COP21: cambiare il sistema produttivo per contrastare i cambiamenti climatici

COP21, Parigi 30 novembre – 12 dicembre 2015

I GOVERNI DISCUTONO DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI

I POPOLI LI SUBISCONO. E’ IL SISTEMA PRODUTTIVO DA CAMBIARE?

Dal 30 novembre al 12 dicembre Parigi ospiterà la 21°Conferenza delle Parti, meglio nota come COP21: un summit  internazionale sui cambiamenti climatici che si propone di raggiungere un accordo sul clima per evitare un innalzamento delle temperature globali superiore ai 2 °C rispetto all’era preindustriale, tracciando una road map per  il dopo 2020.

Sappiamo già che gran parte dell’attenzione ricadrà sul tema sicurezza e per via delle leggi speciali antiterrorismo saranno proibite tutte le manifestazioni e gli eventi organizzati dalle associazioni ambientaliste e dalla società civile nella capitale francese. Questo è un motivo in più per mantenere alta l’attenzione sui contenuti e sulle decisioni che verranno assunte durante la COP21.

I cambiamenti climatici sono l’effetto di quanto le popolazioni subiscono nei territori devastati dalle grandi opere inutili, dal modello energetico ancora fondato sulle fonti fossili, dalle cementificazioni, dalla deforestazione, dall’esaurimento dei suoli agricoli, dalle emissioni inquinanti. Ciò si ripercuote sulle nostre vite e sulla nostra salute.

Prima di tutto, perché l’innalzamento della temperatura terrestre porta con sé fenomeni di trasformazione climatica e geografica che toccano tutti gli angoli del globo: desertificazione, innalzamento del livello dei mari, dissesto idrogeologico, siccità, avvelenamento delle acque e delle terre sono fenomeni interconnessi, che:

  1. 1. generano (e genereranno maggiormente in avvenire) guerre per l’accaparramento delle risorse (petrolio ed acqua in primis);
  2. 2. sottraggono alle comunità beni comuni essenziali alla vita;
  3. 3. porteranno alla scomparsa di milioni di km quadrati di terre emerse per via dell’innalzamento delle acque (persino città come Venezia, seppure affacciata su un mare chiuso, sono a rischio);
  4. 4. costringono milioni di persone a emigrare nella totale assenza di meccanismi di tutela giuridica (per la giurisprudenza internazionale non esiste la categoria di “rifugiato ambientale”, ma nel solo 2008, secondo le Nazioni Unite, 20 milioni di persone sono state costrette a migrare per regioni climatiche);
  5. 5. aumentano i decessi e le malattie per inquinamento (in Europa, secondo uno studio dell’Oms muoiono ogni anno 600.000 persone a causa dell’inquinamento; l’impatto sanitario si traduce in un costo economico che nel 2010 ha raggiunto la cifra di 1.600 miliardi di dollari, equivalente al 10% del Pil dell’Unione)

Il clima cambia perché si continua ad insistere sulla strada di un sistema produttivo in cui l’ambiente è considerato semplice fattore di produzione e per questo sfruttato senza regole, così come sempre più sfruttato è il lavoro.

Deregolamentazione ambientale e deregolamentazione economica costituiscono l’unica regola ben accetta al capitalismo predatorio. Nessuna conferenza dei grandi della terra sul clima ha preso né prenderà decisioni che tutelino l’interesse generale se rimane preponderante il legame tra scelte politiche e interessi economici. Dietro la COP 21 c’è il finanziamento di sponsor come Engie (ex GDF Suez), EDF, Renault-Nissan, Suez Environment, Air France, FESR, Axa, BNP Paribas, LVMH, Ikea. Compagnie simbolo dell’inquinamento e della violazione dei diritti a cui la COP 21 dovrebbe cercare soluzioni.

Quello che occorrerebbe uscisse dalla COP21 non è una semplice dichiarazione di intenti, ma l’individuazione di obiettivi chiari, vincolanti e con tempi definiti per uscire definitivamente dalla pratica distorta che finora ha permesso ai governi la compravendita delle quote di emissione di anidride carbonica:

  1. eliminare completamente i sussidi alle fonti fossili (dal 2013 al 2015, secondo uno studio del FMI, le sovvenzioni a favore delle fonti fossili sono passate da 4,9 a 5,3 trilioni di dollari, il 6,5 per cento del PIL mondiale, più della spesa sanitaria totale di tutti i governi del mondo);

investire per il passaggio alle fonti rinnovabili;

destinare ingenti finanziamenti comuni ai paesi più poveri per aiutarli nell’operazione di disinvestimento dalle fonti fossili e di riconversione energetica in parte già avvenuta nei paesi ricchi;

riconversione ecologica delle industrie più inquinanti, per porre fine al ricatto salute-lavoro;

un impegno di governi ed enti locali verso un’organizzazione del territorio che consenta ai cittadini di muoversi con i mezzi pubblici, con la bicicletta, con il car sharing, abbandonando la vecchia idea dell’auto privata;

la pianificazione di una transizione dei sistemi agro-alimentari (produzione agricola, allevamenti intensivi, trasformazione, trasporto e gestione dei rifiuti) verso modelli più sostenibili, salubri, non più basati su chimica e petrolio, che incrementano il riscaldamento del pianeta, riducono la fertilità dei suoli danneggiando irrimediabilmente le proprietà rigenerative della terra;

il disinvestimento dalle grandi opere inutili a favore della bonifica dei territori, del risanamento idrogeologico, della riduzione alla fonte dei rifiuti, dell’efficientamento energetico degli edifici;

l’introduzione di forme di contabilità che mirino alla piena inclusione dei costi ambientali e sanitari nei costi di produzione di merci e servizi;

vincolare gli Stati a politiche volte ad arrestare la cementificazione e il consumo di suolo;

dotare le comunità locali di potere decisionale in materia di tutela dell’ecosistema e del territorio.

Si tratta di misure concrete che aprono la strada ad un profondo ripensamento del modello economico e sociale in senso redistributivo, sostenibile ed equo.

Per troppo tempo la ricchezza prodotta in una parte del mondo ha significato depauperamento e ipersfruttamento dei Sud e ha generato gran parte dei disastri e delle guerre attuali: lavorare per realizzare una giustizia ambientale significa porre al primo posto la solidarietà tra i popoli, la gestione e la salvaguardia del pianeta come bene comune. Significa non scaricare sulle future generazioni e sui più svantaggiati il costo ambientale di un modello di sviluppo che ha arricchito solo una parte dell’umanità. Significa porre le basi per costruire un futuro di pace.

Lì, 26 novembre 2015