Decreto Dignita’: scheda tecnica e primi commenti

Riportiamo da Il Sole 24 Ore la scheda tecnica del Decreto Dignità, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 luglio 2018 come DL 12 luglio 2018, e tre commenti.

Commento di Marta Fana da Il Fatto Quotidiano:
“Il decreto dignità non scalfisce lo strapotere delle imprese nella gestione delle relazioni industriali. Non lo fa quando reintroduce la causale ai contratti a termine e anche a quelli in somministrazione solo dopo i primi dodici mesi di durata; infatti solo il 22% e l’1% rispettivamente di tali contratti hanno durata superiore ai 365 giorni. I datori di lavoro possono tranquillamente continuare a far ruotare i lavoratori, uno dietro l’altro, con la promessa che un giorno arriverà la stabilizzazione, saranno precariamente stabili.
Avranno guadagnato niente poco di meno che un contratto a tutele crescenti, quello introdotto dal Jobs Act che monetizza il diritto al lavoro con qualche mese di indennità pagata. Ma anche in questo caso il decreto dignità non colpisce al cuore del Jobs Act restituendo ai lavoratori la tutela reale, il diritto al lavoro: aumenta eventualmente il costo dell’indennità. Neppure di fronte a tanto moderatismo e considerando quanto le aziende hanno risparmiato in questi anni sul costo del lavoro, grazie agli sgravi fiscali che hanno ormai toccato i 20 miliardi, restituire qualcosa ai lavoratori appare come un affronto per chi è stato abituato a ricevere e non a dare. Non una parola fin qui sulla drammatica situazione dei salari in Italia, ormai legalmente tendenti allo zero. Se non quell’arma a doppio taglio di un salario minimo che individualizza più che allargare le maglie della protezione erga omnes dei contratti collettivi nazionali, indeboliti in quel 1984 e poi definitivamente nel 1993. Noi sappiamo che oggi è addirittura legale per un’impresa assumere attraverso un indegno tirocinio extra curriculare chiunque, giovani e meno giovani, lavoratori con e senza esperienza. Intere generazioni prigioniere di quanti pur di non condividere i propri profitti evocano scenari catastrofici. Si fa presto a trovare una categoria dopo l’altra.

Commento di Stefano Chiusolo, avvocato di Milano, da Wikilabour

Contratti a termine: l’inadeguatezza di una simile riforma è di tutta evidenza: che un contratto duri 24 o 36 mesi non fa una gran differenza; anzi, può̀ essere penalizzante per il lavoratore che vedrà̀ridursi la prospettiva della durata del rapporto di lavoro. Che poi questa stretta sui contratti a termine davvero agevoli le assunzioni a tempo indeterminato è da un lato tutto da verificare, dall’altro irrilevante. È da verificare, nel senso che, più̀
probabilmente, i datori di lavoro si orienteranno sui Co.co.co.; è irrilevante, perché́ormai il precariato sta
anche nei contratti a tempo indeterminato; per combattere il precariato bisogna agire sulle tutele crescenti
e, come dirò̀tra breve, sul punto la riforma è risibile.
Quanto alla reintroduzione delle causali, ancora una volta si tratta di un provvedimento di facciata: se
davvero si fosse voluto reintrodurre le causali, ciò̀si sarebbe fatto per tutti i contratti a termine e non solo
per quelli di almeno dodici mesi. Così come strutturata, la riforma avrà̀ un’unica conseguenza: quella di
aumentare il periodo di prova. Intendo dire che i datori di lavoro stipuleranno d’ora in poi contratti a termine
senza causale di durata inferiore a 12 mesi; se il lavoratore è bravo e soprattutto se è docile, magari verrà̀
assunto a tempo indeterminato, ovviamente a tutele crescenti, quindi per lungo tempo ancora licenziabile
con poca spesa, quindi ancora precario. Nel caso in cui servano persone per un periodo di tempo superiore,
si farà̀ricorso al Co.co.co. (sempre che non si ricada in una delle causali indicate dalla riforma).
Insomma, la riforma fa del gran fumo per apportare modifiche davvero poco significative, eludendo il
principale problema dell’attuale disciplina del contratto a termine, ovvero la mancanza di causale.
Contratti di somministrazione: l’equiparazione alla disciplina dei contratti a termine è affatto parziale, restando tuttora esclusi gli artt. 23 e 24 D. Lgs. 81/15. L’inapplicabilità̀ dell’art. 23 è particolarmente grave, perché́ questa deroga rappresenta il cavallo di Troia per eludere la percentuale massima di contratti a termine stipulabili dal datore di lavoro: a questo fine, è sufficiente che il datore di lavoro si rivolga a società di lavoro somministrato che, non essendo interessate dal limite percentuale, potranno assumere a piacimento lavoratori a termine. Certo, per i contratti più̀ lunghi vale anche in questo caso l’obbligo della causale, ma il serbatoio di mano d’opera dove attingere è ampio e, comunque, la fattispecie sarà̀ facilmente riconducibile a “esigenze connesse a incrementi temporanei”, consistenti nella temporanea richiesta di mano d’opera da parte di un terzo soggetto. Indennità̀ per licenziamento ingiustificato: l’aumento nel minimo è risibile: 2 mensilità̀ in più̀ che, in una prospettiva conciliativa, può̀ diventare una mensilità̀ in più̀. L’aggravio di spesa per il datore di lavoro è davvero irrilevante. Apparentemente più̀ significativo è invece l’aumento nel massimo ma, ancora una volta, si tratta di apparenza: questo aumento è del tutto teorico, legato all’anzianità̀ del lavoratore. Infatti, per avere i 36 mesi è necessario vantare 18 anni di anzianità̀, ammesso di arrivarci e di non essere licenziati prima, quando il costo del recesso è inferiore. Non solo; si consideri che la disciplina è applicabile a chi sia stato assunto dal 7/3/15, il che vuol dire che l’effetto della riforma comincerà̀ a sentirsi dopo il marzo 2027, ovvero dopo che i primi assunti a tutele crescenti compiranno oltre 12 anni di anzianità̀ e potranno quindi se del caso beneficiare dell’aumento dell’indennizzo. Insomma, una promessa a babbo morto.
Naturalmente, e in ogni caso, anche qui si elude il problema, che non è quello di aumentare l’indennizzo, ma
di ripristinare la reintegrazione nel posto di lavoro.
Riassumendo, il testo della riforma può̀ essere considerato un passo avanti, peraltro molto timido, solo perché́ veniamo da anni di pesanti arretramenti, ma non si può̀ certo dire che si tratti di un intervento positivo. Gli effetti concreti, come si è visto, sono scarsissimi e, quelli forse più̀significativi, a efficacia procrastinata nel tempo. In buona sostanza, un’operazione di facciata, puro marketing da parte di chi pensa in questo modo di
giustificare la sua presenza in un governo reazionario.

Commento di Riccardo Achilli da Bandiera Rossa
Il Decreto-dignità è l’esempio più lampante di un provvedimento di compromesso fra i vari attori del blocco sociale di riferimento dei gialloverdi. Da un lato, strizza l’occhio alla piccola borghesia mediante il superamento di spesometro e redditometro, la fine dello split payment per i professionisti, la promessa di una riduzione del costo del lavoro e l’affascinante quanto impraticabile sanzione alle imprese che delocalizzano, e che poi tornano sul nostro mercato per fare concorrenza sui costi ad uno strato dell’apparato produttivo italiano tradizionalmente, sin dall’autarchia fascista, favorevole a protezioni alla frontiera, in questo modo rispondendo anche a quel segmento di classe operaia vittima della globalizzazione, soprattutto nelle aree di crisi industriale del Centro Nord, massicciamente trasferitasi dalla Cgil alla Lega. Dall’altro, guarda ai segmenti precarizzati del mondo del lavoro, introducendo moderati provvedimenti di freno ai contratti a termine ed alla somministrazione di lavoro ed aumentando significativamente l’indennità in caso di licenziamento senza giusta causa per i contratti a tempo indeterminato del Jobs Act. Una frenata consistente al gioco d’azzardo (frenata a mio avviso sacrosanta, il gioco d’azzardo è una malattia per chi lo pratica ed un danno sociale enorme, mai contrastato dai Governi precedenti, perché perfettamente compatibile, ideologicamente, con l’economia da casinò neoliberista) serve, infine, per strizzare l’occhio ad ambienti cattolici potenzialmente o attualmente legati alla destra.
Si può argomentare, a mio avviso sterilmente perché non se ne comprende la portata, il contenuto tecnico dei singoli provvedimenti, come stanno facendo alcuni esponenti di LeU vittime di sindrome da tecnicismo, e quindi ricordare che l’aumento del contributo a carico del datore di lavoro in caso di rinnovo del contratto a termine scoraggerà i rinnovi e le proroghe, si può giustamente disquisire sulla difficile attuabilità pratica dei provvedimenti anti-delocalizzazione, ma tutto ciò si traduce in un pericoloso disconoscimento della portata simbolica, e quindi culturale, di tale provvedimento. Per la prima volta dalla legge Treu del 1997, un provvedimento di mercato del lavoro inverte la direzione di marcia verso la crescente precarizzazione dell’occupazione, introducendo (timidi) interventi in controtendenza. Per la prima volta, in quasi trent’anni di retorica filo-globalizzatrice, si introduce ufficialmente il riconoscimento dei danni della globalizzazione, prevedendo sanzioni a chi delocalizza. Risveglia forze sociali sopite dallo scoraggiamento dell’egemonia, considerata sinora inattaccabile, del pensiero unico. Costruisce legami sociali e comunitari, fuori dall’individualismo metodologico liberista, con provvedimenti di compromesso.

SCHEDA DECRETO LEGGE “ DIGNITA’ ” (da Il Sole 24 Ore)

1 – Contratti a termine SOLO 12 MESI per i contratti a termine senza casuale. Tornano le causali dopo i primi 12 mesi anche per i rapporti in corso
Due motivi per ricorrere ai contratti a tempo – Entrano oggi in vigore le nuove regole introdotte dal decreto estivo. Il contratto a termine “libero” potrà essere sottoscritto fino a 12 mesi; dopo si ripristinano le causali, vale a dire le ragioni che giustificano il ricorso da parte del datore a un rapporto a tempo determinato. In questi casi, si potrà attivare un contratto a termine solo per due motivazioni, cioè per «esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; oppure per necessità «temporanee e oggettive, estranee all’attività ordinaria, o per esigenze sostitutive di altri lavoratori».
Un freno a rinnovi e stabilizzazioni – Introdotte per la prima volta nel 1962, le causali sono state poi cancellate, nel 2014, con il decreto Poletti, e ora ritornano. In più di 50 anni non hanno mai prodotto particolari risultati, visto che sono di incerta applicazione, lasciano ampi margini di discrezionalità ai giudici, e portano solo ampio contenzioso. L’effetto pratico sarà quello di penalizzare i lavoratori a termine oltre i 12 mesi: per loro infatti sarà più difficile ottenere la stabilizzazione o un nuovo rapporto a tempo
IN SINTESI – Dopo i primi 12 mesi di contratto a termine libero, tornano le causali. La novità vale per i nuovi contratti ma anche per quelli in corso in caso di rinnovi o proroghe

2 – Contratti a termine – + 0,5 % IL SOVRACCOSTO per ciascun rinnovo – La durata scende a 24 mesi, 4 le proroghe, rinnovi più costosi – Rapporti a tempo determinato più cari : Il decreto legge riscrive in maniera piuttosto robusta il decreto Poletti del 2014, che, come si ricorderà, aveva liberalizzato i contratti a termine per tutta la durata massima di 36 mesi, confermando un tetto quantitativo al loro utilizzo (20% dell’organico complessivo). Ebbene, da oggi, la durata complessiva di un rapporto a termine scende da 36 a 24 mesi, sono ammesse quattro proroghe (finora, cinque), e «in occasione di ciascun rinnovo», anche in somministrazione, scatta un incremento contributivo di 0,5 punti percentuali, in aggiunta all’1,4% già previsto, dal 2012, dalla legge Fornero, e utilizzato per finanziare la Naspi (l’indennità di disoccupazione)
Si rischiano effetti negativi sull’occupazione – La normativa diventa complessivamente più severa sui contratti flessibili. Il rischio, concreto, è di non produrre effetti sull’occupazione. Anzi, di avere un impatto negativo, come stima, del resto, la relazione tecnica al Dl che parla apertamente di 80mila contratti a termine a rischio (già oggi oltre i 24 mesi), e di questi, 8mila (il classico 10% che indica sempre la Ragioneria generale dello Stato) che sicuramente non verranno proseguiti.
IN SINTESI – La durata di un contratto a tempo scende da 36 a 24 mesi, le proroghe si fermano a 4 (attualmente 5) e a ciascun rinnovo scatta un addendum contributivo di 0,5 punti

3 – Somministrazione – 702 MILA – Il giro di vite scatta anche per le Agenzie per il lavoro – Cancellata la distinzione tra due istituti.
La disciplina del lavoro in somministrazione viene equiparata a quella del contratto a termine. Si applicano anche alle Agenzie di lavoro le nuove norme sulla durata massima del contratto a termine acausale di 12 mesi. La durata massima scende da 36 a 24 mesi, ma per ogni rinnovo si dovranno indicare le causali, e per ogni rinnovo scatterà un incremento del costo dei contributi dello 0,5%. Bisognerà rispettare lo “stop and go”, ovvero la pausa tra un contratto e l’altro, e le proroghe scendono da 5 a 4. Le uniche due esclusioni riguardano l’obbligo di precedenza nelle assunzioni e il tetto di utilizzo pari al 20% dei contratti a termine rispetto ai tempi indeterminati.
La somministrazione perde appeal – Diventerà più difficile proseguire i contratti di somministrazione oltre i 12 mesi. Non solo per l’aggravio dei costi, ma anche perchè le causali fanno riferimento ad esigenze temporanee estranee all’ordinaria attività, non programmabili, fattispecie quasi impossibili per giustificare il ricorso alla somministrazione. La pausa tra un contratto e l’altro penalizza lo stesso lavoratore.
IN SINTESI – Si penalizza il ricorso ad una forma di flessibilità tutelata per il lavoratore che ha lo stesso trattamento economico e contributivo di un lavoratore subordinato, con il supporto del welfare e della formazione.

4 – Regime transitorio – 80 MILA – Sono i contratti attuali oltre i 24 mesi – Al via la stretta su proroghe e rinnovi e sui futuri contratti – Più difficili proroghe e rinnovi
La nuova disciplina si applica ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, che è la giornata odierna, nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data. Dalle nuove misure è esclusa la pubblica amministrazione, per la quale si continua ad applicare la disciplina precedente.
Posti di lavoro a rischio – La relazione tecnica evidenzia che sui 2 milioni di contratti a tempo attivati (esclusi gli stagionali, agricoli, Pa e compresi i lavoratori somministrati), di questi 80mila superano la durata effettiva di 24 mesi. Le previsioni della Rgs sono che il 10% di questa platea potenzialmente a rischio non troverà altra occupazione dopo i 24 mesi, cioè in 8mila l’anno resteranno senza lavoro (3,3mila per i restanti mesi del 2018).
IN SINTESI – I contratti a termine in essere sono a rischio, perchè quando scadranno sarà più difficile rinnovarli; l’imprenditore dovrà indicare la causale, esponendosi al rischio di contenzioso, e pagare uno 0,5% in più ogni rinnovo. La tentazione, in molti casi, potrebbe essere quella di stipulare nuovi contratti a termine a causali di durata fino a 12 mesi, o ricorrere ad altre tipologie contrattuali (con meno tutele per i lavoratori)

5 – Indennizzi – 36 MESI – Per le aziende diventa più costoso licenziare – Arrivano i maxi indennizzi. –
Il primo decreto di politica economica del governo Conte interviene anche sul nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in vigore dal 7 marzo 2015. Il provvedimento prevede un incremento del 50% degli indennizzi monetari, minimo e massimo, in caso di licenziamento illegittimo, che dagli attuali 4 e 24 mensilità passano ora a 6 e 36 mensilità. Si torna così a rivedere il quadro dei regimi di tutela attualmente esistenti a fronte di recessi datoriali ingiustificati. Nei soli licenziamenti individuali, se ne arrivano a contare ben 13. Alla faccia della semplificazione!
Un freno a rinnovi e stabilizzazioni – Si agisce con una doppia mossa che penalizza le aziende. Da un lato, infatti, si introduce una normativa più severa sui contratti flessibili; dall’altro, si aggravano gli indennizzi nei licenziamenti illegittimi legati al contratto stabile a tutele crescenti. Il rischio è di non produrre effetti sull’occupazione. Semplicemente perché si disincentivano, contemporaneamente,entrambe le tipologie negoziali
IN SINTESI – Cambiano gli indennizzi in caso di licenziamento illegittimo: da 4 a 24 mensilità si sale, adesso, a 6 e 36 mensilità

6 – LOTTA ALL’EVASIONE – 20 % LA TOLLERANZA: differenza tra redditi e tenore di vita oltre la quale scattano i controlli – Il redditometro viene congelato per i controlli dal 2016 – stop al provvedimento attuativo
Per il redditometro si profila uno stand by. Pur essendo ormai uno strumento di accertamento poco utilizzato, il Dl 97/2018 abroga il provvedimento attuativo varato dal Mef nel settembre 2015 che quindi non consente più di ricorrere a questo tipo di controllo dall’anno d’imposta 2016 e successivi. Restano, invece, validi tutti gli inviti rivolti ai contribuenti su cui si sono già posati gli “occhi” del redditometro a fornire dati e notizie rilevanti fino all’anno d’imposta 2015. Così come restano validi gli atti di accertamento che sono stati già recapitati e non saranno in alcun modo rimborsate le somme già versate.
Scadenze riviste per lo spesometro – Il decreto estivo interviene anche sul calendario dello spesometro, ossia l’invio alle Entrate dei dati delle fatture emesse e ricevute nel 2018. Per la trasmissione del terzo trimestre ci sarà tempo fino al 28 febbraio 2019, mentre le due scadenze per l’invio semestrale saranno 1° ottobre (il 30 settembre cade di domenica) e 28 febbraio 2019
IN SINTESI – Che cosa succederà ora al redditometro? Il nuovo decreto sugli indici di capacità contributiva potrà essere adottato dal Mef sentite l’Istat e le associazioni dei consumatori. Si tratterà di capire se lo strumento resterà nella sua formula attuale o se sarà destinato a cedere il passo a un meccanismo simile alle nuove “pagelle fiscali” per le partite Iva

7 – SEMPLIFICAZIONI – 35 MILIONI il costo del dietrofont per professionisti – I professionisti ritrovano l’esclusione dallo split payment. Il dietrofront dopo un anno
È durata appena un anno l’applicazione dello split payment ai professionisti che era stata introdotta dalla manovrina della primavera dello scorso anno. Il decreto estivo opera un dietrofront mettendo nero su bianco che l’esclusione dal meccanismo della scissione dei pagamenti (in pratica i soggetti obbligati che acquistano le prestazioni professionali poi erogano il compenso al netto dell’Iva che provvedono a versare direttamente all’Erario) riguarda i compensi assoggettabili alla ritenuta alla fonte sul reddito ma anche a titolo di acconto
Le operazioni dopo l’entrata in vigore – L’esclusione dei professionisti dallo split payment scatterà per le operazioni per cui sarà emessa fattura dopo l’entrata in vigore del Dl 97/2018 (stabilita per oggi)
IN SINTESI – Il dietrofront è arrivato dopo il pressing arrivato da Ordini e rappresentanti dei professionisti per superare lo split payment. Ora resta da capire se si arriverà a un superamento tout court del meccanismo, come da tempo richiedono le imprese proprio per gli effetti negativi in termini di liquidità. Anche in considerazione del fatto che con il debutto dell’obbligo di fatturazione elettronica tra privati a partire dal 2019 l’amministrazione finanziaria potrà disporre in tempo reale di tutte le operazioni che verranno fatturate

8 – Giochi – 0,5 % l’aumento del prelievo sulle macchinette. Lo stop agli spot trascina al rialzo il prelievo sulle slot – Divieto di pubblicità assoluto
Il decreto introduce una stop alla pubblicità del gioco, sia diretta che indiretta, su qualsiasi mezzo, dai giornali alle televisioni, dalle radio a internet. Si salvano solo la lotteria della Befana e gli annunci dei Monopoli sul gioco responsabile. Sono esclusi dalla stretta anche i contratti di pubblicità in vigore fino al 14 luglio 2019 (un anno dall’entrata in vigore del Dl) o comunque in scadenza prima di quella data.
Il gioco come bancomat – La stretta sulla pubblicità sarà pagato da un nuovo aumento in due tempi del Preu sulle slot: uno 0,25% di aumento scatterà già dal 1° settembre 2018 per garantire i 35 milioni necessari a coprire l’abolizione dello split payment per i professionisti; l’altro 0,25%, che porterà il Preu al 19,50% per le Awp e al 6,5% per le Vlt, scatterà dal 1° maggio 2019 per assicurare all’Erario 147 milioni per il prossimo anno e 198 milioni a decorrere dal 2020.
IN SINTESI – Lo stop alle pubblicità del gioco così come alla sponsorizzazioni metterà fine agli annunci pubblicitari su scommesse, gratta e vinci, lotto, slot e superenalotto per citare i giochi più noti. Le violazioni potranno costare fino al 5% della sponsorizzazione o della pubblicità e comunque in misura non inferiore a 50mila euro.

9 – Delocalizzazioni – 5 ANNI IL PERIODO DI VINCOLO . Colpiti gli imprenditori che si trasferiscono anche in Italia e nella Ue – Impresa sanzionata entro 5 anni dall’aiuto
Le imprese che trasferiscono entro 5 anni l’attività o «una sua parte» dal sito produttivo per cui hanno ricevuto un aiuto di Stato che prevede un investimento produttivo dovranno restituirlo. Se lo spostamento avviene all’interno della Ue o in Italia dovranno restituire l’importo più gli interessi (maggiorati di 5 punti). In caso di trasferimento extra Ue oltre alla revoca dell’aiuto si prevede una sanzione da due a quattro volte l’importo del beneficio. Punita anche la delocalizzazione dei beni e dei macchinari incentivati con l’iperammortamento di industria 4.0. In questo caso l’impresa è tenuta a restituire – attraverso una variazione in aumento del reddito imponibile – i benefici fiscali applicati nei periodi di imposta precedenti.
Il rischio di spaventare gli investitori – Le nuove norme sulle delocalizzazioni rispondono a un fenomeno dove non sono mancate abusi anche in Italia. Ma la nuova disciplina rischia innanzitutto di spaventare gli investitori e creare più di un incertezza. La stretta potrebbe colpire soprattutto il Sud dove si concentrano molti aiuti per le imprese.
IN SINTESI – Pugno duro contro le imprese che delocalizzano dopo aver ricevuto un aiuto di Stato. Oltre alla revoca previste sanzioni in caso di trasferimento fuori dalla Ue.

10 – Livelli di occupazione – SE C’E’ 50% di taglio degli occupati. II Stop alle agevolazioni per l’azienda che riduce l’occupazione – Stretta per chi taglia l’occupazione oltre il 10%
Il decreto estivo prevede una stretta sugli aiuti di Stato non legata per forza alle delocalizzazioni. Si tratta della misura che riguarda le imprese che riducono l’occupazione dopo aver incassato una agevolazione che prevede «la valutazione dell’impatto occupazionale». Nel decreto si stabilisce la revoca dei benefici concessi alle imprese che riducono i livelli occupazionali degli «addetti all’unità produttiva o all’attività interessata dall’aiuto» nei cinque anni successivi alla data di completamento dell’investimento. La decadenza dal beneficio avviene in presenza di una riduzione dei livelli di occupazione superiore al 10% ed è proporzionale alla riduzione del livello occupazionale. Ed è «comunque totale in caso di riduzione superiore al 50 per cento».
Nel mirino sia le imprese italiane che estere – La nuova misura riguarda tutte le imprese italiane o estere che operano nel territorio nazionale. Con una precisazione di peso: che la misura si applicherà ai benefici concessi o banditi e a tutti quegli investimenti agevolati avviati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto.
IN SINTESI – Revoca proporzionale degli aiuti di Stato alle imprese in base ai livelli di riduzione dell’occupazione
Il Sole 14 luglio 2018