I cinque operai di Pomigliano alla fine hanno vinto contro Fca!
È bene sottolineare (come ricorda Giorgio Cremaschi) che i cinque operai sono stati reintegrati in Fiat perché assunti ancora con le vecchie regole. Se fossero stati invece assunti con il Jobs Act che Renzi esalta in ogni momento, il giudice non avrebbe potuto fare nulla per riportarli al lavoro. Perché i nuovi assunti non usufruiscono più della tutela dell’articolo 18. Ricordiamo anche questo quando andremo a votare il 4 dicembre.
Il loro licenziamento è illegittimo e dovranno tornare in fabbrica. La sentenza della Corte di Appello di Napoli ha ribaltato la decisione in primo grado del tribunale di Nola.
Mimmo Mignano, Marco Cusano, Roberto Fabbricatore, Massimo Napolitano e Antonio Montella, il 5 giugno del 2014 avevano inscenato un “Marchionne pentito”, un fantoccio impiccato a un patibolo, davanti al cancello del Wcl, il polo logistico di Nola. Il gesto, provocatorio, era stato messo in atto durante una manifestazione di protesta in seguito al suicidio di due colleghi, Pino De Crescenzo e Maria Baratto, che erano stati messi in cassa integrazione dall’azienda.
In seguito alla vicenda era scattato immediatamente il licenziamento, confermato con ben due sentenze dal Tribunale di Nola, che aveva sempre dato ragione alla Fiat e a Marchionne, respingendo la richiesta di reintegro da parte dei cinque operai. Adesso però la Corte d’Appello di Napoli ha ribaltato completamente quelle sentenze, decretando il diritto degli operai a manifestare anche in quel modo e disponendo il loro reintegro in fabbrica.
Al presidio permanente in piazza Municipio, all’arrivo della notizia è scoppiata la festa. I cinque “ex licenziati” sono tutti aderenti allo Slai Cobas e, in quanto tali, deportati da Pomigliano e mobbizzati nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom – tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative o con un contenzioso aperto con l’azienda.
Il 20 settembre scorso, i cinque di Pomigliano in corteo insieme a centinaia di persone venute da Melfi, Taranto, dalla Val Susa, Roma, Torino, avevano raggiunto il tribunale di Napoli. Un appello in loro solidarietà è stato firmato da migliaia di persone – non da Maurizio Landini .
Il polo logistico di Nola doveva essere all’avanguardia e rappresentare un passo in avanti per l’azienda. Quel polo viene utilizzato come confine per i disobbedienti del regime Marchionne. Una terra di mezzo dove gli operai sono costretti ad una cassa integrazione di 0 ore con 600 euro al mese. Oltre all’aspetto strettamente economico, diventa importante l’aspetto psicologico degli operai al confino. In quel reparto ci sono stati 3 suicidi e altrettanti tentativi disperati. L’ultimo è stato quello di Maria Baratto. La sua morte aveva sconvolto gli operai, che avevano deciso di utilizzare la satira come mezzo di denuncia inscenando l’impiccagione di Marchionne fuori dai luoghi di produzione e fuori l’orario di lavoro. Volevamo che Marchionne prendesse atto della nostra denuncia e di quelle morti.
La vicenda giudiziaria è stata altalenante. Il tribunale di Nola si è sempre pronunciato dalla parte di Marchionne respingendo la richiesta di rientro dei 5 operai licenziati dalla Fiat con questa motivazione: «un intollerabile incitamento alla violenza (…) una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario, da ledere irreversibilmente (sic) il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro».
In seguito, nel riesame del ricorso, il tribunale di Nola ha confermato il primo giudizio. In questa motivazione si legge che le manifestazioni messe in atto: «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che esse hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine».
Si concedeva quindi all’azienda che l’azione drammatica della messa in scena di un suicidio col volto dell’AD recasse danno all’immagine, pregiudizio all’onore e alla reputazione.
E invece il suicidio reale, carnale, tragico e «violento» di tre esseri umani non reca danno al buon nome dell’azienda?
Salutiamo quindi questa svolta rappresentata dalla sentenza del tribunale civile di Napoli che ha ribaltato la scena facendo reintegrare i cinque. «La sentenza di Nola negava che si sia trattato di una manifestazione sindacale e che ci sia un nesso di causalità con l’ondata di suicidi – spiega Pino Marziale, legale dei cinque operai – e, soprattutto, estendeva gli obblighi di fedeltà all’azienda anche fuori dall’attività lavorativa, sebbene i cinque non mettessero piede in fabbrica da quasi sei anni. C’è un clima repressivo che si respira anche nelle aule dei tribunali. La parola magica sembra essere “vincolo fiduciario”, come se il lavoratore appartenesse al datore di lavoro».