Seveso, 40 anni fa il disastro Icmesa

seveso 1 Seveso, 40 anni fa il disastro Icmesa: “La pelle bruciava, la diossina ci ha stravolto la vita”

La notte del 10 luglio 1976 tutto cambiò: i ricordi di un ragazzo di allora. “C’è stato un aumento di tumori e lo shock dell’evacuazione. Ma abbiamo imparato qualcosa: da lì è arrivata anche la direttiva europea sui rischi industriali”

di FABRIZIO RAVELLI da Repubblica .it del 10 luglio 2016

Oggi saranno quarant’anni dal disastro dell’Icmesa di Seveso. “E io ricordo molto bene quell’estate. Avevo 17 anni, studente del liceo scientifico, ma in vacanza lavoravo: magazziniere. Sono nato qui, a poca distanza dall’Icmesa. Mio nonno, falegname, era emigrato qui dal vercellese. Alla sera noi ragazzi prendevamo la bici e andavamo in giro con gli amici. Un gelato, una fetta d’anguria. E quella sera del 10 luglio, un sabato caldissimo e stranamente ventoso, in giro dicevano che era successo qualcosa. Lo dicevano tutti, in paese e nei bar. Dei bambini che giocavano per strada avevano eruzioni sulla pelle. E io, Marzio Marzorati, 57 anni, vicepresidente lombardo di Legambiente, posso dire che lì è cominciata la mia vita con la diossina. Una lunga storia, nel male e anche nel bene”.

Per anni la cosiddetta Zona A fu presidiata da militari con il divieto assoluto di ingresso

Per anni la cosiddetta Zona A fu presidiata da militari con il divieto assoluto di ingresso

“L’Icmesa era impiantata in mezzo a piccole imprese che accanto avevano le abitazioni. Con la crisi, molti avevano lasciato campagne e attività per entrare in fabbrica. E l’Icmesa aveva già causato danni”. Fanghi maleodoranti sversati nel Certesa, un affluente del Lambro, puzze e nuvole sospette. C’erano state proteste e allarmi dalla popolazione. E quel sabato la fuga di triclorofenolo, un componente dei diserbanti, bruciò la pelle dei bambini, uccise gli animali, cancellò il verde dei prati. Ma per molti giorni non si seppe che cosa era successo, noi ragazzi in bici attraversavamo l’area inquinata, quella che sarebbe stata chiamata Zona A”.

“L’incertezza, la mancanza di informazioni, generavano paura. Della diossina non si conoscevano gli effetti. C’era paura di quel che sarebbe successo, paura dell’irreparabile. I telegiornali parlavano di casa tua, ma tu non ti riconoscevi in quel che ascoltavi. Molti dicevano: sarà come le altre volte, passerà. Però i danni sulla pelle dei bambini si vedevano, e nei mesi successivi sarebbe arrivata la cloracne, come reazione all’intossicazione da diossina. Il nome di Seveso, il nostro paese, faceva il giro del mondo. Quell’anno l’albergo di Igea Marina, dove andavamo sempre in vacanza coi nonni, ci fece sapere che non ci volevano. Perché eravamo di Seveso”.

“Seveso è diventato un marchio. E pensare che l’Icmesa è in territorio di Meda, e che la diossina ha coinvolto anche Cesano Maderno e Desio. Quelli di Meda sono stati bravi a smarcarsi, e hanno continuato a vendere i loro mobili. E di allora mi ricordo che la gente era divisa. C’era chi minimizzava: non è successo niente, sono i politici che fanno casino per farsi dare dei soldi. E chi non credeva più a niente, delle poche informazioni che arrivavano. Anche in Regione, salvo l’opposizione fatta da Laura Conti, c’era calma piatta”.

“Il danno più grosso era l’incertezza del mondo scientifico e della politica. La scienza, ma l’abbiamo saputo dopo, si aspettava 3mila morti in più della norma. Questo non è avvenuto, anche se una mortalità per patologie legate alla diossina c’è stata, un incremento di certi tipi di tumore. E poi venne lo shock dell’evacuazione della Zona A. Circa 700 persone dovettero lasciare tutto: le case, i mobili, gli oggetti personali, tutto. E vennero trasferiti in albergo ad Assago. Le case abbattute, la terra e tutto quanto portato in due grandi discariche. E con l’evacuazione la paura aumenta: tolsero i figli alle famiglie evacuate, dal resto d’Italia telefonavano per sapere se eravamo ancora vivi. Però le Case Fanfani, queste case popolari a due passi dall’Icmesa, non vennero evacuate: ci abitavano migliaia di persone, forse hanno avuto paura della rivolta”.

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La gente di Seveso ottenne che quel luogo di dolore diventasse un parco: nel 1983 iniziò la realizzazione del Bosco delle querce, che oggi ha 45mila alberi

“La Zona A diventò un deserto: tutto spianato, senza un filo d’erba, con le discariche. Lasciarono un solo albero, quel grande pioppo che è ancora lì e ha visto tutto. Alzarono una palizzata tutt’intorno, con cartelli che invitavano gli automobilisti di passaggio a chiudere i finestrini. L’area venne militarizzata, per anni ci furono i soldati a controllare. Alla sera c’era una specie di coprifuoco, e i militari ti fermavano. La paura generò disgregazione, ma anche solidarietà. Nacquero comitati. Partì un movimento di boicottaggio, in tutta Europa, dei prodotti Roche, che alla fine si assunse la responsabilità del disastro e trattò per 250 miliardi di indennizzo”.

“Ecco, questa è via Icmesa e questo muro di mattoni rossi è quel che resta della fabbrica: sopra c’era l’insegna a grandi lettere. Noi avevamo questo enorme deserto, che dovevamo aggirare per andare da una parte all’altra del paese. E mentre interravano tutto, la scienza non sapeva bene cosa fare. Non c’erano strumenti per rilevare la diossina nel sangue. Così congelarono il sangue di migliaia di persone, in attesa che qualcuno inventasse gli strumenti. Il governo Andreotti fece una legge per autorizzare gli aborti terapeutici. Poi arrivò la proposta di costruire un grande inceneritore, ma la gente disse no: vogliamo la bonifica. E, a dispetto delle teorie Nimby, non nel mio cortile, dissero tutti che le vasche delle discariche dovevano restare qui, che i rifiuti dovevano essere seppelliti qui. E si decise di farci sopra un bosco. E questo che vedi, dopo quarant’anni, è il Bosco delle querce, un parco dei più belli d’Italia. Sono 40 ettari, con 45mila alberi. E cartelli che raccontano la storia, come un museo all’aperto. Il disastro ha generato anche la Direttiva Seveso, norma europea sul rischio industriale. Quindi posso dire che la diossina ha segnato la mia vita, la mia politica, e ha insegnato anche qualcosa di buono “.