Di lavoro povero si inizia a parlare, finalmente. Ma cosa significa? Perché dovrebbe interessarmi? Quali sono i settori più colpiti? La parola a Roberto Firenze del Sial Cobas.
A volte si può pensare che il “lavoro povero” sia confinato in alcune categorie o ambiti lavorativi dei servizi, della logistica, del commercio e della ristorazione. Insomma, un fenomeno importante, ma tutto sommato ancora circoscritto, che sarebbe in contraddizione con la tendenza ancora prevalente nella maggioranza dei settori portanti dell’economia e delle nostre società.
Chiariamo: non è così.
Non solo perché quei settori (logistica, commercio, ristorazione, terziario in generale, per non parlare del lavoro agricolo) sono “abitati” da milioni di lavoratori e lavoratrici: soltanto nella logistica, ad esempio, hanno ormai superato il milione di addetti. Badanti e colf, cioè l’universo mondo del lavoro domestico e di cura, sono anch’essi/esse largamente sopra il milione di unità.
Vi sono almeno altre due ragioni che ci portano a considerare quello definito come “lavoro povero” una “macchia d’olio” che si allarga sempre più nel campo del lavoro salariato e dipendente.
Il part-time involontario: decide il padrone
In primo luogo, l’utilizzazione del cosiddetto “part time involontario” in tantissimi ambiti lavorativi. Fino ad arrivare all’industria e al lavoro pubblico. «Si intende per part time involontario non già una scelta in autonomia del lavoratore, più spesso della lavoratrice, ma una imposizione contrattuale voluta dal padrone, dall’azienda, dal datore di lavoro, definitelo come credete, per convenienze fiscali, contributive o di altro genere», spiega Roberto Firenze del Sial Cobas. «Comunque, per scelte aziendali tutte giocate sul risparmio del “costo del lavoro” per aumentare i propri margini di profitto e “stare sul mercato. Combinando magari il part time imposto con la precarietà contrattuale che aumenta la ricattabilità di lavoratrici e lavoratori».
La rincorsa al ribasso: la piaga del settore pulizie, turismo e alberghi
Vi sono categorie, per esempio le imprese di pulizie o le lavoratrici del settore turismo/alberghi che vengono assunte quasi tutte con contratti part time e con il contratto di categoria più favorevole per le aziende, cioè il multiservizi o quelli che vengono definiti come contratti pirata, cioè che abbattono il salario orario anche al di sotto dei cinque euro netti.
«Si tratta in questo modo di generalizzare le politiche di dumping salariale – illustra Firenze -, cioè ingaggiare una rincorsa al ribasso nella paga oraria, che mette in feroce competizione tra loro lavoratori e lavoratrici e permette alle aziende, spesso in outsourcing di quelle specifiche attività messe a bando o esternalizzate, di garantirsi comunque considerevoli margini di profitto in una realtà delle gerarchie di mercato in cui il committente, l’appaltatore tendere ad imporre sempre più gare al ribasso o alzare i livelli di qualità delle prestazioni e dei servizi richiesti comprimendo però la offerta salariale e in generale di condizioni di lavoro».
Quindi arriviamo alla seconda ragione che spiega la diffusione del lavoro povero. Le esternalizzazioni, di attività e di forza lavoro.
Esternalizzare significa spesso avere nella stessa azienda lavoratori/trici che fanno gli stessi lavori ed hanno contratti – e quindi salari – diversi tra loro. Per Firenze «significa la proliferazione di un mondo di aziende fragilissime dal punto di vista dei requisiti fondamentali dell’economia di mercato e che per affermarsi e sopravvivere hanno una sola possibilità: la compressione feroce del salario, dei diritti e il peggioramento costante delle condizioni di lavoro. In una parola – denuncia – il lavoro povero è figlio dell’estensione della legge della giungla in un’economia capitalistica deregolamentata ed in cui le conquiste sociali, normative e contrattuali di generazioni di lavoratori e lavoratrici sono state, con gli anni, abbattute».
Le esternalizzazioni portano il lavoro povero nel cuore del lavoro pubblico, delle amministrazioni pubbliche: anche il mondo dell’educazione ne è colpito.
Ne abbiamo diversi esempi negli Enti locali: le educatrici e gli operatori che lavorano nei micronidi e nei centri di assistenza per i disabili privatizzati non hanno lo stesso inquadramento contrattuale dei lavoratori comunali, provinciali o regionali. Ed hanno spesso paghe orarie al di sotto di quello che viene oggi considerato il minimo contrattuale accettabile per qualificare una giusta retribuzione, cioè i nove euro orari.
Ma vi sono altri esempi: le attività di pulizia degli uffici, ormai esternalizzate da anni, pagate con retribuzioni vergognose (5/6 euro ora), ma anche le attività di supporto nelle biblioteche comunali affidate a tirocinanti, a “volontari” indicati dal Touring Club (sic!) o appaltate a cooperative più o meno fittizie e destinate ad alternarsi in frequenti cambi di appalto che spesso servono soltanto a peggiorare la condizione contrattuale di quei lavoratori.
Più esternalizzazioni, più povertà anche nella pubblica amministrazione: invertiamo la rotta col sindacato.
Nel Comune di Milano, addirittura, le attività di riscossione dei tributi sono state esternalizzate: le attività svolte, precedentemente attribuite a lavoratori/trici comunali di via Larga, uno dei palazzi centrali e di prestigio dell’amministrazione comunale, sono le stesse ma le/i dipendenti della nuova società, molti dei quali assunti con il famoso part time involontario o contratti a tempo determinato, sono pagati meno. Questo per dire che “lavoro povero” non è una categoria marginale del lavoro salariato, anzi. Sarebbe utile, a tal proposito, che la RSU e i sindacati presenti nel Comune (di Milano e non solo) e in altri luoghi di lavoro pubblici intervengano con inchieste per capire quanto gli appalti sono presenti e avviare una battaglia per reinternalizzare e con un ruolo dei lavoratori che scelgono di eleggere delegati sindacali e rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS).
«Se non invertiamo la tendenza con le lotte sociali e la sindacalizzazione, tenderà a crescere e a peggiorare le condizioni di tutte le lavoratrici e i lavoratori – avverte Firenze -. Per questo, al lavoro povero occorre rispondere con la rivendicazione di un salario minimo orario, non inferiore ai nove euro, agganciato ad un meccanismi di indicizzazione ed a politiche contrattuali che portino ad un aumento generalizzato dei salari e ad un miglioramento delle condizioni di lavoro, arrivando quindi a mettere in discussione anche l’estensione e l’abuso del ricorso al part time involontario e superando i contratti tempo determinato, il lavoro interinale, la somministrazione di manodopera, arrivando in prospettiva alla larga prevalenza del contratto stabile a tempo indeterminato».
E per migliorare qualità del lavoro e della vita, ragionare su una massiccia riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Parliamone insieme: il divario retributivo di genere e l’importanza del salario minimo orario per legge saranno al centro del convegno ‘Poverə noi’ che si terrà sabato 9 novembre a Palazzo Moroni di Padova, in via del Municipio 1. La giornata, organizzata da Adl Cobas, Clap, Cobas Lavoro Privato e Sial Cobas, sì svolgerà dalle ore 10 alle 13 e dalle ore 14.30 alle 17.