di Sandro Orlando, dal Corriere della Sera del 2 maggio 2019
Ci sono almeno due motivi, oggi, per ritenere il capitalismo superato. Il primo: il capitalismo è intrinsecamente fondato su una crescita continua, senza di questa collassa. Ma una crescita continua, in un ambiente dalle risorse finite, porta inevitabilmente alla catastrofe. Un sistema basato su una crescita perpetua oltretutto non può funzionare senza periferie ed esternalità. Ci deve essere sempre una zona in cui rifornirsi di risorse senza pagarle al prezzo pieno; e una zona dove liberarsi dei costi, sotto forma di rifiuti e inquinamento. Quando la scala dell’attività economica aumenta, ecco che il capitalismo sacrifica tutto: dall’atmosfera ai fondali oceanici più profondi, non c’è angolo del pianeta che venga risparmiato a questa logica del profitto.
La crescita? Non può essere «sostenibile»
Queste riflessioni spingono lo scrittore ambientalista George Monbiot sul Guardian a concludere che non può esserci una «crescita verde», cioé sostenibile. Come non può esistere un «capitalismo buono», al contrario di quanto sostiene il premio Nobel Joseph Stiglitz, che sul New York Times distingue chi «crea ricchezza» (cioé i buoni capitalisti), da chi la «saccheggia» (ovvero i cattivi): «Da un punto di vista ambientale la creazione di ricchezza è sempre un saccheggio», taglia corto Monbiot, perché la crescita economica presuppone il saccheggio di risorse naturali, che oltre ad essere anche di altre forme di vita (animali, piante) appartengono anche alle generazioni future.
Il capitalismo ha fatto il suo tempo e oggi produce più mali che beni, esattamente come il carbone, che pure in passato ha avuto tanti meriti, sentenzia lo scrittore. Per questo va rifondato con «un nuovo concetto di giustizia basato su questo semplice principio: che ogni generazione, dovunque, dovrebbe avere lo stesso diritto a godere della ricchezza naturale».