazione di un fondo pubblico andrebbero a ridurre ulteriormente il numero di soggetti che versano parte del proprio stipendio ai diversi fondi complementari (negoziali, aperti, individuali), intaccando così gli utili dei soggetti privati coinvolti. In altre parole, le proposte discusse mettono in discussione – seppur timidamente – la priorità attribuita alla logica del profitto di fronte all’interesse generale.
Nulla di nuovo, insomma, sul fronte occidentale. Come da tradizione, i guardiani dell’austerità mettono i lavoratori gli uni contro gli altri, dipingendo le sacrosante rivendicazioni di una vita più dignitosa, di lavoro non precario e pensioni adeguate, come il perseguimento di interessi particolari a danno del benessere generale. È vero l’opposto: quelli che difendono interessi particolari sono loro. Approfittiamo, dunque, di questo dibattito sul sistema pensionistico per ribadire quanto detto altre volte: l’austerità e le riforme neoliberiste del mercato del lavoro e del sistema pensionistico hanno un solo obiettivo, quello di arricchire i padroni e gli speculatori finanziari, dividendo i lavoratori. Davanti a questi continui attacchi, abbiamo il dovere di restare uniti e respingere con sempre maggiore forza le mire del capitale – quello, sì, mai sazio di profitti – e dei suoi interessati apostoli.