Intervallo mensa: discriminazione indiretta verso le donne, le mamme

Imporre una pausa pranzo uguale per tutti, respingendo le richieste di adeguamento orario
motivato dal carico del lavoro di cura, rappresenta una “discriminazione indiretta”.
Lo ha stabilito la
Sezione lavoro della Corte di Appello di Firenze dopo il ricorso presentato in Tribunale dalla
Consigliera di Parità della Regione Toscana a difesa di tre lavoratrici che, per assistere i figli minori
e/o i genitori anziani, chiedevano al datore di lavoro di ridurre la durata della pausa pranzo da 90 a
30 minuti, così da anticipare di un’ora l’orario d’uscita pur conservando invariato il numero di ore
lavorate.

Facciamo chiarezza: l’orario di lavoro e la sua distribuzione nell’arco della giornata, e quindi anche
la durata della pausa pranzo, non sono dati neutri di trattamento tra lavoratrici e lavoratori,
tantomeno fra chi ha carichi di cura e chi non. La discriminatorietà della rigidità oraria deriva,
oggettivamente, dallo svantaggio per le lavoratrici che devono ritardare il rientro in famiglia. 

Ogni 6 ore di lavoro la legge impone una pausa retribuita della prestazione di almeno 10 minuti.
Nel caso portato all’attenzione dalla Consigliera di Parità per l’orario di 8 ore dal lunedì al giovedì
non è stata provata la necessità di una pausa non retribuita di 90 minuti, peraltro priva di ragioni
tecniche organizzative connesse all’attività d’impresa. La fascia d’orario e la durata della pausa
pranzo erano state omologate, non senza criticità, nel 2018. Secondo quanto ricostruito, la società
aveva rigettato le richieste delle lavoratrici, etichettate come “mere e personali comodità”. Forse i
vertici non sapevano che per le donne, finito il turno in ufficio, inizia quello non retribuito tra le mura
domestiche. 

La sentenza, pronunciata il 7 gennaio, è a favore delle dipendenti: dal 2025 possono interrompere
la propria attività tra le 13 e le 13.30 (e non più dalle 13 alle 14.30) e terminare la giornata
lavorativa alle 17.30 invece delle 18.30. Il tutto senza alcuna ripercussione sulla produttività. 

“E’ evidente – sottolinea la Corte d’appello nel dispositivo – come una lunga pausa pranzo
rappresentasse momento di svago e riposo solo per chi aveva la fortuna di non doversi occupare
delle esigenze familiari
, e/o nel contempo abitasse nelle strette vicinanze del luogo di lavoro o del
luogo di residenza del genitori. Altrimenti, la stessa lunga pausa pranzo non avrebbe svolto la
funzione tipica di recupero delle energie psicofisiche in vista della prosecuzione della giornata
lavorativa, mentre avrebbe finito per prolungare in modo forzato il tempo complessivamente
impegnato lontano dalla famiglia, riducendo inevitabilmente il tempo destinato alle esigenze di
quest’ultima”.

La Sezione lavoro, presieduta da Maria Lorena Papait, ha stabilito che “se non vi sono prove a
sostegno dell’organizzazione d’impresa dell’orario uniforme, la rimozione degli effetti discriminatori
va perseguita consentendo alle interessate la limitazione della pausa con conseguente uscita
anticipata”. 

Partiamo da questa vicenda, con esito positivo, per aprire una riflessione. Solidarietà, lotta, azione
legale, Consigliera di Parità: come è meglio difendersi contro le discriminazioni di genere sul posto
di lavoro, anche – e soprattutto – in ottica comune?

Due esperienze, da noi seguite direttamente, possono essere da esempio e, si spera, da
incoraggiamento per tutte quelle lavoratrici che oggi si chiedono quale strada intraprendere a
difesa dei propri diritti. 

Nel 2001 il caso di Mara, operaia dell’allora Siemens: madre di un bambino in età scolare, non
poteva accettare di fare i turni in quanto il marito, padre del figlio, lavorava come trasfertista nella
stessa azienda. Scioperi, presidi, causa legale: in sei mesi, grazie a uno sforzo collettivo, ha
ottenuto il risultato di evitare i turni e però una ricollocazione in una sede diversa della stessa
multinazionale. Un ruolo fondamentale, per tenere alta l’attenzione, è stato il coinvolgimento di
lavoratrici e lavoratori anche di altre aziende della zona e della stampa.

Nel 2007 la direzione IPC Faip, davanti al giudice di Crema, annullava il licenziamento di Raffaella.
La sua colpa? Andare a prendere la figlia a scuola e riaccompagnarla a casa durante la pausa
pranzo che, ad anno scolastico in corso, direzione e sindacati avevano ridotto da un’ora e mezza a
un’ora. La Consigliera di Parità intervenne dopo una pioggia di lettere di richiamo e la cacciata
dall’azienda, permettendo, tramite un avvocato pagato dallo Stato, il reintegro e il pagamento dei
mesi arretrati. Cliccando QUI trovi un video girato in quei giorni.

Il regime orario, e quindi anche quello relativo alle pause intermedie, non è un dato neutro rispetto
alla parità di trattamento fra le lavoratrici onerate della cura famigliare e colleghi privi di tale fattore.
Ridurre il tempo complessivamente impegnato dal lavoro (orario di servizio + pausa pranzo) in
favore del tempo residuo da dedicare alle necessità familiari è l’obiettivo di conciliazione vita /
lavoro protetto dalla disciplina antidiscriminatoria, e non una convenienza generica come pensano
ancora troppi datori (e datrici) di lavoro.

La cura, l’accudimento dei figli e la gestione dei genitori anziani pesa soprattutto sulle donne. Per
questi motivi vengono licenziate o spinte con orari impossibili alle dimissioni. E, quando si arriva al
licenziamento, in troppi casi si conclude in modo consensuale.


La conciliazione tempi di vita e di lavoro in troppi casi è ancora tutta da conquistare?!
Reagire e organizzarsi per valere diritti e ragioni è necessario e possibile.

Trovi la sentenza della Corte d’Appello di Firenze A QUESTO LINK.