Per la giurisprudenza internazionale non esiste ancora la categoria di “rifugiato ambientale”, ma nella realtà esiste eccome! Secondo le Nazioni Unite, nel solo 2008 36 milioni di persone si sono dovute spostare a causa di disastri naturali, 20 milioni dei quali per ragioni climatiche. Se si considera poi l’innalzamento progressivo delle acque che si mangerà milioni di km quadrati di terra, e la progressiva siccità che colpirà alcune aree del globo, si capisce che i flussi migratori di massa sono destinati ad aumentare, ed anche i conflitti dovuti alle conseguenze di queste grandi trasformazioni climatiche. Questo è un altro aspetto per cui occorrerebbe una maggiore partecipazione delle popolazioni e un maggiore controllo dal basso sulle decisioni che vengono prese ai summit internazionali sul clima come il prossimo COP21, dove ancora una volta i governi risponderanno più alle esigenze delle multinazionali che alle necessità del pianeta.
di Niccolò Cavalli, da Vice, agosto 2015
Il 21 luglio scorso, Ioane Teitiota ha perso una delle più importanti battaglie legali della sua vita, e forse del mondo intero. La Corte Suprema della Nuova Zelanda ha infatti definitivamente rifiutato la sua richiesta per l’ottenimento dello status di “rifugiato ambientale”. Sarebbe stato il primo caso legale a riconoscere il diritto alla migrazione a causa del cambiamento climatico. Ioane Teitiota vive in Nuova Zelanda dal 2007, ha una moglie e due figli nati in Nuova Zelanda, e ora rischia di essere deportato nel suo Paese d’origine. Si tratta del Kiribati, una minuscola isola del pacifico la cui esistenza è messa a repentaglio dall’innalzamento dei livelli del mare. “Non è sicuro tornare a vivere lì,” ha spiegato davanti ai giudici, che hanno rifiutato la sua richiesta sostenendo che “non esiste un pericolo immediato per la sua vita o quella della sua famiglia.”
Altri sostengono il contrario. Nel 1976 Lester Brown, presidente e fondatore dell’Earth Policy Institute di Washington, coniò il termine “rifugiato ambientale“ per spiegare come i cambiamenti climatici avrebbero necessariamente portato a massicci spostamenti della popolazione umana. Nel 1997, Brown calcolò che nel mondo c’erano almeno 25 milioni di “rifugiati ambientali” anche se ancora non esistevano leggi pronte a riconoscere questa nuova realtà, e si lanciò in una fosca previsione: entro il 2010 questa cifra sarebbe raddoppiata, per raggiungere i 200 milioni nel 2050.
Secondo le Nazioni Unite, nel solo 2008 36 milioni di persone si sono dovute spostare a causa di disastri naturali, 20 milioni dei quali per ragioni climatiche. I 200 milioni nel 2050 sono una cifra futuristica, secondo alcuni fantascientifica e priva di credibilità accademica, ma secondo Esteban Rossi-Hansberg di Princeton e Klaus Desmet dell’Universidad Carlos III, “se la popolazione non potrà spostarsi, il riscaldamento globale avrà conseguenze disastrose: il 44 percento dell’umanità vive entro 150 chilometri dalla costa, così che l’innalzamento dei livelli del mare potrebbe risultare fatale; milioni di persone ai tropici potrebbero vedere le proprie fonti di sostentamento distrutte a causa del crollo dei raccolti causato dall’aumento delle temperature oltre certe soglie.”
Ma come cambierà l’economia globale mentre ci avviciniamo ad ampi passi alla situazione in cui la migrazione potrebbe diventare incontrollabile e enormi cambiamenti ambientali cambieranno per sempre la Terra? A fornire un tentativo di risposta sono Melissa Dell, Benjamin Olken e Benjamin Jones, ricercatori del Massachusetts Institute of Technology. Secondo loro, “se le reazioni future seguiranno la capacità di reazione di quelle passate, il cambiamento climatico globale abbasserà il tasso di crescita di un Paese povero mediano dello 0,6 percento all’anno da oggi fino al 2099. Nel corso di 90 anni, quindi, questo ipotetico paese sarà del 40 percento più povero di quanto sarebbe stato in assenza di cambiamenti climatici.” I paesi più ricchi, invece, sarebbero relativamente meno toccati dal cambiamento climatico perché le loro economie sono legate in misura maggiore a elementi di produzione immateriali. Ovviamente, “cambiamenti nelle temperature superiori a quelli dell’esperienza storica recente potrebbero produrre effetti non lineari, non contemplati dalle nostre stime”.
La verità è che nessuno può prevedere chiaramente che cosa succederà alle temperature e come i sistemi di produzione risponderanno: “l’incertezza è qui per rimanere,” sostengono Geoffry Heal della Columbia University e Antony Millner della London School of Economics , che invitano a prepararsi per i peggiori scenari possibili. Così come ribadito da Torsten Persson della Stockholm School of Economics, secondo cui: “ci sono davvero poche simulazioni con un riscaldamento di ‘soli’ 2-3 gradi centigradi, ma dobbiamo prestare molta attenzione alla coda pessimistica della distribuzione: la più alta realizzazione delle stime sulla temperatura raggiunge i 7 gradi centigradi nel 2105, i cui effetti potrebbero includere innalzamento dei mari fino a livelli che mettono in pericolo città strategiche come Londra, Shanghai, New York e rischi sostanziali su larga scala per il sistema-terra, come collassi della Corrente del Golfo o lo scioglimento dei ghiacci antartici.”
Ma c’è un altro lato della medaglia. L’innalzamento delle temperature e lo scioglimento dei ghiacci permetterà infatti l’accesso a risorse finora inesplorate. Così, mentre si moltiplicano i richiami preoccupati, un piccolo gruppo di Paesi si frega le mani. Sono quelle che, secondo alcuni, saranno le future superpotenze mondiali. Quando i ghiacci si ritireranno dalla Groenlandia, ad esempio, la piccola Danimarca otterrà un territorio di oltre due milioni di chilometri quadrati, grande quanto il Messico e otto volte l’Italia, ricco di risorse naturali. Anche il Canada farà parte del club, vedendo liberarsi terre quasi inesplorate al Nord lungo il circolo polare artico.
Secondo Laurence C. Smith, autore di The World in 2050, il riscaldamento globale libererà risorse come petrolio, acqua e gas naturale, il che attrarrà migranti e condurrà allo sviluppo dei Paesi Nordici proprio in un periodo in cui i Paesi più a Sud avranno sempre meno risorse e una popolazione sempre più piccola. Smith parla dunque di un mondo dominato dai cosiddetti “NORC,” i Northern Rim Countries: Islanda e Norvegia oltre a Canada e Danimarca, e in misura minore Svezia e Finlandia. Gli Stati Uniti parteciperanno in piccola parte a questa corsa al nuovo West, grazie all’Alaska, ma in termini geopolitici a risvegliarsi sarà soprattutto il gigante russo, che vede tutto il fronte Nord esposto ai ghiacci artici.
Il governo norvegese ha calcolato che grazie al climate change la produttività agricola del Paese aumenterà, soprattutto nelle parti più a Nord del Paese. Senza contare che la Norvegia possiede una parte rilevante del Polo Sud, il cosiddetto Antartico, ricoperto per 12 mesi dai ghiacci e con risorse naturali nascoste che potrebbero sbloccarsi quando la temperatura aumenterà. Terre vergini divise con Australia, Francia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna, Cile e Argentina, oltre a una porzione inesplorata e attualmente non posseduta da alcuna nazione. Sono già partite dure battaglie legali internazionali per affermare la proprietà di queste terre, e non è detto che le controversie si fermino, mentre i livelli del mare aumentano, alle carte bollate.