Giulio Regeni: note per un esercizio radicale della memoria

Regeni streat artGiulio Regeni: note per un esercizio radicale della memoria

di Franco Palazzi e Michela Pusterla, da Effimera.org del 24 gennaio 2017

Quasi un anno fa, veniva ritrovato al Cairo il corpo di Giulio Regeni, verosimilmente torturato e ucciso dalle forze di sicurezza locali. Oggi, dopo dodici mesi di indagini e depistaggi, la richiesta di verità e giustizia rimane dolorosamente inevasa. Con questo articolo, vogliamo rimettere in discussione le responsabilità di quanto è successo e dello stallo delle indagini, inserendole in una rete complessa di fattori strategici, interessi economici, diplomazia, diritti umani formalmente difesi e sistematicamente violati, su entrambe le sponde del Mediterraneo. Vogliamo anche indagare il ruolo politico della memoria, ricollocando la vicenda di Regeni nel quadro cui appartiene – quello delle (migliaia di) vittime di tortura del regime egiziano – e interrogandoci sui modi possibili per ricordarlo senza cancellare le storie altre, quelle meno visibili, facendo allo stesso tempo della morte di Regeni un punto di partenza per un esercizio radicale di memoria collettiva. Rinarrare la storia di Regeni, conficcata al crocevia di memorie e sfere pubbliche diverse, può diventare l’occasione per far luce sulla torbida cartografia delle responsabilità e insieme per minare  il nostro sguardo (“occidentale”, egemonico) sul mondo.

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Il 25 gennaio 2017 ricorre il primo anniversario del rapimento di Giulio Regeni, il dottorando italiano torturato e ucciso in Egitto. Un anno dopo, il caso è ancora irrisolto, la campagna “Verità per Giulio Regeni” continua senza sosta, mentre l’attenzione dei media si è progressivamente affievolita. Il rischio che la vicenda si trasformi «intempestivamente e irresponsabilmente […] in storia, in memoria, in ricordo» – come ha scritto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – è diventato dolorosamente tangibile, mentre i comportamenti del governo italiano sono stati, con le parole del senatore Luigi Manconi, «lenti fino all’inerzia e incerti fino all’acquiescenza». In questo contesto, mantenere l’attenzione sulla vicenda e sulle responsabilità italiane ed egiziane rispetto all’andamento delle indagini diventa un compito politico e intellettuale. In altre parole: dietro questo nostro articolo c’è una ragione in primo luogo performativa.

Giulio Regeni era uno studente di dottorato a Cambridge – «a highly promising young scholar of social and economic development in the Middle East» ricorda il necrologio sul sito dell’università – e si era trasferito al Cairo per studiare sul campo i sindacati indipendenti egiziani, in particolare quello dei venditori ambulanti. Scomparso il 25 gennaio, nel quinto anniversario di piazza Tahrir, è stato ritrovato senza vita nove giorni dopo, alla periferia della città. Come hanno confermato l’ambasciatore italiano Maurizio Massari e le autopsie in Egitto e in Italia, il corpo presentava evidenti segni di tortura, al punto che «se ce ne fosse la volontà da parte egiziana, non sarebbe difficile risolvere sul piano giudiziario il caso Regeni, semplicemente partendo dai segni trovati sul suo corpo» (cfr. Beccaria e Marcucci 2016: 31).

Il 21 aprile scorso, l’agenzia Reuters ha ricostruito gli eventi in base a sei fonti anonime di intelligence e di polizia. Dopo essere stato prelevato da agenti in borghese vicino alla stazione della metro Gamal Abdel Nasser, Regeni è stato interrogato e torturato in due (o quattro) fasi: prima alla stazione di polizia di Izbakiya, poi a Lazoughli, compound gestito dalla Difesa. Secondo la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà e altri attivisti per i diritti umani egiziani, i segni di tortura parlano chiaro, e quelli riscontrati sul cadavere di Regeni (costole rotte, abrasioni ai genitali, lesioni traumatiche, bruciature di sigaretta, emorragia cerebrale) dicono una cosa: che è stato ucciso dai servizi di sicurezza egiziani. È ormai noto che i servizi tenevano sotto controllo Regeni (catalogato come file 333//01/2015) dal suo arrivo in Egitto, che qualche settimana prima della sua scomparsa era stato denunciato da Mohamed Abdallah, un leader sindacale, in pieno clima da xenofobia di regime (cfr. Declich 2016: 79-84). A fine dicembre, Abdallah ha dichiarato di essere fiero del proprio gesto. La sua tesi, infatti, fastidiosamente ribadita all’infinito, è che Giulio Regeni fosse una spia occidentale – una congettura smentita da qualunque riscontro fattuale, da quelli sui suoi conti correnti a quelli relativi ai contatti e spostamenti (Beccaria e Marcucci 2016). Le ipotesi degli inquirenti egiziani, altrettanto infondate ma molto più infauste e infamanti se si considera la posizione di chi le pronuncia, hanno spaziato dalla vendetta dei servizi segreti occidentali all’incidente d’auto, dal crimine di droga al delitto passionale. L’ipotesi del sequestro da  parte di una banda criminale si è conclusa con la morte di cinque innocenti, in un ennesimo tentativo maldestro di insabbiamento. Tuttavia, le indagini, guidate dal maggiore Khaled Shalaby, già condannato per rapimento e torture sotto Mubarak, conducono lentamente ma ineluttabilmente verso un crimine di tortura.

La tortura – come la privazione arbitraria della libertà e della vita – comporta la responsabilità di uno Stato ai sensi del diritto internazionale. E si intende: non solo quando il colpevole è lo Stato stesso per mano dei suoi funzionari, ma anche quando tale Stato non è in grado di adottare misure specifiche per prevenire e punire questi crimini e per permettere alla vittima di ottenere un risarcimento (cfr. art. 12 della Convenzione contro la tortura, vincolante per l’Egitto). Tuttavia, ad oggi, l’Egitto ha rispettato solo formalmente questa prescrizione e dobbiamo ancora vedere qualcosa di sostanziale. In questi mesi di incontri bilaterali italo-egiziani, il rischio di una soluzione di facciata – che incrimini alcune figure di basso livello per un’azione concepita nelle alte sfere – è sempre stato altissimo. Se si considerano sia la lunga storia di violazioni dei diritti umani in Egitto (e in particolare con al-Sisi), denunciata a più riprese da attori istituzionali e ONG (Amnesty International e Human Rights Watch), sia la scarsa autonomia della magistratura e l’omertà diffusa a ogni livello, è difficile credere che la verità sul caso Regeni emergerà senza fare appello proprio alla responsabilità internazionale del Paese.

Da parte sua, tuttavia, l’Italia sembra essere piuttosto riluttante nell’usare gli strumenti del diritto internazionale. L’ex premier Matteo Renzi – il primo leader europeo a visitare l’Egitto di al-Sisi, nel 2014 – ha dichiarato: «Se qualcuno pensa che in nome del politicamente corretto noi possiamo accontentarci di una verità artificiale e raccogliticcia, be’, ricordatevi che noi siamo l’Italia: non accetteremo mai nessuna verità di comodo […] non c’è business che tenga, non c’è diplomazia che tenga». Ecco, noi siamo l’Italia e le azioni diplomatiche nei confronti dell’Egitto si sono al momento limitate al richiamo dell’ambasciatore Massari – cui ha fatto poi seguito la nomina di un sostituto – e al voto del Senato contro la vendita di pezzi di ricambio dei caccia F-16 all’Egitto.

Ora, questa esitazione può essere spiegata da diversi fattori. Il primo è economico: Italia ed Egitto sono legati da interessi considerevoli (della portata di 2,6 miliardi di dollari l’anno), in settori che vanno dalle armi al petrolio, dal cemento ai trasporti all’energia: lo scorso febbraio, l’Eni ha ottenuto il via libera per lo sfruttamento dell’enorme giacimento di gas di Zohr, al largo delle coste egiziane (qui l’evento sul sito dell’Eni, che parla entusiasticamente dell’«amico Egitto»), mentre, poco prima della morte di Regeni, una società italiana, la Hacking Team, aveva venduto dispositivi di sorveglianza elettronica al Consiglio Nazionale della Difesa di al-Sisi. Omar Hamilton, regista e attivista egiziano, commenta: «Quando ogni anno l’Italia manda delegazioni commerciali in Egitto e il primo ministro italiano durante una conferenza economica nel Paese dice: “La vostra guerra è la nostra guerra, e la vostra stabilità è la nostra”, significa solo una cosa: fate quello che dovete fare per restare al potere, per mantenere vivo il ‘vantaggio competitivo’ dell’Egitto per lo sfruttamento economico»

Il secondo motivo è strategico: l’Egitto è considerato un alleato cruciale contro Daesh (ha affermato Renzi, in un intervento su Regeni: «ritengo assolutamente strategica la leadership egiziana per contrastare l’ISIS») e una barriera contro la crescita del fondamentalismo nella zona – per quanto occorra tenere presente che al-Sisi trova oppositori in partiti e movimenti religiosi sia radicali sia moderati. In uno scenario geopolitico così drammatico, le violazioni dei diritti umani sono spesso viste dai cosiddetti Paesi occidentali come un prezzo da pagare in nome della stabilità e del mantenimento di relazioni diplomatiche gestibili. Addirittura, l’Università di Cambridge, seguendo le indicazioni del Foreign & Commonwealth Office, considera ancora oggi il Cairo un posto sicuro per fare ricerca: sul sito, l’Egitto è colorato di verde in una scala di pericolosità verde-giallo-rosso.

Nel 2003, in un classico esempio di extraordinary renditions (“consegne straordinarie” di presunti terroristi a Paesi alleati del governo statunitense), gli agenti dei servizi segreti italiani collaborarono con i colleghi statunitensi per estradare in Egitto un sospetto terrorista, Abu Omar, consapevoli del fatto che sarebbe stato torturato: fatto al quale è seguita una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. L’episodio permette di cogliere la complessità del contesto: da un lato, sembra che i Paesi “occidentali” abbiano inevitabilmente bisogno di partner “non-occidentali” per la loro auto-proclamata guerra al terrorismo; dall’altro, è proprio la diffusione di regimi autoritari e non democratici (amici dei Paesi “occidentali”) che permette a Daesh di prosperare. In altre parole, non è più possibile difendere la violenza del regime di al-Sisi nemmeno su una base cinicamente funzionale che giustificherebbe le misure repressive dei regimi non-democratici con la lotta alla minaccia terroristica. Infatti, la morte di Regeni è solo uno degli episodi più evidenti che mostrano la totale falsità di questa narrazione: Regeni chiaramente non rappresentava una minaccia diretta al governo egiziano, né ne era un avversario aperto, ma è stato comunque eliminato.

Certo, si potrebbe argomentare che la decisione di rapire e torturare Regeni non fosse nell’interesse delle autorità egiziane. In effetti, comportava il rischio di mettere il Paese in una posizione scomoda a livello diplomatico e attirare l’attenzione sulla brutalità delle autorità locali. Come sostiene in modo convincente Declich (2016: 73-79; e anche: Beccaria e Marcucci 2016: 99-106), Regeni è “vittima di una crescente paranoia delle forze di sicurezza egiziane, ormai pronte a vedere ovunque minacce all’attuale regime”, con i Servizi civili e quelli militari in competizione per il posto più vicino al cuore del potere. Il ricorso crescente a mezzi illeciti e violenti – di per sé un sintomo della scarsa legittimazione politica di chi è al comando – genera però un circolo vizioso: il malcontento popolare aumenta a causa della progressiva cancellazione dello stato di diritto e gli apparati statali rispondono con crudeltà ancora maggiore. Come riassume Hamilton, «le cose vanno male. E, dato che le persone sono sempre più povere e affamate, andranno sempre peggio. Quindi bisogna costruire nuove prigioni.» (Dieci nuove carceri sono state effettivamente costruite in Egitto dal 2013; cfr. Kandil 2016: 16.). Una situazione di questo tipo mette fortemente in dubbio la coerenza e l’efficacia della strategia geopolitica perseguita in quella regione da paesi come l’Italia.

Spesso, si ha l’impressione che la politica in Medioriente sia irrimediabilmente una questione di stabilire il valore delle vite in gioco, per poi investirle nella manovra politica o economica del momento e che nessuna misura sia inaccettabile in sé. A questo proposito, siamo convinti che ragionare sulle specificità del caso di Regeni può mettere alla prova la retorica dell’inevitabilità della violenza e delle morti che caratterizza le prospettive occidentali sulla regione.

Giulio Regeni era uno studente di dottorato a Cambridge, parlava correntemente varie lingue e aveva vissuto a lungo in vari Paesi – da settembre 2015 risiedeva al Cairo. Regeni, uomo bianco ed europeo, con una promettente carriera di studioso davanti a sé, possedeva tutti i prerequisiti per essere validato all’interno della nostra cornice culturale: come hanno scritto Beccaria e Marcucci, era «il figlio che tutti vorrebbero» (2016: 16). E, a guardare la sua ricerca, era anche profondamente solidale con la causa dei lavoratori egiziani, lontanissimo dai rischi di un atteggiamento paternalistico e umanitaristico. Regeni era allo stesso tempo un ricercatore scrupoloso e un alleato degli Egiziani, contro ogni forma di oppressione. Questo lo rendeva, con ogni probabilità, troppo politicamente radicale per le narrazioni mainstream, ma queste non a caso ne hanno impunemente diluito la radicalità. In altre parole, l’identità di Regeni aveva in sé tutte le premesse per attendersi che la sua morte sarebbe stata pianta e ricordata.

Infatti, come ci mette in luce Judith Butler, ragionando sui necrologi, anche il lutto ha delle gerarchie. Butler, in un testo uscito sulla scia dell’11 settembre, sottolineava come siamo in grado di pensare solo alcune morti, e che lo facciamo in base a quegli stessi criteri culturali che ci permettono di stabilire ciò che è o meno umano.

Raramente, o mai, notava Butler riflettendo sul necrologio come genere letterario, leggiamo di esistenze individuali poste al di là dei margini della nostra cornice culturale: come quelle dei palestinesi vittime delle forze armate israeliane, o della popolazione afghana (Butler 2004: 32). Al più, di queste persone sentiamo parlare in modo indistinto, in quanto categoria, senza ulteriori dettagli biografici. Uno dei problemi di una simile analisi è che corre il rischio di formulare una critica da una posizione privilegiata. Nell’affermare che noi non piangiamo le morti dei palestinesi o degli afgani, Butler implicitamente guarda ad esse dall’interno della sfera pubblica cosiddetta occidentale, poiché è evidente che tanto gli afgani quanto i palestinesi sono commemorati dal proprio popolo (Zehfuss 2009: 422-423).

Al più, di queste vite sentiamo parlare in modo indistinto, in quanto categoria o collettività. Secondo lo schema di Butler, Regeni sarebbe un perfetto martire per i media occidentali, mentre le vittime egiziane dello stesso regime occupano innegabilmente una posizione più bassa nella gerarchia del lutto e della memoria di questa parte del mondo. Questo modello, tuttavia, non appare chiaramente confermato in questo caso. Cerchiamo di capire perché.

Già dal giorno della scomparsa di Giulio Regeni, l’accademia internazionale si era mobilitata, con una campagna twitter (#whereisGiulio) lanciata dai suoi colleghi e supportata dall’Università di Cambridge e, dopo il 3 febbraio, quasi 5000 accademici hanno firmato l’appello #justiceforGiulio. Successivamente, tuttavia, il mondo accademico si è ritirato nel silenzio, rinnegando la causa di Regeni, a livello sia istituzionale sia informale: quel che è certo è che l’esperienza altamente individualizzata di studenti e ricercatori nel contesto neoliberista degli atenei contemporanei complica l’appropriazione collettiva di una storia personale. In ogni caso, rifiutata dall’accademia, la memoria di Regeni era pronta ad andare al miglior offerente. A fine febbraio, la sezione italiana di Amnesty e Repubblica hanno lanciato la campagna #veritàperGiulioRegeni: un tentativo di riappropriazione nazionale della storia di Regeni, supportato dall’instancabile coinvolgimento dei genitori. Ma, se l’esercizio locale della memoria ha funzionato (l’iniziativa ha registrato un grande successo in Friuli, in una logica da «un figlio della nostra terra»), non si può però dire altrettanto di quello nazionale: l’attenzione mediatica è andata rapidamente scemando, mentre gli striscioni della campagna venivano rimossi senza troppo clamore da vari municipi per decisione di giunte di centro-destra.

In breve, nessun attore politico o sociale ha reclamato la memoria di Regeni: né la comunità nazionale, né il mondo accademico internazionale, né la sinistra italiana, né i movimenti – la sua memoria è stata lasciata alla famiglia e a una comunità locale dalla quale Regeni si era, di fatto, allontanato undici anni prima. Questa opacità di fondo ha autorizzato giornali, esponenti politici e commentatori a idealizzarne la figura, astraendola dal metodo e dal contenuto della sua ricerca, e dalla crudeltà del regime che Regeni aveva studiato e cui si era, anche se non direttamente, opposto. La stessa opacità ha permesso alla narrativa egiziana di Regeni come spia di attecchire su parte del pubblico italiano, poco familiare con il ruolo di ricercatore.

In quest’ottica, il ritratto delineato dagli attivisti egiziani è paradossalmente più fedele alla persona di Regeni di quello proposto dai media italiani. Ed è qui che il caso Regeni inizia a rivelare il suo potenziale critico. Il ricercatore Amro Ali ha sottolineato come: «Regeni potrebbe essere il primo non-egiziano a essere inserito tra i martiri della rivoluzione. È stato il primo a sfidare l’equazione tra cittadinanza e patriottismo» e il writer Naguib, che ha partecipato a un’opera collettiva su di lui, ha detto di aver raffigurato Giulio «con la stessa tecnica e lo stesso stile che uso nei ritratti dei giovani rivoluzionari egiziani, morti a partire dal 2011, e h[a] aggiunto la scritta “il nostro fratello italiano Giulio, ha vissuto in mezzo a noi e morì come noi, come egiziano”». È morto come uno di noi implica che, anche se non ce ne siamo accorti proprio per le ragioni che ha evidenziato Butler, moltissimi egiziani negli ultimi anni sono scomparsi o hanno subito tortura (cfr. rapporto 2016 di Amnesty International). A detta dello stesso governo del Cairo, le forze di sicurezza locali hanno arrestato quasi 34000 sospettati nel biennio 2013-2015 (la cifra sale sino a 60000 per alcune ONG egiziane), in maggioranza Fratelli Musulmani e seguaci di Morsi, mentre centinaia di persone rischiano la pena di morte. Di queste storie ne abbiamo sentito parlare per la prima volta quando la morte di Regeni le ha fatte balzare all’attenzione delle cronache, per poi riprecipitarle nell’oblio nel giro di pochi giorni.

 È chiaro quindi che Regeni si colloca all’incrocio di gerarchie e comunità del lutto che sono solitamente estranee le une alle altre, proprio come, in vita, era stato capace di abitare il confine tra contesti che generalmente si ignorano. Michael Rothberg (2009) ha sostenuto che le memorie di aventi storici apparentemente separati intrattengono relazioni profonde e talora intricate – come ha dimostrato rispetto alle interconnessioni tra le narrazioni dell’Olocausto e quelle della decolonizzazione, che possono veicolare il ricordo le une delle altre. In Francia, ad esempio, la lotta per l’ingresso nella memoria nazionale del massacro di manifestanti algerini avvenuto il 17 Ottobre 1961 si è legata a doppio filo con la richiesta di una presa di coscienza definitiva dell’eredità di Vichy dopo la scoperta che Maurice Papon, che aveva ordinato la strage, era stato un collaboratore dei nazisti durante gli anni del secondo conflitto mondiale.

Quando parliamo di Regeni e delle altre vittime del regime egiziano, non abbiamo a che fare con diversi fenomeni storici, ma con la presenza (o assenza) di memorie differenti provenienti dallo stesso contesto. Ora, per quanto abbiamo sottolineato come la memoria di Regeni non abbia davvero goduto di quel privilegio e di quella appropriazione che la sua identità sembrava prevedere, è pur vero che nel contesto occidentale ha avuto più spazio delle sue controparti egiziane. E se qui ribadiamo la necessità di riappropriarci della sua memoria, dobbiamo tener conto che, nel contesto della rappresentazione cui siamo abituati, dar voce a una singola tragedia può implicare il silenziarne molte altre, in una sorta di modello a somma zero della memoria nel quale le varie storie competono fra loro per emergere dal buio.

La domanda che si pone è: come si può mobilitare una memoria comunque privilegiata – come quella di Giulio Regeni – per comunicare le storie di coloro che sono meno avvantaggiati? Un concetto chiave potrebbe essere qui quello di esemplarità. Nelle parole di Giorgio Agamben (1995: 26-27), l’esempio funziona come una “inclusione esclusiva”. E cioè: l’esempio mostra sì la propria appartenenza a una classe, ma proprio nel momento in cui esibisce e delimita la sua classe, si protende al di fuori dei suoi confini. L’esempio è strettamente connesso alla nozione opposta, quella dell’eccezione, dell’esclusione inclusiva.

Regeni è, da un lato, un perfetto esempio della violenza securitaria egiziana: il modo in cui è stato torturato è tipico del modus operandi della polizia locale, così come lo sono le false piste fabbricate dopo la sua morte. Dall’altro lato, il suo essere un ricercatore occidentale bianco formatosi a Cambridge lo colloca al di fuori della stessa classe che dovrebbe esemplificare, quella delle vittime del regime di al-Sisi. Quanto più Regeni costituisce un’eccezione, dunque, tanto più è esemplare. E l’eccezione si intende qui in due sensi: dal punto di vista egiziano, poiché Regeni è stato trattato come una persona del luogo pur non essendolo, e da quello italiano, perché la sua nazionalità non è riuscita a proteggerlo – a tal proposito, il suo omicidio ha rivelato la natura parzialmente illusoria di ogni privilegio del genere in alcuni scenari geopolitici.

Il corpo sfigurato di Regeni è un promemoria della crudeltà di regimi cui solitamente preferiamo non pensare, una prova dolorosamente fisica delle conseguenze quotidiane di una foreign-policy-as-usual – detto altrimenti, uno degli innumerevoli simboli del «male del mondo». Se gli attivisti egiziani ci hanno fatto vedere, da parte loro, come rielaborare il suo ricordo, la domanda è ora come attivare tale dinamica da parte nostra.

In primo luogo, per far sì che la memoria di Regeni si sviluppi secondo la logica dell’esemplarità, è necessario creare nel nostro contesto le condizioni per ottenere verità e giustizia. Ad oggi, la legge italiana non contempla il reato di tortura, nonostante decenni di attivismo e una recente condanna da parte della CEDU. Paradossalmente, se i colpevoli fossero condotti davanti a un tribunale italiano, non potrebbero essere condannati per tortura. Come attivisti italiani, abbiamo perciò il dovere di promuovere l’approvazione della proposta di legge attualmente ferma in Parlamento: altrimenti, le nostre richieste sul caso Regeni potrebbero a ragione venir sospettate di doppiopesismo.

In secondo luogo, se la memoria di Regeni deve essere concepita anche come un’occasione di denuncia delle violazioni dei diritti umani in Egitto, non possiamo continuare a ignorare le conseguenze della politica estera del nostro Paese. La possibilità per le aziende italiane di vendere armi e apparecchiature d’intelligence all’Egitto andrebbe seriamente riconsiderata, mentre gli investimenti nell’area dovrebbero diventare una risorsa per influenzare le politiche di al-Sisi, piuttosto che un pretesto per ignorare la sua condotta. In caso contrario, l’eventualità di un graduale ritiro dal Paese sarebbe probabilmente da prendere in esame. Considerato che l’attuale governo italiano non pare intenzionato a prendere misure simili, l’opinione pubblica ha il compito di criticare fortemente il suo approccio in merito.

La vicenda di Giulio Regeni resterebbe incomprensibile se fosse tenuta separata da quelle di tante e tanti dissidenti locali, e allo stesso tempo le storie egiziane, come abbiamo visto, possono essere significativamente esemplificate dalla prima, acquistando risonanza al di fuori del Medio Oriente. L’indissolubile rete di connessioni tra memorie diverse trova il proprio corrispettivo nell’inestricabilità delle lotte politiche che tentano di dischiuderne il potenziale: mentre gli italiani non possono davvero chiedere giustizia per Regeni senza mettere in discussione la violenza del regime di al-Sisi e riconoscere l’azione di coloro che vi si oppongono, gli egiziani potrebbero invocare il caso di Regeni – un occidentale ucciso come un egiziano – per contrastare la narrazione xenofoba montata dal dittatore.

Come studiose e studiosi, dobbiamo far sì che questo caso non sia passato invano, richiedendo protezione internazionale per chi fa ricerca (dentro e fuori dall’accademia) e compensi adeguati per i ricercatori più giovani, in modo che stiano al riparo da situazioni potenzialmente rischiose in contesti già insicuri (ad esempio, prendendo un taxi invece che la metropolitana nel giorno più pericoloso dell’anno in Egitto). Questo senza dimenticare il privilegio intrinseco della posizione dello studioso, per quanto – come la storia di Regeni dimostra drammaticamente – il privilegio sia a volte insufficiente a proteggersi. Un altro modo per rivitalizzare il ricordo di Giulio Regeni sta nel non perdere di vista la situazione politica egiziana, per come viene ricostruita da attivisti, reporter, studiosi locali e internazionali. Sarebbe, a un tempo, un tributo post mortem a Regeni e un esercizio autenticamente attivo di memoria.

In quanto attivisti italiani, dobbiamo, infine, fare quanto in nostro potere per scongiurare l’eventualità che i familiari e gli amici di Regeni – e le loro controparti egiziane – sperimentino quella condizione che Jill Stauffer (2015: 1) ha chiamato solitudine etica, «l’isolamento che una persona avverte quando, come vittima di una violenza o membro di un gruppo perseguitato, è stata abbandonata dall’umanità, o da coloro che hanno potere sulle sue possibilità di vita». Prestare attenzione alla loro memoria e agire da cassa di risonanza diventano così dei compiti intrinsecamente politici.

In questa ottica, proponiamo la creazione di una sorta di “rete della memoria radicale” (radical memory network) che metta in contatto attivisti provenienti da contesti politici e mnemonici diversi. Lo scopo è costruire un’infrastruttura del ricordo da attivare come strumento per l’articolazione del dissenso politico: una rete in grado di rivitalizzare storie provenienti dai più vari contesti locali, ponendo l’accento sui loro legami all’interno di una narrazione di resistenza a ogni forma illegittima di potere, attraverso la riproduzione artistica e la trasmissione di storie, e altre forme di narrazione e di lotta. Pensiamo che una riappropriazione inter-locale possa produrre nuove catene di solidarietà e alleanza, aprendo spazi fertili per l’attivazione della logica dell’esemplarità dentro e fuori dalla sfera pubblica occidentale. Nel primo anniversario del rapimento di Giulio Regeni, vorremmo che questo articolo rappresentasse un piccolissimo pezzo di questa infrastruttura mnemonica e politica.