Articolo di Elisa Ferrero, da Terrasanta.net
La violenza della polizia e delle varie forze di sicurezza, in Egitto, non colpisce solo oppositori, attivisti e critici del regime. Colpisce quotidianamente anche comunissimi cittadini e professionisti che cercano di svolgere il proprio lavoro con un briciolo di coscienza. Un episodio del genere è accaduto poco più di una settimana fa a Matariyya, distretto a nord est del Cairo.
Il 28 febbraio, un microbus carico di poliziotti, otto in tutto, armati di tutto punto, fa irruzione nel pronto soccorso dell’ospedale universitario di Matariyya. Alcuni di loro scendono e si addentrano nel reparto alla ricerca dei medici. Ne trovano due, li prelevano e, quando questi fanno resistenza, li malmenano e li umiliano. I due dottori racconteranno che i poliziotti volevano che firmassero dei falsi referti a loro favore. I sanitari, poi, tentano di sporgere denuncia contro i poliziotti, ma ricevono minacce e intimidazioni: se non rinunceranno alla denuncia saranno accusati di appartenere a un’organizzazione terroristica, con tutte le conseguenze del caso. I due medici non se la sentono di insistere, quindi fanno marcia indietro.
A questo punto, però, il sindacato dei medici decide di intervenire, perché l’episodio è troppo grave per lasciarlo passare impunito. Fra l’altro, la stazione di polizia di Matariyya era già stata oggetto di forti proteste nel marzo 2015, quando l’avvocato Karim Hamdi era stato torturato a morte dai poliziotti di stanza in quell’ufficio, causando l’ira del sindacato degli avvocati.
Il primo febbraio, l’Unione dei sindacati delle professioni mediche, che include anche dentisti, farmacisti e veterinari, dichiara di essersi riunita in assemblea permanente e sporge denuncia contro i poliziotti di Matariyya, al posto dei due medici vittime dell’aggressione. L’ospedale di Matariyya viene chiuso in ottemperanza a una delibera del sindacato dei medici, secondo la quale un presidio ospedaliero deve restare chiuso, finché non sia garantita la sicurezza dei pazienti e del personale. Ma siccome alla sicurezza dovrebbero provvedere gli stessi poliziotti della stazione di Matariyya, la parte sotto accusa per l’aggressione ai due medici, l’ospedale di Matariyya resta chiuso.
Da questo momento, si scatena una feroce campagna di diffamazione nei confronti dei medici. I megafoni di regime li attaccano con l’accusa di interrompere un servizio pubblico essenziale, o addirittura di essere tutti quanti dei Fratelli Musulmani. La versione ufficiale del ministero dell’Interno sull’accaduto a Matariyya è che si sarebbe trattato di una rissa fra i medici e un poliziotto ferito, stanco di aspettare il suo turno per essere curato. Un video ripreso dalle telecamere dell’ospedale, però, mostra chiaramente quattro poliziotti in borghese accerchiare un medico che camminava tranquillamente per un corridoio e spintonarlo fuori.
Il ministero dell’Interno, attenendosi alla sua versione dei fatti, annuncia comunque di aver sospeso e messo sotto indagine gli otto poliziotti, per i quali saranno presi dei provvedimenti disciplinari. Si organizza anche un incontro fra il Parlamento e i rappresentanti del sindacato dei medici che dura ben sei ore, nella speranza di trovare un accordo. Su quest’incontro, la vicepresidente del sindacato, Mona Mina, commenterà, in un articolo del 3 febbraio per il quotidiano al-Bedaiah: «Cercano soltanto di gratificarci con belle parole su quanto sia nobile e indispensabile la professione medica». E a chi accusa i medici di interrompere un pubblico servizio con la chiusura degli ospedali, ribatte che è colpa della polizia, non dei medici, se non è possibile fornire l’adeguato servizio medico alla popolazione.
Mona Mina! Ecco che ritroviamo un nome noto a questo blog dietro la resistenza dei medici. Copta, soprannominata il «Cristo di Tahrir» per il suo instancabile lavoro negli ospedali da campo durante le rivolte degli anni 2011-2012, era stata eletta nel 2013 alla guida del sindacato dei medici, prima donna e prima persona non appartenente alla Fratellanza Musulmana a rivestire quel ruolo. Portato a termine il suo mandato, è rimasta nel consiglio generale del sindacato e non ha mai smesso di combattere per i diritti di medici e pazienti.
Il sindacato dei medici, rappresentato da Mona Mina e dal suo segretario generale Hussein Khairy, non vuole esser preso in giro. Non vuole che siano presi semplici provvedimenti disciplinari contro gli otto poliziotti che hanno aggredito i medici di Matariyya. Vuole invece che questi siano messi sotto processo e subiscano una condanna penale, in modo che episodi del genere non succedano mai più. Vogliono, sostanzialmente, uno Stato di diritto.
La protesta dei medici monta e raccoglie il sostegno di tredici partiti politici. Venerdì 12 febbraio, il sindacato dei medici si riunirà in assemblea generale per votare la proclamazione di uno sciopero nazionale, a meno che le richieste dei sanitari non siano accolte. L’epilogo di questa vicenda è dunque ancora aperto.
Oggi, in Egitto, la rivoluzione passa per piccoli ma fondamentali atti quotidiani, come rifiutarsi di firmare il falso nell’ambito della propria professione. La rivolta dei medici contro la polizia e il ministero dell’Interno è cresciuta proprio mentre al Cairo si cercava Giulio Regeni, il dottorando italiano scomparso il 25 gennaio, riuscendo alla fine a ritrovarne solo il corpo martoriato. Forse non c’è modo migliore di onorare la sua memoria che quello di dare visibilità ai tanti sconosciuti in Egitto che, da soli o insieme ad altri, lottano ancora, tutti i giorni, per far valere la giustizia. Come i sindacati indipendenti dei lavoratori che Giulio studiava, o come il sindacato dei medici di Mona Mina. Una rivoluzione a bassa intensità che però non si è mai spenta.