Smantellare l’accoglienza colpirà prima le donne

A pagare il prezzo più caro delle politiche che stanno smantellando l’accoglienza saranno le donne, ormai protagoniste dei flussi migratori, anche se spesso se ne parla come se a migrare fossero solo gli uomini

L’idea di “immigrato tipo” che dall’inizio del decennio corrente ha catalizzato il dibattito pubblico e politico in Italia, si regge su una narrazione dell’immigrazione fondata sul maschile universale. Neutralizzare la dimensione di genere delle migrazioni nel nostro paese ha comportato l’invisibilizzazione dei vissuti delle donne che migrano, costringendole a sparire oltre che dal linguaggio anche dalla maggior parte degli studi e delle statistiche.

Solo di recente è diventato possibile reperire dati disaggregati per genere e aggiornati sulla composizione dell’immigrazione in Italia, sia per quanto riguarda il sistema dell’asilo che, più in generale, per i flussi migratori ‘ordinari’. Molto più complesso – come sempre avviene quando si parla di privazione della libertà personale – è avere accesso a dati aggiornati sulla presenza femminile nei luoghi di detenzione amministrativa, ovvero, per quanto riguarda l’Italia, nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria.

Eppure, di donne che migrano ce ne sono: le donne rappresentano il 52% della popolazione straniera residente in Italia e il 13,3% delle persone che arrivano sulle nostre coste.

Nigeria, Siria, Costa d’Avorio

Per quanto riguarda il sistema dell’asilo, scorrendo i dati riportati nel Atlante SPRAR 2017, la presenza delle donne nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è andata aumentando nel 2017, così com’era stato già nel 2016. Lo scorso anno, l’incidenza della presenza femminile sul totale dei 36.995 accolti risulta del 15,2% con 5.637 accolte nei centri  (era il 13,4% nel 2016 e il 12% nel 2015). Anche tra le donne presenti nel sistema di accoglienza, la Nigeria risulta essere il paese di origine più rappresentato: è da lì, infatti, che proviene il 41,5% del totale delle donne che hanno avuto accesso ai centri. In termini di incrementi assoluti rispetto al 2016, le siriane accolte sono aumentate del 127,6% e di oltre il 50% le ivoriane.

La presenza delle donne ha un’incidenza relativamente maggiore nei progetti di accoglienza nell’ambito del programma europeo di reinsediamento (Resettlement), nel programma ISAF (destinato a cittadini e cittadine afghani/e che hanno collaborato con il contingente militare italiano all’interno dell’International Security Assistance Force) e nei centri SPRAR destinati a soggetti con disagio mentale e/o disabilità. Nel primo caso, si tratta principalmente di nuclei familiari e la presenza delle donne raggiunge il 46% nei programmi di Resettlement e il 45,5% per i progetti ISAF. Per quanto riguarda, invece, i progetti di accoglienza SPRAR per soggetti con disagio mentale e/o disabilità, la presenza femminile nel 2017 ha segnato un picco del 32% (rispetto al 23,3% del 2016): il 61,3% delle donne accolte in questo tipo di centri è di nazionalità nigeriana, a cui seguono le donne provenienti dal Cameroun (7,9%) e dalla Somalia (4,6%). Per quanto riguarda, infine, i minori stranieri non accompagnati, la presenza femminile rimane assolutamente minoritaria, costituendo i minori di genere maschile il 96,2% dei minori accolti.

Richiedenti asilo giovanissime

Le donne che vengono inserite nei progetti di accoglienza SPRAR sono giovanissime. Nel 2017, il 27,4% aveva un’età compresa tra i 18 e i 25 anni; il 22,4% tra i 26 e i 30 anni; solo il 5,1% aveva più di 40 anni, mentre il 16,8% aveva un’età compresa tra 0 e 5 anni.

Per quanto riguarda, infine, il titolo di soggiorno delle donne presenti nel sistema SPRAR, il 43,1% risulta essere nel 2017 richiedente asilo; il 17,6% ha ottenuto la protezione umanitaria; l’8,1% la protezione sussidiaria e il 30,6% lo status di rifugiato. Se però si considerano i progetti di accoglienza per persone con disagio mentale e/o disabilità – in cui, come sottolineato, la presenza femminile è molto rilevante – il 30,4% risulta essere richiedente asilo, il 7,1% titolare di protezione sussidiaria, il 20,4% deteneva lo status di rifugiato e il 42,1% la protezione umanitaria. Questo dato non può che destare allarme alla luce delle recenti riforme legislative in materia di immigrazione. 

Le migrazioni non sono un’emergenza

Il recente decreto legge n.113 – il cosiddetto d.l. Salvini – emanato il 4 ottobre 2018 e attualmente in fase di conversione presso il Parlamento, porta a termine un percorso di costante “emergenzializzazione” della realtà migratoria italiana, iniziato già nelle precedenti legislature e portato avanti dai governi che hanno preceduto quello attuale. L’accostamento tra le politiche dell’immigrazione e le misure relative a sicurezza e contrasto al terrorismo – oltre che lo strumentale uso della decretazione d’urgenza e della questione di fiducia per la conversione – contribuiscono a consolidare una visione dell’immigrazione come questione di ordine pubblico, invece che come componente strutturale della realtà sociale italiana, come suggerirebbero i numeri sopra riportati. La chiusura ermetica delle frontiere, la riduzione forzosa dei flussi in ingresso e l’aumento di respingimenti e rimpatri – grazie alla collaborazione diplomatica che Italia e Ue hanno laboriosamente intessuto con i paesi di origine e transito – hanno contributo a rendere l’ingresso in Italia estremamente pericoloso – anche a causa dell’assenza di canali legali di immigrazione – e la presenza straniera sempre più precaria, marginalizzata e oggetto di stigma e ostilità da parte dei cittadini e delle cittadine.

Il governo che smantella l’accoglienza

Il d.l. Salvini –  che va incontro a conversione certa entro la fine del mese di novembre – smantella il sistema italiano dell’accoglienza, rendendo i centri SPRAR accessibili solo a chi è già titolare di uno status di protezione, relegando le richiedenti asilo in altre strutture ricettive – specialmente nei Centri di accoglienza straordinaria – di fatto fomentando un approccio emergenziale in materia di accoglienza, basato sulla creazione di grandi centri, da tempo denunciati come deleteri per l’integrazione.

Il decreto, inoltre, elimina il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituendolo con una serie di fattispecie rigidamente tipizzate di permessi di soggiorno – per casi speciali, per malattia, per calamità, per atti di particolare valore civile – aumentando il grado di discrezionalità delle autorità preposte al rilascio – le Commissioni Territoriali ma anche le Questure – e non garantendo una protezione equivalente a quella che veniva garantita dalla protezione umanitaria. Il decreto, inoltre, introduce nuove fattispecie di detenzione per i richiedenti asilo in attesa dell’identificazione e aumenta il tempo massimo di detenzione nei Centri di permanenza per i rimpatri per i/le migranti senza documenti, riportandolo dagli attuali 30 giorni (prorogabili a 90) a 180 giorni.

Politiche migratorie repressive favoriscono la violenza sulle donne

Questo impianto legislativo – di natura evidentemente repressiva – non sembra coincidere con la realtà di una presenza stabile della popolazione straniera sul territorio, né con l’obiettivo sostanzialmente – e sciaguratamente – raggiunto di una riduzione massiccia dei flussi in ingresso. Come sempre avviene, inoltre, le misure repressive e restrittive in materia di immigrazione irregolare e di accesso al sistema di asilo e protezione, renderanno ancora più precarie le esistenze delle fasce più vulnerabili della popolazione straniera. I dati sopra riportati, rendono evidente come lo smantellamento del sistema SPRAR, l’eliminazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’assenza di politiche strutturali finalizzate all’integrazione e all’inserimento lavorativo della popolazione straniera[1] colpiranno in maniera drastica le donne, richiedenti asilo e non, esponendole a violenza e sfruttamento.

La storia decennale dell’immigrazione in Italia non può essere cancellata a colpi di decreto, così come la forza di auto-organizzazione delle donne non può essere spazzata via da provvedimenti legislativi sempre più conservatori e patriarcali. Quest’anno più che mai il 25 novembre non è una celebrazione vuota ma una giornata in cui stringere alleanze e resistere per non fare neanche un passo indietro.

Note

[1] Aggravata dall’ingente incremento di risorse destinate al Fondo Rimpatri, secondo quanto disposto dall’art. 6 del Decreto,  e dalla riduzione dei fondi FAMI per l’integrazione