Disuguaglianza salariale: anche in Italia occorrerebbe mobilitarsi!

In Francia ieri (il 7 novembre) molte donne hanno lasciato il lavoro alle 16h34, per protestare contro la disuguaglianza salariale che condanna le donne francesi a lavorare ben 38.2 giorni gratis all’anno rispetto ai loro colleghi uomini. Il gap salariale è tale per cui si può dire che dalle 16h34 di ogni giornata lavorativa le donne francesi continuano a lavorare gratis.

La mobilitazione, lanciata dal collettivo Les Glorieuses e da altre realtà femministe francesi è diventata virale sui social media con l’hastag #7novembre16H34 e ha sicuramente dato lo slancio a dibattiti a livello di pubblica opinione e nei luoghi di lavoro. La partecipazione a questa specie di “sciopero” (o meglio, uscita anticipata dal lavoro) è stata modesta, così come la partecipazione in piazza, ma sicuramente si è aperto uno spazio di discussione e di presa di coscienza pubblico.

Ci vorrebbe forse un vero sciopero per l’uguaglianza salariale, come quello di 24 ore che fecero le donne islandesi il 24 ottobre 1975. Fu un successo. Il 90% delle donne smise di lavorare tutta la giornata. Chiusi gli asili e le scuole. Serrande abbassate nei negozi. Industrie senza addetti. Nessuna donna ai fornelli o con il ferro da stiro in mano. Alle due del pomeriggio 30mila donne scesero in strada con cartelli che chiedevano uguaglianza di trattamento e di salario. Quello che ancora oggi si chiede anche nel resto del mondo.

Nell’articolo che riportiamo qui sotto vengono snocciolati i dati che mostrano come la questione del gap salariale tra uomini e donne è una realtà in tutto il mondo, anche nei paesi occidentali a capitalismo avanzato e cosiddetti democratici. L’Italia, oltre alle disuguaglianze salariali, essenzialmente nel privato e maggiormente accentuate nei livelli quadri, c’è la piaga della sotto occupazione femminile, la disoccupazione o inattività. Alti livelli di precarietà che si accompagnano con la scelta di non avere figli o di farli tardi e spesso di abbandonare il lavoro per potersene occupare. Infine, scarso accesso alla carriera e ai ruoli di potere, questo anche nel settore del pubblico impiego.

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Perché le donne valgono, un libro di Sabrina Scampini

Se avete letto l’analisi di Maurizio Ferrera in prima pagina sul Corriere di ieri (e ripresa sulla 27ora) già lo sapete: la fotografia del mercato diffusa venerdì dall’Istat ribadisce che l’occupazione femminile è ferma. E se quel che scrive Ferrera sui motivi che scoraggiano le donne non vi basta, aprite un libro. Uscito solo quattro giorni fa. Che parte ancora una volta dai numeri. Negativi, davvero. Negli ultimi tre anni la situazione delle donne italiane che lavorano non è cambiata molto in termini di retribuzione: l’Italia resta agli ultimi posti per l’eguaglianza salariale. Certo, in un anno è salita di 28 posti nella classifica del Global Gender Gap, l’indice stilato dal World Economic Forum che misura quanto (e cosa) manca per raggiungere la parità, ma i miglioramenti non riguardano il lavoro, dove il divario tra uomo e donna non si riduce. Perciò, racconta Sabrina Scampini – giornalista, due volte mamma – «se pensate che il femminismo abbia ormai fatto il suo tempo e non serva più a nessuno, se credete che tutto sia già stato conquistato, date un’occhiata alle statistiche». Ed è dai numeri, dunque, che Sabrina parte per raccontare una verità divenuta il titolo del suo ultimo libro: Perché le donne valgono, anche se guadagnano meno degli uomini (edizioni Cairo, 180 pagg. 14 euro).

L’autrice parte dal gap salariale per invitarci a riflettere su questa domanda: «Se il femminismo ha fatto il suo tempo, allora perché le donne in Italia continuano a guadagnare complessivamente meno della metà degli uomini?».

Non solo. Da noi meno del 47 % delle donne lavora, contro il 65 % degli uomini. In Europa il rapporto è 63 e 75. E per il gentil sesso «il part time non è un trattamento di favore, bensì uno strumento di discriminazione». «Se consideriamo il guadagno totale – sottolinea l’autrice –, una donna guadagna 0,47 euro per ogni euro guadagnato da un uomo».

La classifica mondiale sul gender gap nel mondo del parla chiaro, dice Sabrina: «Siamo i peggiori tra i Paesi avanzati, eppure è come se non ce ne rendessimo conto. C’è chi pensa che la conquista del diritto al voto, le leggi sul divorzio e sull’aborto bastino per parlare di uguaglianza». Invece non è così. Posto di trovare lavoro, per una donna è ancora difficile conquistare ruoli di comando: sono solo il 29 per cento tra i dirigenti mentre gli uomini sono il 71 per cento. Perfino le poche donne che ricoprono incarichi rilevanti hanno un problema quasi insormontabile: diventare mamme. «Quasi mai riescono a mantenere la posizione lavorativa dopo la nascita del primo figlio (per non parlare del secondo)». La stessa autrice rivela di aver scoperto a proprie spese cosa significa essere mamme lavoratrici.

Dietro la felicità della maternità – Scampini è diventata due volte mamma negli ultimi 3 anni – ci sono le giornate passate tra corse all’asilo, ritardi in ufficio e faccende quotidiane che non finiscono mai. E l’esperienza meravigliosa è anche una sfida «terribilmente complicata se vuoi continuare a lavorare». Per non parlare poi del “mobbing delle madri”: negli ultimi 2 anni sono aumentati del 30% i casi di donne licenziate o costrette a dimettersi; almeno 350 mila sono state discriminate per via della maternità. L’emancipazione femminile non è ancora interamente realizzata. La maternità diventa un limite all’emancipazione e, più in generale, il più grande limite nel nostro Paese è rappresentato dal tempo che le donne dedicano – è l’eredità del ruolo della casalinga, difficile da scardinare anche per le donne che hanno una professione – alla cura della casa e della famiglia: svolgono da sole il 75 per cento del lavoro non retribuito; 315 minuti al giorno, mentre gli uomini vi dedicano solo 104 minuti.

Il libro Perché le donne valgono parte quindi dai numeri – quelli delle differenze salariali, delle risicate quote di genere nei ruoli manageriali, delle schiere di mamme che abbandonano il lavoro –, numeri che raccontano «una realtà scomoda, che però va guardata negli occhi per compiere il cammino che ancora ci aspetta».

Scampini parla poi di quel 30% di donne occupate che lascia il lavoro dopo la gravidanza: «Non si tratta di pochi casi isolati, ma di un fenomeno preoccupante». In Italia solo il 58% delle neo mamme lavora (contro il 73% della Danimarca). E l’autrice si domanda: «Una donna può continuare a essere competitiva nel lavoro anche dopo aver avuto un figlio senza vestire i panni di Wonder Woman?». Non in Italia. In tutti i Paesi in cui una donna resta forte sul lavoro nonostante il ruolo parallelo di mamma, ciò avviene grazie a leggi che riguardano il ruolo del padre nella gestione dei figli. «Allora perché in Italia, quando un bambino sta male è sempre la madre a stare a casa dal lavoro? Per quale motivo quando nasce un bambino la madri hanno diritto a 5 mesi retribuiti e i padri solo 2 giorni?».

Se ne parla – nel libro – anche nelle quattro interviste ad altrettante donne italiane che raccontano il loro percorso e parlano di emancipazione e opportunità: dalla giornalista Bianca Berlinguer («Perché nella famiglia si deve dare per scontato che si debba sempre sacrificare la donna?») all’astronauta Samantha Cristoforetti (ha rifiutato di mettere le scarpe rosa in missione «se non lo avesse fatto anche il mio comandante»); da Gina Nieri («niente soffitti di cristallo: ormai ognuna di noi mette a disposizione della propria carriera tutto quello che mette un uomo») alla ministra della Difesa Roberta Pinotti(«Mi chiamavano solo quando si parlava di scuola, istruzione, pari opportunità»), che sottolinea i limiti culturali ancora forti in Italia, quelli che vorrebbero la donna adatta solo a certi ruoli (e non parliamo della diarchia mamma-casalinga, ma di lavoro) e a determinati settori.

Di Luca Zanini

(Fonte: La 27esimaora)