Salari sotto il minimo

Vignetta di Laerte

DI FABRIZIO BURATTINI dal sito www.union-net.it, del 24 gennaio 2021

Oggi ci soffermiamo sugli aspetti salariali che ci sembrano particolarmente importanti di fronte alla crisi sociale inquietante che si prospetta dopo quasi un anno di forte rallentamento dell’economia.

Quando si paventa la crisi sociale, però, anche quelli più attenti alle problematiche popolari, sembrano individuare le potenziali vittime di tale crisi in settori di piccoli imprenditori, primi fra tutti gli albergatori, i ristoratori, i baristi. Al massimo si indica nell’ormai prossima scadenza del blocco dei licenziamenti il momento in cui sarà possibile che tanti lavoratori dipendenti rischieranno di non arrivare alla fine del mese.

La memoria corta dei mass media fa sì che ci si dimentichi, al contrario, che, già prima dell’arrivo del Covid-19, in Italia era già da tempo apparso con forza il fenomeno dei working poor, cioè di lavoratrici e lavoratori che, pur lavorando (il più delle volte persino con un regolare contratto), hanno un reddito tale da non consentirgli di mantenere dignitosamente la famiglia.

Dov’è finita la legge sul salario minimo?

Si tratta di un fenomeno ormai diffuso in tutto il mondo, a causa delle politiche neoliberali adottate da decenni dalle classi dominanti e dell’adozione da parte delle principali sigle sindacali della contrattazione al ribasso, in particolare in tema di tabelle retributive. L’esacerbazione della concorrenza globale e l’implacabile sete di profitto dei padroni hanno fatto sì che la competitività diventasse il mantra non solo delle associazioni dei datori di lavoro ma anche di buona parte dei gruppi dirigenti dei sindacati.

Questo fenomeno che, lo ribadiamo, era emerso già parecchi anni fa aveva aperto nel paese anche un dibattito sull’ipotesi di introdurre anche in Italia una legge sul “salario minimo”. L’obiettivo era stato inserito dal Movimento 5 Stelle nel proprio programma elettorale, anche se poi, come tante altre “buone intenzioni”, al pari di quel che accade abitualmente anche ai partiti tradizionali, è rimasto nei cassetti, complice anche l’opposizione congiunta sia delle associazioni imprenditoriali sia dei sindacati tradizionali, tutti preoccupati, anche se per ragioni diverse, di perdere il controllo su una voce determinante del loro ruolo.
Nel mondo i paesi che hanno leggi che fissano una retribuzione minima sono ormai tantissimi, anche se non sempre questi limiti riescono a non essere aggirati dai datori di lavoro. Le cifre su cui si attestano questi salari minimi nazionali (purtroppo sono costretto a comparare cifre non tutte allineate sul 2020, alcune sono ancora datate 2019) sono le più varie e vanno dai 2.142 € del Lussemburgo ai 250.000 bolivares del Venezuela (che però, al cambio, valgono solo circa un euro). Ma anche limitandoci alla sola Unione europea si va sempre dal Lussemburgo alla Bulgaria con € 312, come si vede in una scala da 7 a 1.

Tra i 27 paesi dell’Unione solo sei non hanno una legge che fissa una retribuzione minima, e precisamente Italia, Austria, Danimarca, Finlandia, Svezia e Cipro. Parecchi di questi paesi, tra i quali appunto il nostro, vantano, perlomeno nelle stime ufficiali, un alto tasso di sindacalizzazione e non hanno (almeno finora) mai preso seriamente in esame le proposte di legge in proposito proprio per rispettare la presenza e il ruolo delle organizzazioni sindacali.

Ma occorre dire che, almeno nel caso italiano, questa forte sindacalizzazione e il forte peso dei sindacati non sono certo serviti per impedire quel fenomeno dei working poor.

La presenza del “lavoro povero”

Qui ci viene in soccorso l’Istituto di statistica nazionale, l’ISTAT, con i suoi studi periodici sulla situazione del mondo del lavoro e l’amplissima messe di dati nazionali e internazionali che mette a disposizione di chi svolge un’attività sindacale e di chi si interessa delle tematiche del lavoro.

L’ISTAT e l’Eurostat ci attestano (cifre del 2019, quindi precedenti alla pandemia) che nella UE il 9,2% degli occupati è working poor. Questa cifra è ovviamente la media dell’Unione che combina i valori di ogni singolo paese che vanno dal 2,8% della Finlandia al 15,7% della Romania. L’Italia, comunque, nonostante la presunta forza dei sindacati, è sopra la media europea, al quarto posto della classifica sulla presenza di questo fenomeno, con l’11,8% di occupati a rischio povertà (corrispondenti circa 1.800.000 lavoratori dipendenti dei 15 milioni abbondanti che nel 2018 hanno lavorato almeno un’ora nel settore privato non agricolo). E il dato è in crescita, visto che nel 2013 era di “solo” dell’11,0%.

L’ISTAT, nel solco delle direttive Eurostat, fa un ulteriore approfondimento su di una fascia di lavoratrici e di lavoratori ancora più penalizzati dal punto di vista salariale, individuati per avere la propria retribuzione oraria inferiore ai due terzi della retribuzione oraria media nazionale, dunque inferiore a € 7,66 al lordo delle trattenute fiscali e previdenziali. In questo range si colloca il 5,9% delle posizioni (corrispondente a poco meno di un milione di lavoratori del privato non agricolo). Questa percentuale cresce al 28% quando si parla di apprendisti, al 7,1% se si tratta di operai.

Ad avere paghe particolarmente basse è il 22% delle/dei dipendenti dei servizi, il 10,9% di quelle/i delle attività artistiche, sportive di intrattenimento e divertimento. Al contrario i “lavoratori poveri” sono pressoché assenti nelle attività finanziarie e assicurative (0,4%) e nelle aziende elettriche e del gas (0,7%). Non sorprende che le posizioni a bassa retribuzione siano più presenti tra le donne (6,5%) che tra gli uomini (5,5%), tra gli immigrati (8,7%) che tra gli “autoctoni” (5,4%), tra i giovani sotto i 29 anni (10,9%), tra le/gli addetti di imprese con meno di 10 dipendenti (7,6%), nel Sud Italia (9,5%, contro il 6,5% del Centro e il 4,1% del Nord Est).

Si tratta il più delle volte di lavoratrici e lavoratori costretti nel corso dello stesso anno a più contratti di breve o brevissima durata con imprese diverse e/o part-time. Comunque, si badi che il loro basso salario rilevato non è connesso alle poche ore lavorate, visto che lo studio fa i suoi calcoli sulla retribuzione oraria. Dunque in questi casi si tratta di lavoratori poveri due volte, perché costretti a lavorare con una paga oraria molto bassa, per molte meno ore dei full-time e per periodi che non coprono tutto l’anno.

Basterebbero questi dati (che, lo ricordiamo, sono persino in crescita) per sanzionare l’efficacia dei contratti nazionali nella tutela delle condizioni salariali. Com’è noto, i contratti nazionali di lavoro acquisirono in particolare nel corso degli anni Sessanta del Novecento una fondamentale importanza per regolamentare in modo collettivo le retribuzioni dei dipendenti, sottraendole all’arbitrio padronale. Ma negli ultimi anni la situazione contrattuale nelle diverse categorie è molto mutata. In Italia ormai esistono più di 800 contratti collettivi nazionali e al loro interno i minimi tabellari sono i più variegati. Almeno i due terzi di questi 800 CCNL sono siglati da sindacati pirata, che in complicità con le parti datoriali stipulano accordi di vero e proprio dumping contrattuale sui salari (e anche sulle garanzie sulle tutele dei lavoratori). Aggiungiamo che la moderazione salariale e la contrattazione al ribasso si è ormai completamente impadronita dei sindacati confederali.

I minimi contrattuali

L’ISTAT, dunque, non può che constatare che i minimi contrattuali sono essi stessi già attorno alla soglia del lavoro povero. L’Istituto prende in esame per i suoi approfondimenti 73 CCNL che sono applicati a circa 12 milioni e mezzo di dipendenti (esclusi i dirigenti), con 2.855 qualifiche e relativi livelli tabellari. Il range va dal minimo (ricordiamo, al lordo di tasse e contributi) di € 6,15 degli operai agricoli con la qualifica più bassa ad un massimo di € 56,85 euro per le figure apicali del settore del credito.

Nell’industria il valore minimo della paga oraria è di € 7,92 per arrivare ad un massimo di € 27,45 (la retribuzione oraria media è di € 12,98). Più larga è la forbice contrattuale nei servizi, dove si va dal minimo di € 7,39 per arrivare al massimo di € 56,85 (la media è di € 14,70, dunque una media più alta di quella dell’industria a causa del peso delle alte retribuzioni di alcuni specifici settori).

Naturalmente, tutte queste considerazioni vengono fatte sulle lavoratrici e sui lavoratori che sono stati assunti regolarmente e a cui si presume vengano applicati i contratti vigenti. Si calcola che il numero di dipendenti irregolari sia pari al 15,1% del totale; e si stima che la retribuzione media dei lavoratori irregolari corrisponda a poco meno della metà di quella dei regolari. Prendendo in esame due settori nei quali è particolarmente diffuso il lavoro nero (l’agricoltura e i servizi domestici), si calcola che il lavoro irregolare corrisponda rispettivamente al 39,7 e al 58,6% del totale, con tutti i riflessi che abbiamo visto sulle retribuzioni. D’altra parte i contratti collettivi del lavoro domestico fissano il minimo orario a 7,7 euro, che con quello dell’agricoltura è il livello più basso tra tutti i comparti dell’economia.

Si tratta di dati che dovrebbero imporre molta maggiore sobrietà al trionfalismo con cui i vertici sindacali cercano di dissimulare le proprie sconfitte e le proprie colpe e che dovrebbero imporre un’immediata riapertura della discussione sull’introduzione di un vero e dignitoso salario minimo intercategoriale.