Che fare di fronte ad un genocidio? Non dobbiamo farci ingannare.
Il governo israeliano,11 mesi dopo il massacro del 7 ottobre, dentro il tunnel di una lunga, sanguinosa vendetta- 41.000 morti, 17.000 scomparsi, 100.000 feriti tra i palestinesi-finalizzata alla cancellazione della questione palestinese dal Medioriente, non vuole alcuna tregua.
Il governo di estrema destra che governa lo Stato di Israele è diviso al suo interno sulle modalità con cui conseguire lo stesso obiettivo: approfittare dello scenario fornito dai crimini commessi il 7 ottobre dai miliziani di Hamas in territorio israeliano per realizzare il proprio progetto di pulizia etnica contro il popolo palestinese. Il metodo utilizzato per realizzare questo obiettivo è quello del “rischio genocidario” come sottolineato dalle risoluzioni sia della Corte di Giustizia dell’Aja che della Corte internazionale delle Nazioni unite.
Un genocidio praticato con i bombardamenti incessanti su una popolazione stremata, insieme alla distruzione di ogni infrastruttura civile.
Quel che Netanyahu vuole è riprendere il controllo di Gaza e intensificare la colonizzazione in Cisgiordania. Per questo obiettivo, “finché c’è guerra c’è speranza” in barba alle dichiarazioni ipocrite degli Stati Uniti, dell’Unione europea, degli stessi governi arabi.
Tutti, a partire dagli Usa, sono complici consapevoli del genocidio in corso del popolo palestinese. Chi fornendo allo stato di Israele armi, chi finanziandolo, chi semplicemente sostenendolo diplomaticamente in tutte le sedi internazionali, impedendo qualunque sanzione e misura efficace di contenimento della barbarie scatenata da Tsahal (cosiddette Forze di difesa Israeliane).
I palestinesi sono soli, dentro un rapporto di forza sul piano internazionale che gli è sfavorevole, nello stesso modo in cui questo rapporto di forza “gioca contro” i diritti dei popoli sul piano globale, nello scontro tra diversi imperialismi, anche in un altro scenario di guerra, quella perpetrata dall’imperialismo russo contro il popolo ucraino ormai da quasi tre anni.
Di fronte alla barbarie di questo genocidio non si può rimanere inerti. Non basta contemplare le contraddizioni della società israeliana, l’opposizione di una parte di essa alle politiche del governo Netanyahu, sperando che da lì parta un movimento sociale capace di fermare la mano del colonialismo sionista genocida.
Non è così perché quella società, il suo movimento dei lavoratori e delle lavoratrici continuano ad essere prigionieri di una “camicia di forza” etno nazionalista che gli impedisce di collegare l’indignazione per la sorte dei propri ostaggi alla consapevolezza del genocidio perpetrato nei territori occupati da Israele. In una parola, è una società che soffre in modo incredibile per l’effetto boomerang del colonialismo di insediamento sionista su di sé, senza però riuscire a porsi seriamente il problema di una soluzione politica di quel conflitto che ne rimuova il carattere coloniale, smantellando il regime di apartheid costruito da Israele al proprio interno e nei territori occupati. Per dirla con il linguaggio della psicoanalisi, è una società così concentrata sul proprio lutto da rimuovere le sofferenze inflitte ad un altro da sé, completamente disumanizzato, i palestinesi appunto.
Per dirla con il linguaggio di una politica di liberazione, soltanto assumendo la battaglia per il riconoscimento dell’autodeterminazione dei palestinesi quella società potrà liberarsi dalla soffocante cappa di oppressione che la destra nazionalista che governa gli ha stretto intorno al collo.
I palestinesi in questo contesto hanno bisogno della costruzione di un grande movimento di solidarietà che sia capace di imporre il cessate il fuoco e la fine del massacro in corso come fatto preliminare a qualunque soluzione politica del conflitto con il colonialismo israeliano.
Una solidarietà che si è vista negli 11 mesi ormai trascorsi da quel terribile 7 ottobre, ma che non è stata sufficiente a raggiungere risultati importanti, anche se ha contribuito a screditare lo stato di Israele e a metterlo in difficoltà nel suo rapporto con la cosiddetta “comunità internazionale”.
Occorre rilanciare quel movimento, concentrandosi in particolare sulla campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e sanzioni contro l’economia israeliana e le sue relazioni con le più forti economie dell’occidente capitalistico.
Nei luoghi di lavoro dobbiamo spiegare che qui in Europa, possiamo fare molto per fermare la mano degli assassini di bambini.
Possiamo costringere le Università a rompere le relazioni con gli atenei israeliani che partecipano allo sforzo bellico di quel paese, possiamo denunciare il ruolo di grandi aziende come Leonardo, Carrefour, McDonalds, Starbucks e tante altre.
Possiamo sostenere progetti di solidarietà finalizzati alla ricostruzione di una assistenza sanitaria degna di questo nome in quel fazzoletto di terra chiamato Gaza. Possiamo sostenere il lavoro volontario di Ong e associazioni che si occupano di progetti educativi, in quel terribile contesto, per i bambini di Gaza, possiamo aiutare le associazioni femministe che sostengono lo straordinario lavoro di cura, riproduzione sociale e resistenza concreta al genocidio portato avanti dalle donne di Gaza.
Tutto questo può essere fatto, insieme alla denuncia della politica ipocrita, codarda e complice, del Governo Meloni, che organizza per i mezzi di comunicazione lo spettacolo dell’”assistenza” fornita ad alcune famiglie palestinesi fuggite da Gaza e contemporaneamente continua a finanziare e riarmare il governo israeliano, bloccando insieme agli Usa e all’Unione europea qualunque risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chieda ed imponga il cessate il fuoco immediato.
Dobbiamo assumerci la nostra parte di responsabilità nel provare a realizzarlo, partendo realisticamente da quel che siamo nel movimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’alternativa è assistere da spettatori passivi ad un genocidio in corso, sotto i nostri occhi.
Difficile pensare che le generazioni future non ce ne chiederebbero conto.