Avevamo lo Stato Sociale (o welfare pubblico)…
Lo Stato sociale, nato nel dopoguerra ed esemplificato nel trinomio “case-scuole-ospedali” viene demolito da decenni in nome della sua presunta insostenibilità economica. Senza voler affrontare in questa sede l’inesattezza di questa affermazione, consideriamo le ultime trasformazioni che ne conseguono: alla progressiva privatizzazione dei servizi pubblici si aggiunge oggi il welfare aziendale, ovvero una fregatura mascherata da misura progressiva, in cui le aziende si sostituirebbero ad uno Stato carente…. In verità le aziende risparmiano e il lavoratore ci perde due volte: sul fronte del salario e sul fronte del welfare pubblico, che riceve sempre meno finanziamenti.
Ora ci propinano il welfare aziendale, ovvero contratti con benefits e servizi, ma senza aumento salariale
Con la stipula degli ultimi contratti collettivi, i sindacati confederali e le aziende hanno scelto la linea del Welfare aziendale, col quale si intende tutto quel pacchetto di servizi e agevolazioni che un’azienda offre ai propri dipendenti in sostituzione al pagamento monetario di stipendio o premi di produzione. Si tratta di misure come la copertura sanitaria integrativa (che in realtà si rivela sostitutiva a quella pubblica), l’assistenza agli anziani e le spese d’istruzione – sia nel settore pubblico, ma in special modo in quello privato. A queste si sono aggiunti i “flexible benefits”, ovvero pacchetti viaggio, attività ricreative, abbonamenti sportivi, centri benessere, cinema, soggiorni in location selezionate: un vero e proprio investimento delle aziende nella fidelizzazione del dipendente. Sappiamo che i padroni hanno avuto per svariati decenni la possibilità di erogare una somma di 500mila lire in buoni o agevolazioni, ma si trattava di una elargizione da parte delle aziende con l’obiettivo esplicito di ingraziarsi i dipendenti e restava fuori dagli accordi sindacali, senza mettere in discussione altre richieste salariali. Ora, col coinvolgimento dei sindacati, le quote di welfare aziendale saranno lentamente ma inesorabilmente considerate sostitutive degli aumenti salariali. Invece di soldi, riceveremo fondi in “benefits”. Non solo si torna al pagamento in natura degli anni ’50, ma si viene legati a doppio filo all’azienda: se si perde il lavoro, si perdono quote di servizi e assistenza.
Due soldi e una gallina anche nell’ultimo contratto dei metalmeccanici
Fim, Fiom, Uilm, che hanno firmato l’ultimo contratto dei metalmeccanici, hanno sbandierato un teorico “aumento complessivo di 92 euro”, di cui però solo 51 sarebbero un adeguamento in busta paga (e neanche troppo sicuri, visto che gli aumenti sono legati all’inflazione reale – ex post, quindi per ora soltanto presumibili). Il resto rientra in “altre voci”: oltre alla previdenza complementare (7,69 euro) e alla sanità integrativa (12 euro), sono previsti 13,6 di flexible benefits (450 euro in tre anni, consistenti in buoni carrello e benzina, ma anche asili, centri estivi, dopo-scuola, tasse, testi, gite e trasporti scolastici, baby sitter, interessi su mutui, attività culturali e di formazione, pellegrinaggi). Arriviamo così ad un totale di 85 euro mensili – che diventano i famosi 92 euro con la quota per il diritto alla formazione continua. Va sottolineato che questi contributi sottraggono salario immediatamente disponibile per il lavoratore ed ingabbiano la sua scelta di spesa o di risparmio. Gli aumenti contrattuali verranno vincolati sempre di più all’accesso al welfare aziendale. Se consideriamo poi che le quote versate dall’azienda nella previdenza complementare (fondo Cometa) o nella sanità integrativa vanno solo ai lavoratori che vi aderiranno, capiamo bene che questi teorici aumenti contrattuali non sono acquisizioni certe ed incondizionate! Bella fregatura! Che attacco alla libertà di scelta e alla dignità dei lavoratori!!!
Le imprese fanno pressione perchè i lavoratori vi aderiscano, ma anche i sindacati firmatari, perché gestendo quote di welfare aziendale attraverso gli enti bilaterali, hanno veri e propri interessi economici nella diffusione di tutto questo pacchetto di welfare aziendale.
Chiediamoci perché Fim, Fiom e Uilm hanno firmato accordi che introducono il welfare aziendale
Nell’ambito sanitario, le convenzioni con cliniche e ambulatori privati ad opera della singola impresa sono state scavalcate in favore di una gestione nazionale da parte degli enti bilaterali, composti pariteticamente da associazioni padronali e sindacati confederali. La cogestione del welfare aziendale attraverso la partecipazione agli Enti Bilaterali costituisce quindi una fetta importante dei bilanci sindacali.
Nel 2013 è uscito il Primo Rapporto Nazionale sugli Enti Bilaterali in Italia (su www.italialavoro.it): già allora si contavano 536 fondi previdenziali con un giro di 104 miliardi di Euro (6% del Pil) e 260 fondi di sanità integrativa. Che siano fondi “aperti” o di categoria, si parla comunque di enti privati, difficilmente controllabili. Sempre nel 2013, 10mila persone risultavano impiegate in questo settore. Tra questi, molti sono sindacalisti o ex sindacalisti. Il sindacato incassa i gettoni di presenza per la partecipazione ai Consigli D’Amministrazione o di Gestione. Grossa parte dei contributi versati dagli stessi lavoratori finisce proprio nelle spese di gestione.
Guardando i dati del 2013, si nota che le spese per l’erogazione dei servizi difficilmente superano il 50% del bilancio di un fondo. Il resto sono costi gestionali. Fonchim (Fondo previdenziale dei Chimici) ha destinato nel 2013 588mila euro annui agli organi statutari e 1,2 milioni di Euro ai costi di gestione. Il Fondo Cometa ha speso per i suoi “organi” 250mila Euro annui più 1,1 milioni per il personale.
La Legge di Stabilità ha defiscalizzato il welfare aziendale
Con la Legge di Stabilità 2016, il premio di risultato, o il premio di partecipazione, viene sottoposto alla tassazione agevolata (aliquota IRPEF al 10%). Al lavoratore viene data la possibilità di convertirlo in beni e servizi di welfare aziendale, risparmiando sugli oneri fiscali ma anche contributivi – e facendo risparmiare ancora di più l’azienda. Tale possibilità è subordinata al consenso del singolo lavoratore, ma nel tempo rischia di scardinare l’intero impianto dei vecchi premi.
Dal 2017 questa defiscalizzazione sarà garantita non solo alle aziende del settore privato, ma anche al settore pubblico. Stiamo parlando di un risparmio che per il dipendente si aggira intorno al 10%, ma per il datore di lavoro oltrepassa il 40%. In questo modo modo lo Stato rinuncia ad un notevole introito fiscale.
Il welfare aziendale conviene alle aziende, ma il lavoratore ci perde due volte
Questa nuova normativa fiscale ci crea l’abbaglio di pagare nell’immediato meno tasse. Ma non è tutto oro quel che luccica: é vero che il lavoratore risparmia il 10% di trattenute se decide di destinare il proprio premio al welfare aziendale, ma lo Stato, avendo meno entrate fiscali, a sua volta destinerà meno fondi a sanità, istruzione, servizi e pensioni pubbliche. Invece di destinare i nostri soldi alla fiscalità generale ci stanno spingendo a indirizzarli verso strutture private per poter smantellare lo stato sociale pubblico. In realtà stiamo pagando due volte per lo stesso servizio. Il welfare aziendale è funzionale al disfacimento dei servizi pubblici fondamentali, un apripista alla loro privatizzazione mascherata da riforma progressista.
Le aziende, oltre a pagare meno tasse, hanno anche l’opportunità di scegliere quali benefits “offrire”, indirizzando i consumi dei propri dipendenti, facendo affari con i distributori e contribuendo alla costruzione di monopoli dei servizi e merci.
Per noi lavoratori, invece, il welfare aziendale comporta ulteriori fregature: non influisce su nessuno degli istituti contrattuali, TFR compreso, e non permette la maturazione dei contributi pensionistici; nel caso delle spese per la formazione ed educazione dei figli, quanto si è risparmiato in tasse e contributi si azzera con il mancato recupero del 19% nella dichiarazione dei redditi dell’anno successivo.
In sostanza ci guadagnano le aziende che vendono servizi, i fondi pensionistici integrativi, le casse assicurative, le scuole private: tutte realtà che come parassiti vivono della distruzione dello stato sociale!
Con l’espansione del welfare aziendale, il nostro modello sociale somiglierà sempre di più a quello degli Usa. Senza copertura assicurativa non potremo accedere alle cure sanitarie. Questo nuovo modello di welfare non è universalistico e quindi ne sono esclusi disoccupati, precari, casalinghe, anziani e bambini. Vi avrà accesso infatti solo chi ha un posto di lavoro, quindi faremo di tutto per non essere licenziati, perché l’esclusione dal ciclo produttivo diventerà l’esclusione da ogni tipo di assistenza. Ma neanche questo ci garantirà del tutto: le aziende e gli istituti privati che si sostituiscono al welfare non hanno alcuna intenzione di soddisfare “un diritto”, hanno semplicemente intenzione di guadagnarci. Appena una voce risulterà in perdita verrà scansata dal welfare aziendale, facendola ricadere sulla spesa pubblica. Il risultato? Pagheremo la sanità integrativa, ma dovremo comunque pagarci le prestazioni sanitarie più onerose.
Taballa elaborata da Il Sindacato è un’Altra Cosa
Che fare quindi?
Ora come ora, scegliere se destinare il premio di produttività al welfare aziendale o riceverlo in busta paga non cambierà molto le cose…
Il punto è comprendere che questa impostazione va contestata in tutti i rinnovi contrattuali: il welfare aziendale non è una misura progressista, ed è bene che i confederali smettano di propagandarla così, prendendoci per i fondelli!
La soluzione è invertire la rotta:
pretendere contratti con aumenti salariali in busta paga
boicottare col voto i rinnovi contrattuali che prevedono il welfare aziendale
non delegare i rinnovi contrattuali a sindacati che si spartiscono il bottino delle nuove praterie del welfare integrativo con i padroni e gli enti bilaterali!