Egitto, quali prospettive per la nuova ondata di scioperi?

scioperi Egittodi Jacques Chastaing, da alencontre.org, traduzione di Titti Pierini

In Egitto gli scioperi non sono mai cessati veramente (si veda: Egypte ce que la persistance des greves en Egypte nous dit de la revolution su A l’encontre, in francese), malgrado il regime ultra-repressivo dell’ex maresciallo Abdel Fattah Said Hussein Khalil al-Sissi – eletto presidente l’8 giugno 2014 – e più precisamente malgrado tutti i suoi attacchi al diritto di sciopero, alle libertà di manifestare e ancora di recente alla semplice autorizzazione dei sindacati indipendenti.

Dalla metà dello scorso ottobre, tuttavia, gli scioperi hanno assunto nuova ampiezza. La nuova ondata attraversa il paese, da Nord a Sud, dal Canale di Suez al Delta del Nilo, in numerosi settori professionali, dal tessile al petrolio, passando per l’acciaio, la sanità o il turismo. I lavoratori entrano in sciopero. Non li fermano né la minaccia né la repressione e si aprono trattative, come riferisce la stampa.

Scioperi in grandi aziende emblematiche

Tremila lavoratori della maggiore società dell’alluminio del paese, Egytalum Company (a partecipazione statale maggioritaria, situata a Nagaa Hammady nel governatorato di Qena, nel Sud del paese) hanno avviato uno sciopero il 27 dicembre 2015. Per il momento è ancora parziale e coinvolge solo un terzo dei dipendenti, ma potrebbe estendersi. Nello stesso giorno, a entrare in sciopero sono stati anche gli operai della gigantesca fabbrica d’acciaio Iron and Steel Company (di 11.000 lavoratori, a Helwan, la periferia del Cairo). Nello stesso periodo si sono messi in movimento due grandi imprese tessili di Shebin al-Kom, come pure i lavoratori di un’altra grande società, l’azienda petrolifera Petrotrade ad Asyut, la capitale del governatorato nell’Alto Egitto, sulla riva occidentale del Nilo).

Rivendicano “bonus”, vale a dire parte degli utili delle rispettive imprese, che in teoria sono loro garantiti per legge e che costituiscono parte del loro salario. Molto spesso però le imprese non glieli versano con la scusa di difficoltà congiunturali o di “malintesi” con lo Stato.

Oltre ai più di 12 mesi di “bonus” richiesti alla compagnia dell’alluminio, i lavoratori chiedono anche le dimissioni del direttore e di numerosi responsabili, tra cui alcuni eletti come rappresentanti politici e sindacali ufficiali. Questo evidentemente si rifà ad alcune delle richieste della rivoluzione. Analoghe sono le rivendicazioni all’acciaieria di Helwan.

La Shebin al-Kom Textile Company, di 1.500 lavoratori, è situata nel governatorato di Menufiya, nel Delta del Nilo. Questa vecchia compagnia di Stato è stata privatizzata dieci anni fa e rinazionalizzata nel 2011. Nel periodo della privatizzazione si è approfittato per licenziare tantissimi lavoratori e ridurre le capacità produttive dell’impianto. Ora, l’impegno preso dalle autorità giudiziarie, nel 2011, era stato quello di riassumere i licenziati e di restituire alla fabbrica le sue piene capacità produttive. I lavoratori quindi esigono, tramite lo sciopero – che dura già da tre settimane – che si rispettino quelle promesse.

Si tratta di semplici scioperi sparsi…

Non è la prima volta che gli operai di Shebin al-Kom entrano in lotta. Le loro non sono rivendicazioni specifiche. Vi sono perlomeno una decina di grandi imprese, in situazioni analoghe, che si battono da anni – regolarmente o a intermittenza – per gli stessi obiettivi.

Tuttavia, l’ampiezza della loro lotta attuale ci ricorda che i lavoratori di questa impresa sono stati al centro di un fenomeno nuovo in Egitto, nel marzo 2014: il primo coordinamento di lotta, che raggruppava 11 aziende pubbliche che erano state privatizzate, tra cui appunto Shebin al-Kom, ma anche Lin di Tanta, la fabbrica di caldaie el-Nasr, Ideal, Oli e Saponi di Alessandria, Meccanica agricola di Nubara, Samanud, Cartiere SIMO e… Petrotrade.

Ora, Petrotrade, compagnia petrolifera di 12.000 lavoratori, è anch’essa in sciopero ad Asyut, nel Sud del paese, per chiedere pari trattamento rispetto alle altre unità del gruppo, dopo che altri settori di questo si erano messi in sciopero per rivendicare la loro parte di “bonus”, più di una settimana fa e per 10 giorni, in 56 siti, specie nella zona di Alessandria.

A questo si aggiunge il movimento dei medici degli ospedali di proprietà della compagnia statale di assicurazione sanitaria. Sono entrati in sciopero a metà dicembre, per ottenere in fatto di salari e condizioni di lavoro gli stessi vantaggi dei loro colleghi dell’Ospedale del ministero della Sanità. E questi ultimi hanno annunciato il loro appoggio, concretizzandolo in una manifestazione, il 23 dicembre 2015.

Ricordiamo che il movimento dei medici, nel marzo 2015, era stato il motore dell’ondata di contestazione di quel momento e il primo a inaugurare in Egitto i coordinamenti. Era anche stato all’origine – insieme al coordinamento delle aziende privatizzate/nazionalizzate – del primo embrione di programma rivendicativo, su scala nazionale, delle classi popolari egiziane, con le seguenti richieste:

  • salario minimo, promesso dal governo ma non attuato;
  • ritorno al settore pubblico delle società privatizzate,
  • rimozione dai rispettivi settori di tutti gli elementi corrotti;
  • condizioni migliori di salario e di lavoro per tutti i settori: sanità, posta, aviazione, ferrovie, compagnie private…

In ogni caso, analogia non significa somiglianza. Queste lotte non possono far pensare ai “coordinamenti” del passato. Non è possibile intravedervi quel coordinamento delle lotte, che manca così tanto, che si avrebbe se questi movimenti procedessero insieme e trovassero il proprio prolungamento in un gran numero di altri.

L’indizio di lotte che ne accompagnano e prolungano altre

Innanzitutto, nel corso delle prime settimane di dicembre 2015, in effetti, sono scoppiati scioperi al Canale di Suez, in alberghi di alcune città del Mar Rosso o di Sharm el-Sheikh, in una compagnia di prodotti fertilizzanti di Asyut e in varie altre imprese.

Al Canale di Suez, a partire dall’8 dicembre e per due settimane, sono stati 2.000 lavoratori di 6-7 imprese di subappalto della manutenzione e dei trasporti dei docks a richiedere aumenti salariali e trattamenti pari ai lavoratori del Canale, con salari spesso 5 volte più alti. Non va dimenticato che questi scioperi intaccano l’immagine di Sissi, che aveva posto il progetto del nuovo Canale al centro della sua demagogia su un nuovo Egitto moderno, in cui tutto sarebbe stato più bello nel migliore dei mondi.

A Sharm el-Sheikh, gli impiegati degli alberghi e del turismo si battono contro i licenziamenti. Dopo l’attentato terrorista all’aereo di turisti russi, il 31 ottobre, l’affluenza turistica è infatti crollata e i proprietari ne hanno approfittato per licenziare circa il 30% dei loro dipendenti. E il crollo del turismo non colpisce soltanto questa zona, ma l’intera economia egiziana, per la quale è centrale. Così, grazie a questi conflitti, ad esempio al Canale di Suez, è ancora l’incapacità del regime di garantire la sicurezza economica del paese che viene di fatto denunciata con gli scioperi. [Si veda, a fine articolo, la nota 1, della redazione di À l’encontre sul turismo]

All’Asyut Fertilizer Company, i lavoratori sono entrati in sciopero – e hanno occupato l’azienda, cosa che accade raramente – per protesta contro la riduzione di un 25% del loro salario, mentre i lavoratori dell’Egyptian Dredging Company di Abu Zaabal (nel governatorato di Qalyubia, nel Nord del paese) scioperano contro il mancato pagamento del loro salario, allo stesso modo dei giornalisti di Al-Shoruk o di TeN TV. Questa pratica padronale è frequente in Egitto, proprio mentre la ricchezza dei nuovi ricchi si insedia sempre più in determinati quartieri del Cairo. Peraltro, il potere li vuole rendere più “presentabili” cacciando i piccoli rivenditori di strada.

Ancora: sono 5.000 i lavoratori della Jawhra Food Processing Company (nel governatorato di Beheir, nel Delta del Nilo) che, a partire da fine novembre-inizio dicembre, sono entrati in sciopero per aumenti salariali e per il pagamento dei loro “bonus”, così come gli impiegati della Compagnia di assicurazioni a Eitai al-Barud, o i lavoratori della metropolitana, che appartiene all’Amministrazione nazionale dei Tunnel. Vanno aggiunti gli autisti degli autobus del Cairo e anche gli insegnanti della scuola Ola Garden nel governatorato di Giza… per quanto lascia trapelare la stampa, sottoposta a severa censura dal regime dittatoriale di Sissi.

Un segnale lanciato dalla grande officina tessile dii Mahalla el-Kubra e… Sissi al centro delle tensioni che si vanno sviluppando da settembre

Queste lotte sono state innescate e unificate, in certo senso,in ottobre da due scioperi, conclusisi il 1° novembre: 1) quello di 11 giorni di 14.000 lavoratori di Misr Spinning and Weaving Company di Mahalla el-Kubra, fabbrica gigante di 17.000 lavoratori che ha da tempo un ruolo centrale nel movimento sociale egiziano – nello scoppio della rivoluzione – cui si è aggiunto quello di 6 giorni dei 7.000 lavoratori di Kafr al-Dawwar Textile Company; 2) le prime minacciose sospensioni del lavoro alla Simo Paper Company, all’Iron and Steel Company di Helwan e alla Tanta Flax and Oils Company. Ora, tutte queste imprese hanno contrassegnato la storia recente – o meno recente – del movimento operaio egiziano, della rivoluzione e dei coordinamenti per Simo e Tanta. Il governo ha ceduto quando ha sentito che planava la probabile generalizzazione.

È difficile sapere che cosa abbiano realmente ottenuto i lavoratori delle due imprese emblematiche al termine della loro lotta, tale è l’abitudine delle autorità di fare promesse che poi non mantengono. Ma quel che è emerso a livello dell’intero paese è che i lavoratori hanno cantato vittoria al termine della lotta. Sulla scia, si è scatenato uno sciopero alla Samanud Textile Company di Gharbiya (un’altra delle 11 fabbriche coordinate del 2014) e all’impresa tessile Vistia di Alessandria, in entrambi i casi per aumenti salariali. Poi tutto il resto… Una sorta di generalizzazione diluita nei tempi e negli spazi geografici. Un tipo di configurazione che un qualche avvenimento potrebbe cristallizzare di nuovo.

Nelle cause di questa, “ondata” va considerato che Sissi aveva promesso a settembre un “bonus” del 10% ai lavoratori e alle lavoratrici delle imprese pubbliche. Va inoltre ricordato che Sissi aveva promesso anche l’aumento del “bonus” a settembre 2015, perché temeva in quel momento in movimento di collera che andava montando nella funzione pubblica. Questo esprimeva l’opposizione a una nuova legge che, tra l’altro, dovrebbe ridimensionare i “bonus”, la parte degli utili destinati ai lavoratori e alle lavoratrici (si veda: Egypte, un mois de septembre imprevisible su A l’encontre, in francese). Sissi era riuscito ad arginare l’ondata di collera che provava a raccogliersi in una manifestazione nazionale indetta per il 12 settembre. Lo aveva fatto, per un verso, con l’impegno a mantenere l’aumento e, per altro verso, con il simultaneo divieto della manifestazione e con la più violenta repressione e, infine, con il diversivo delle elezioni politiche, pretesto per imporre un ordine ancora più rigido.

Di fatto, pur avendo dilazionato la scadenza, la crisi evitata a settembre sembra esplodere adesso. Appena terminata la farsa elettorale – in cui si è registrata una partecipazione dal 2% al 10% (ufficialmente, è del 28%, ma non ci crede nessuno) – scoppiava lo sciopero a Mahalla e, poco dopo, nel settore turistico e al Canale di Suez. C’è in questo una sorta di risposta operaia alla commedia elettorale, la rimessa in discussione quasi diretta della legittimità del potere in carica.

Sissi aveva già promesso l’aumento del salario minimo per il gennaio del 2014, una promessa mantenuta solo in parte. La cosa aveva scatenato un’ondata enorme di scioperi nella pubblica amministrazione in febbraio e marzo, provocando la caduta del governo el-Beblawi (9 luglio 2013- 24 febbraio 2014, dimissioni presentate al presidente Adli Mansur). In seno al movimento, lo sbocco era stata la creazione dei primi coordinamenti di lotta in Egitto. Di colpo, temendo il rapido cristallizzarsi delle lotte in un unico blocco e l’emergere della coscienza di classe degli operai, al-Sissi [che con un colpo di Stato militare aveva fatto cadere Morsi il 3 luglio 2013, prendendone il posto e “catturando” un movimento di massa anti-Morsi], dopo essersi dimesso dalle sue funzioni di governo il 26 marzo 2014, decideva di presentarsi alle presidenziali, per bloccare con il processo elettorale il movimento sociale e la presa di coscienza in corso.

Sissi dunque ha ripreso, ancora una volta, a promettere quel che poi non mantiene, grazie al diversivo delle elezioni. Ma questo modo di procedere si logora e ne diminuisce l’efficacia. Certo, le ripercussioni delle lotte questa volta sono state meno importanti che non nel febbraio-marzo 2014, almeno per quel che si può valutare. Ma la tecnica governativa comincia a raggiungere i suoi limiti, non solo per il credito politico nettamente ridimensionato di Sissi, ma soprattutto per la situazione socio-economica e politica globale molto mutata.

Sul piano politico, infatti, fino all’inizio del 2015 il campo era occupato e diviso tra due schieramenti di fratelli nemici: l’esercito e i Fratelli musulmani. L’esercito si basava sul timore del successo del terrorismo islamico, che confondeva con la Confraternita dei Fratelli per giustificare ogni intralcio alle libertà e irreggimentare dietro di sé ciò che nella società egiziana gli faceva anteporre a ogni altra cosa il suo odio per i Fratelli musulmani, anche a rischio delle libertà e di una repressione la cui ampiezza futura al momento non si percepiva.

Ora, con la scomparsa della Confraternita che non compensa il timore suscitato da Daesh, si dischiude uno spazio politico in cui la questione sociale potrebbe di nuovo conquistare il centro della scena e l’esercito restare sempre più isolato di fronte al movimento sociale. È la grande paura di Sissi e delle classi possidenti.

Una situazione del genere, infatti, non potrebbe che spingere a far percepire il movimento sociale come il vero, serio, oppositore di fronte al regime. E come l’unico a portare speranza per tutte le classi oppresse, stimolandone così la politicizzazione, nella misura in cui si instauri la saldatura tra il passato ancora presente in uno strato militante, il presente e reti politico sociali che riprendono slancio.

Ora, appunto, l’inflazione che investe tutti i ceti popolari sta toccando l’’apice. L’anno è stato il peggiore da tempo per il mondo rurale. Numerosi abitanti dei villaggi sono scesi in piazza a protestare contro l’incuria delle autorità di fronte alle recenti inondazioni, e ci si avvicina all’anniversario dell’esplodere della rivoluzione, il 25 gennaio, che spesso ha costituito l’occasione per ogni tipo di straripamento da parte di frange giovanili. Una pagina Facebook al riguardo, “ritorno in piazza”, annuncia che decine di migliaia e passa di persone sono pronte a ritornarvi nel 2016, mentre coloro che hanno conseguito diplomi e ed elevati titoli di studio ma sono disoccupati hanno già marciato su piazza Tahrir qualche settimana fa.

Naturalmente, c’è una bella differenza tra cliccare su Internet e presentarsi in piazza con di fronte soldati che non esitano a sparare. Ma il solo fatto di una sfida così massiccia, anche solo su Internet, preoccupa il potere, che ha rivelato la propria apprensione arrestando il 28 dicembre quattro dirigenti del “Movimento del 6 aprile”, il solo importante movimento di democratici rivoluzionari che ancora resiste.

Dunque, da un lato, il regime non è mai stato così feroce, dittatoriale e mai così vicino a quello di Mubarak, con un massiccio ritorno ai traffici dei ricchi “feloul” (“reduci”), i sostenitori del vecchio regime… ma non è mai stato così vicino, per questo, alle condizioni che hanno precipitato la caduta di Mubarak. [Si veda a fine articolo la nota 2 della redazione di À l’encontre].

La caduta di Mubarak era stata decisa dall’esercito quando, nel corso della sollevazione rivoluzionaria di gennaio 2011, ai militari è parso che la classe operaia minacciasse il suo ingresso in scena con l’appello allo sciopero generale. Le autorità di ogni “sponda”, nei cinque anni del passato processo rivoluzionario, hanno continuamente camuffato agli occhi delle masse lavoratrici la natura di classe di questa opposizione.

Nella fase decrescente, i Fratelli musulmani hanno perso la loro influenza; l’essenziale della sinistra, i nasseriani, i democratici ufficiali si sono persi sostenendo Sissi. Molti democratici rivoluzionari si sono scoraggiati, vittime della terribile repressione. Non vanno tuttavia trascurati i contraccolpi dei limiti delle loro concezioni strategiche o della loro impreparazione – in parte legata alla giovinezza di settori delle componenti rivoluzionarie – di fronte a un simile processo rivoluzionario.

Oggi, ormai, resta l’esercito – che certo pone ancora l’accento politico sulla lotta contro il terrorismo – di fronte al proletariato. In quale misura l’esperienza accumulata da settori di questo proletariato durante scontri incessanti e coraggiosi troverà le strade per manifestarsi e in quale forma? Questo, appunto, volevano evitare i militari, cinque anni or sono. È quel che devono tenere fermo coloro che colgono la dimensione del permanere di questo processo, al di là delle varianti.

Quali che siano gli avvenimenti delle prossime settimane è sicuro, per il periodo che si apre, che si stiano mettendo insieme le condizioni di un nuovo scontro.

Scrivevo, a proposito delle prime vicende rivoluzionarie, che la soluzione per la rivoluzione egiziana si trovava in Cina. Era un’immagine che alludeva, al tempo stesso, al gigantismo della classe operaia cinese e delle sue lotte, ma soprattutto al primo segnale di arresto dato al movimento di reazione liberista mondiale realizzato in Cina nel 2010, con mobilitazioni del proletariato cinese [Foxcon, Honda, Toyota].

Le rivoluzioni arabe, come altri movimenti nel mondo, si sono poi poste in questa continuità. Non si capirebbe quanto il movimento proletario egiziano sia destinato a durare se non lo si ricolloca nell’attuale contesto mondiale di oscillazione pendolare. Tuttavia, l’assenza (o estrema debolezza) di organizzazione operaia e di coscienza proletaria più o meno solide fa sì che la crisi su molteplici piani come pure le lotte si diluiscano nel tempo e che in questo spazio le prese di coscienza siano lente. Sono in corso processi, dall’Egitto, dalla Tunisia, alla Turchia, al Bangladesh, passando anche per la Grecia e la Spagna. Questo processo socio-politico, con tutte le sue varianti locali e le sue varie figure, è in atto. È indispensabile averne consapevolezza, esaminarlo sottoponendolo alla discussione, e in questo modo puntare a farne prendere coscienza, se i socialisti rivoluzionari vogliono partecipare e intervenire efficacemente in ognuno di tali conflitti.

La classe operaia egiziana illustra un aspetto di questo generale processo, dimostrando in questi scioperi che è ben lungi dall’essere stata sconfitta e continua attivamente il proprio cammino e la propria lotta per il pane, la libertà e la giustizia sociale, nel quadro di una “lunga rivoluzione” (formula di Maha Abdelrahman, in Egypt’s Long Revolution: Protests and Uprisings, Routledge 2015). La prospettiva di coordinamento e di politicizzazione delle sue lotte, certo difficili come dappertutto, non sembra nonostante tutto così lontana da questo e, comunque, è inscritta nelle condizioni oggettive. Potrebbe essere un obiettivo raggiungibile per la fase, specie se i militanti rivoluzionari/e vogliono o sanno farsene i vettori: la crisi dell’umanità si riduce sempre alla crisi della sua direzione rivoluzionaria… su scala internazionale. Più che mai, la rivoluzione egiziana deve essere la nostra.