Non Una di Meno: report tavolo LAVORO E WELFARE – Bologna 2017

tavolo lavoro 8 marzoReport Tavolo lavoro e welfare — 4/5 febbraio 2017, Bologna

Piano femminista contro la violenza

Il Tavolo lavoro e welfare ha individuato alcune misure che possono e devono essere applicate immediatamente nella prospettiva di facilitare e rendere efficaci i percorsi di fuoriuscita dalla violenza; di garantire una reale autonomia alle donne, e quindi possibilità concrete di sottrarsi alla violenza maschile e di genere e a quella economica e sociale imposta dalla precarietà; di sovvertire i modelli di leadership machisti che impongono limitazioni orizzontali e verticali alle carriere delle donne o che scoraggiano meccanismi di autoimprenditorialità femminile. Tutte le proposte dovranno essere approfondite in vista della redazione del Piano femminista contro la violenza. La cornice condivisa è stata quella che considera la femminilizzazione del lavoro nelle sue due facce: da una parte, come processo che ha esteso a tutto il lavoro i tratti che storicamente hanno caratterizzato il lavoro femminile, quindi l’obbligo a una piena disponibilità del tempo, l’intermittenza e la gratuità lavorativa; dall’altra, come modalità specifica di sfruttamento che mette al lavoro le soggettività stesse, dunque forme e stili di vita, capacità relazionali e di cura. Sebbene questo processo riguardi il lavoro nel suo complesso, esso colpisce però ancora le donne in modo particolare, perché è ancora pienamente vigente uno specifico regime di divisione sessuale del lavoro. Anche per questo, ogni approccio teso a favorire la cosiddetta conciliazione tra il lavoro produttivo e quello riproduttivo è stato espressamente rifiutato, nella misura in cui riafferma anziché contestare la logica per cui alle donne spettano per definizione le attività domestiche e di cura. Abbiamo una piattaforma di rivendicazioni che rappresenta la nostra idea di come la riproduzione debba diventare una questione generale e sociale, non più a solo carico delle donne: indennità di maternità generalizzata e incondizionata, non solo dunque per le lavoratrici subordinate e parasubordinate e non solo in presenza di un contratto di lavoro; lo stesso per quella di paternità e quindi un’effettiva estensione di essa come sostegno sostanziale al diritto alla genitorialità condivisa; il rifinanziamento e il potenziamento dei servizi pubblici per l’infanzia, che garantiscano l’accesso universale agli stessi, dal momento che la priorità data ai genitori lavoratori determina infatti troppo spesso situazioni di disoccupazione forzata per le madri precarie.

Il Tavolo ha riconosciuto il peso della dipendenza economica e della precarietà come causa della maggiore vulnerabilità ed esposizione delle donne alla violenza. Un punto di riferimento particolarmente utile per orientarsi nei percorsi di fuoriuscita è stato indicato nella legislazione spagnola relativa alla protezione dalla violenza di genere, in cui c’è un’intera sessione dedicata alla violenza economica dove si prevedono numerosi strumenti, quali la sospensione o il reintegro obbligatorio nel contratto di lavoro, il trasferimento agevolato, il diritto alla flessibilità di orario, il divieto di licenziamento, il diritto alla sospensione della tassazione per le lavoratrici autonome e una serie ulteriore di misure che vanno dai trasferimenti economici alla corsia preferenziale per accedere alla casa popolare. Nel tavolo si è proposto di inserire nel Piano Femmnista contro la violenza maschile sulle donne la proposta di uno strumento economico di sostegno alle donne che risiedono temporaneamente nelle case rifugio, non inteso come misura di contrasto alla povertà ma proprio come principio di reddito di autodeterminazione. La violenza sulle donne ci impoverisce ed è per questo che chiediamo reddito per essere libere di andare via! È stata inoltre riconosciuta l’importanza di offrire garanzie per quanto riguarda le condizioni abitative ed è stata proposta la soluzione di sistemi di co-housing di cui lo Stato o gli Enti locali possano farsi garanti. Per quanto riguarda le misure di prevenzione, sono stati proposti corsi di formazione obbligatori nei luoghi di lavoro sulla violenza e le molestie a sfondo sessuale, sessismo e mobbing, che coinvolgano tutto il personale; corsi, costruiti dalle donne e per le donne, al fine di offrire informazioni e strumenti di autodifesa adeguati, oltre che l’urgenza di ripensare le misure giuridiche di tutela anche in relazione alla possibilità di imputare a datori e colleghi la responsabilità di episodi di violenza e molestie sul posto di lavoro. È stato posto il problema di riconoscere la violenza psicologica tra le forme di violenza perseguibili e che le donne devono avere la possibilità di denunciare. È stata infine sottolineata l’importanza di riconoscere il lavoro delle donne che operano nelle Case e nei centri antiviolenza, affinché la necessaria enfasi sul loro coinvolgimento politico e la loro autonomia dalle istituzioni non si risolva in precarietà e lavoro non pagato.

Un’ampia discussione è stata dedicata alle diverse forme di violenza economica e alla possibilità di individuare misure che siano capaci, nell’immediato, di contrastarla. Il tavolo ha espresso un generale rifiuto del Jobs Act e della legislazione in merito ai sistemi contributivi e pensionistici, i cui effetti gravano doppiamente sulle donne intensificando e moltiplicando il tempo del loro sfruttamento tanto nel lavoro produttivo quanto in quello riproduttivo. Da più parti sono stati denunciati gli effetti dell’esternalizzazione dei servizi e il modo in cui tanto nella distribuzione delle mansioni quanto negli scatti di carriera le donne siano sistematicamente penalizzate. È stata avanzata la proposta di prevedere esenzioni fiscali per il lavoro di cura e di sviluppare un discorso specifico per le lavoratrici autonome, che sono tendenzialmente prive di qualsiasi forma di tutela, mentre alcune hanno indicato l’urgenza di estendere le tutele anche alle lavoratrici del sesso e alle madri surrogate. La questione delle donne portatrici di handicap è stata sollevata sia in relazione all’assenza di servizi e infrastrutture di sostegno – che evidentemente aggrava la loro esposizione alla violenza –, sia in relazione alla loro messa al lavoro, spesso tramite le cooperative, in situazioni di precarietà. Le organizzazioni studentesche hanno indicato la necessità di prevedere misure di tutela alla maternità per le specializzande e le studentesse, come pure di individuare strumenti capaci di contrastare le forme di molestia e violenza perpetrate dai docenti. Tanto le studentesse medie quanto quelle universitarie hanno denunciato come i programmi di alternanza scuola/lavoro non solo riproducano precarietà e forme di lavoro gratuito assolutamente prive di tutele (tirocini, voucher), ma anche ruoli e posizioni di genere.

8 punti per l’8 marzo

La discussione che ha portato alla formulazione del contributo del tavolo agli «8 punti per l’8 marzo» è stata molto ampia. In modo particolare, è stata riconosciuta l’impossibilità di individuare un singolo punto che da solo sia in grado di esaurire la complessità della critica femminista alla violenza sessista, sociale ed economica  esercitata contro le donne. La proposta di un reddito di autodeterminazione, sostenuta da più parti, indica una possibilità concreta di sottrarsi al ricatto e allo sfruttamento della precarietà, come pure all’obbligo di accettare qualunque condizione lavorativa e salariale. Le lotte per il salario e il reddito sono necessarie per esprimere il rifiuto di un sistema che produce un impoverimento globale. Non si tratta solo di permettere una reale fuoriuscita da relazioni violente, ma anche di pensare strumenti capaci di contrastare la precarietà come forma di violenza che colpisce le donne in modo specifico ma riguarda tutti. Per questo è stata inoltre riconosciuta l’importanza di forme di welfare autonomo, rilanciando l’esperienza di «consultorie autogestite» all’interno delle quali sia possibile sovvertire le forme di riproduzione sociale che impongono e fissano le identità e i ruoli di genere. Tuttavia, né il reddito né queste pratiche di mutualismo possono essere pensate in alternativa al welfare e neppure possono essere separate dalle rivendicazioni in termini di salario, tanto più se, nella forma di un «welfare monetizzato», servissero a pagare o integrare i salari da fame attuali, come quelli, tra gli altri, delle lavoratrici domestiche e della cura, nella maggior parte dei casi migranti vessate dal permesso di soggiorno. È stata proposta per questo la rivendicazione di un salario minimo, riconoscendo l’esigenza di articolarla in una prospettiva femminista anche connettendosi all’esperienza di altre donne nel mondo, come quelle che negli Stati Uniti hanno fatto propria la parola d’ordine del salario minimo di 15 $. Non basta infatti pretendere la parità salariale: il gap salariale non è un problema relativo alla sola legislazione e non può essere risolto esclusivamente sul piano della contrattazione, in un contesto in cui le forme del lavoro sono sempre più frammentate. Soprattutto, esso dipende dalla posizione di subordinazione a cui le donne sono obbligate sia dal doppio carico di lavoro, sia da una generale penalizzazione della maternità, reale o potenziale. Per questa ragione, il salario minimo deve essere posto come rivendicazione almeno europea, per riuscire a contrastare i bassi salari, il gender pay gap e i dispositivi di dumping salariale. Esso va inoltre messo in relazione a una regolazione del lavoro che, a prescindere dalle forme contrattuali, imponga una prospettiva femminista sull’organizzazione del lavoro produttivo e di quello riproduttivo, ponendo il problema della maternità e della riproduzione come questione non femminile ma sociale. Un’analoga prospettiva va affermata in relazione al welfare: netto è stato il rifiuto di ogni forma di welfare aziendale, attuata al prezzo della riduzione dei salari. Se l’organizzazione neoliberale del welfare dà per scontato che siano le donne a farsi carico di tutte quelle prestazioni che non vengono più erogate dal pubblico, rivendicare welfare significa porre le condizioni per contrastare la coazione al lavoro che il neoliberalismo impone a tutte e tutti.

La formulazione del contributo del Tavolo lavoro e welfare agli «8 punti per l’8 marzo» parte allora da questo presupposto: abbiamo parlato di femminilizzazione come processo che ha esteso a tutto il lavoro le caratteristiche, anche in termini di sfruttamento, che un tempo erano proprie del lavoro femminile. Questa affermazione ne racchiude in sé un’altra, il suo rovescio positivo: le donne non possono essere pensate come se fossero una categoria del lavoro tra le altre. Piuttosto, a partire dalla loro prospettiva sempre situata, diviene oggi possibile mettere radicalmente in questione un intero ordine di dominio e sfruttamento, coinvolgendo così tutti quei soggetti che vivono in modi diversi la violenza quotidiana della precarietà. Non è sufficiente perciò partecipare come donne alle lotte generali contro la precarizzazione del lavoro e della vita e neppure avanzare rivendicazioni separate. Abbiamo la possibilità di fare valere la forza che le donne, a partire da una prospettiva femminista, stanno mettendo in campo in tutto il mondo, proponendo un ripensamento radicale del sistema di produzione e riproduzione, nuove forme della politica, un’altra idea di società. Per questo,

Se le nostre vite non valgono, scioperiamo! Rivendichiamo un reddito di autodeterminazione, per avere strumenti reali che consentano di uscire da relazioni violente e contro l’intensificazione dello sfruttamento e la pretesa di una piena disponibilità del tempo di vita, di cui le donne per prime hanno fatto esperienza, ma che oggi è diventata condizione generale di tutto il lavoro; un salario minimo europeo contro la violenza quotidiana dei salari da fame, dei dispositivi di dumping e gender gap, della divisione sessuale del lavoro e delle catene globali della cura, che si alimentano delle differenze e delle gerarchie salariali attraverso i confini; un welfare che ci liberi dalla coazione al lavoro e sovverta i ruoli di genere e le gerarchie sessuali, facendo della riproduzione della vita una questione non femminile ma sociale.

Sciopero delle donne dell’8 marzo

Queste rivendicazioni sono le prime proposte che inseriremo nel Piano femminista contro la violenza. Le porteremo in piazza durante il prossimo sciopero delle donne dell’8 marzo, con la determinazione di chi non accetterà rifiuti. Se le nostre richieste non saranno accolte, sarà sciopero a oltranza! Di qui all’8, e a partire da questi punti, vogliamo costruire una comunicazione tra donne che si trovano in condizioni molto diverse, ma anche con tutti quei soggetti, inclusi gli uomini, che mettono in questione il dominio e l’egemonia maschili. Lo sciopero dell’8 marzo deve coinvolgere il lavoro produttivo, quello riproduttivo, ma anche esprimere il rifiuto e la sovversione delle gerarchie sessuali e delle norme di genere che si impongono sulla vita delle donne come oppressione e sfruttamento quotidiani. Questo, insieme alla sua dimensione globale, rende lo sciopero dell’8 marzo qualcosa di nuovo anche rispetto ad altre, pur fondamentali, esperienze di sciopero messe in campo dalle donne. Come lo sciopero delle donne polacche, che si sono sollevate contro la proposta di abolire l’aborto, lo sciopero dell’8 marzo deve essere uno sciopero politico. Come sta già accadendo in tutto il mondo, l’8 marzo le donne faranno dello sciopero una pratica politica femminista e saranno in testa all’iniziativa politica globale contro precarietà, razzismo e sfruttamento.

Per questo il Tavolo ha unanimamente ribadito la necessità di far convergere sull’8 marzo lo sciopero del 17 contro la Buona scuola indetto da alcuni sindacati di base. Benché questi abbiano spiegato che la scelta della data è stata fatta per non danneggiare lo sciopero delle donne, è evidente che le insegnanti sono messe in difficoltà dalle due giornate di sciopero così ravvicinate. Allo stesso tempo, il Tavolo ha espressamente chiesto ai sindacati confederali di dichiarare lo sciopero generale e mettersi al servizio della sua organizzazione, oppure di farsi carico della responsabilità politica del proprio rifiuto. La risposta della CGIL – una vaga disponibilità a organizzare assemblee sui posti di lavoro e a lasciare alle Camere del lavoro locali la possibilità di dare copertura agli scioperi – è del tutto insufficiente rispetto all’importanza politica dell’iniziativa delle donne. Anche per questo, è stata indicata la necessità di agire all’interno dei singoli posti di lavoro, tenendo in considerazione il fatto che sindacaliste e RSU hanno la possibilità di aderire allo sciopero a cui è già stata garantita copertura nazionale. L’8 marzo le donne vogliono scioperare e lo faranno!

Per l’organizzazione dello sciopero, sono state avanzate diverse proposte che vengono condivise come indicazioni che ogni realtà può mettere in atto a livello locale:

— Costruire assemblee in tutti i luoghi di lavoro, dalle fabbriche ai negozi e alla grande distribuzione (in alcune città è già aperta una comunicazione con le lavoratrici di alcune grandi catene dell’abbigliamento) ai servizi (per esempio ospedali e cooperative di pulizie) alle scuole di tutti i gradi. Coinvolgere il settore pubblico che può con maggiore facilità scioperare.

— Collegarsi a vertenze già in atto (ad esempio a Roma è già aperta una comunicazione con i licenziati di Almaviva, per la maggior parte donne) per coinvolgerle nella mobilitazione dell’8 marzo e costruire casse di mutuo soccorso e solidarietà.

—  Costruire all’interno delle università e in tutti i dipartimenti lezioni dedicate specificamente allo sciopero e al femminismo, e momenti assembleari che possano in primo luogo informare e, in secondo luogo, diventare le condizioni per allargare la partecipazione allo sciopero, tanto delle docenti quanto delle studentesse e degli studenti che devono essere coinvolti nelle mobilitazioni dell’8 marzo.

— Affrontare il problema delle condizioni di lavoro che impediscono una effettiva partecipazione allo sciopero. Creare le condizioni per una partecipazione di massa può consentire a singole lavoratrici, altrimenti esposte al ricatto della precarietà, di astenersi dal lavoro. Bisogna però nello stesso tempo pensare a modalità di coinvolgimento delle lavoratrici precarie che hanno maggiori difficoltà a scioperare: un colore che renda distinguibile la partecipazione alla protesta; rifiutare la divisa e di mettere in pratica i comportamenti imposti per soddisfare i clienti (per le cameriere o le commesse, per esempio, rifiutare di truccarsi, di curare il proprio aspetto, di mettere in scena cortesia e deferenza); comunicare con video e immagini sui social la propria partecipazione allo sciopero.

— Interrompere ogni attività domestica e di cura, tanto pagata quanto non pagata. Questo pone due diversi problemi: primo, lavorare attivamente per il coinvolgimento delle lavoratrici domestiche salariate, spezzando l’isolamento della casa come luogo di lavoro; secondo, trovare modi di dare visibilità allo sciopero, ovvero di portare alla luce quello che altrimenti resta invisibile e sommerso dietro le mura delle case (per esempio, appendere panni neri o fuxia – i colori dello sciopero – alle finestre). Il coinvolgimento degli uomini nello svolgimento delle mansioni di cura deve porre la questione della loro necessaria gestione sociale e non solo «femminile».

— Pensare a modalità di iniziativa che possano rendere evidente il nesso tra produzione e riproduzione: individuare alcuni luoghi (per esempio gli ospedali in cui è praticata l’obiezione di coscienza) dove le lavoratrici possano scioperare prendendo direttamente parola contro le restrizioni dell’autodeterminazione delle donne. Rifiutare di consumare e fare acquisti. Rifiutare di pagare i biglietti sui mezzi di trasporto, perché il lavoro gratuito svolto dalle donne è già un prezzo sufficiente.

Tutti gli interventi hanno riconosciuto il problema di individuare pratiche (colori e simboli condivisi, l’uso dei social network, la convergenza verso una manifestazione pomeridiana o serale) per dare visibilità a tutte le forme di protesta che verranno messe in campo l’8 marzo dentro e fuori i posti di lavoro. Questo non significa che lo scioperò sarà simbolico, perché ciascuna si è impegnata, a partire da sé e dalla propria specifica condizione di lavoro e vita, a organizzarlo effettivamente. La visibilità è invece necessaria non solo per mettere al centro della scena il rifiuto di tutte quelle attività «nascoste» che quotidianamente le donne praticano, ma anche per esprimere e rendere evidente la forza che le donne stanno riprendendosi in tutto il mondo usando lo sciopero come arma e parola d’ordine dentro e fuori i posti di lavoro.