Fusione Bayer-Monsanto, un disastro da evitare per l’agricoltura mondiale
Il settore dei semi e degli erbicidi è già fortemente concentrato a livello globale. Ora ha di fronte tre maxi-fusioni, tra cui quella tra Bayer e Monsanto, il leader mondiale degli Ogm. Le conseguenze? Aumento dei prezzi, riduzione dell’innovazione e un pressing rinnovato sulle istituzioni europee
Antitrust cercasi per evitare la creazione di un moloch nel settore agricolo. Non c’è bisogno di essere no global o seguaci di per guardare con sospetto alla fusione annunciata tra Bayer e Monsanto. O meglio, alle offerte di acquisto che stanno arrivando da parte del colosso farmaceutico tedesco nei confronti della multinazionale americana leader mondiale nel settore degli Ogm. Basta farsi una domanda: per chi sono i vantaggi? Quelli per gli azionisti sono stati chiariti da tempo dalla stessa Bayer: risparmi a causa delle sinergie per 1,5 miliardi di dollari in tre anni. È però difficile individuare uno solo beneficio per i tanti agricoltori, che negli Usa hanno già visto negli anni diminuire drasticamente il numero di produttori indipendenti di semi e contemporaneamente crescere i prezzi, fino a raddoppiare. Così come per i consumatori: non si vede come potrebbero beneficiare del probabile aumento di prezzi e della possibile riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo.
Non a caso le notizie sui vari quotidiani finanziari di questo non si stanno occupando. Il tema dibattuto è il prezzo di acquisto. La Bayer ha lanciato lo scorso maggio una prima offerta, di 122 dollari per azione della Monsanto. Una cifra superiore del 37% rispetto alla quotazione del 9 maggio e che valutava la preda 62 miliardi. Offerta respinta. A luglio un nuovo assalto, a 125 dollari e valutazione intorno ai 64 miliardi di dollari. Picche. Poi, dopo qualche indiscrezione rilanciata da Bloomberg all’inizio di agosto circa una apertura parziale da parte di Monsanto per permettere ai tedeschi un’analisi approfondita dei conti (due diligence), è arrivata la bomba. La Bayer, con un comunicato a firma dell’amministratore delegato, Werner Baumann, ha dichiarato di essere «assolutamente determinata a completare questa transazione». Cosa intendesse dire lo ha chiarito il 16 agosto il quotidiano economico Handelsblatt: la società tedesca ha in mente un’Opa ostile. Si tratterebbe di convincere qualche fondo azionista a schierarsi dalla parte di Bayer (come Third Point, guidato da Daniel Loeb), arrivando anche a determinare uno o più cambi di poltrona nel cda di Monsanto. Poi di rivolgersi direttamente agli azionisti nel loro complesso, con un’offerta allettante. Sempre Handelsblatt, dando voce a un fondo azionista di Bayer (lo Union Investment), ha fatto sapere che la cifra potrebbe alzarsi fino ai 135 dollari ad azione, ma non oltre. Si tratterà di vedere se questo riuscirà a convincere il numero uno di Monsanto, Hugh Grant, che è forte di un carisma derivato dalla lunga storia personale nella multinazionale: vi entrò a 22 anni, 35 anni fa, ed è stato protagonista di una serie di acquisizioni che hanno visto la società nella parte del predatore in 40 occasioni.
La partita è dunque aperta e nelle ultime ore sembra volgere a favore della Bayer, dato che nuove indiscrezioni hanno parlato di un’apertura parziale verso una due diligence. Ma quando il match entrerà nelle fasi finali è il caso di sperare nell’intervento deciso dell’Antitrust americana e di quella europea. Le argomentazioni per uno stop all’aggregazione le ha messe in fila il Konkurrenz Group, un’associazione guidata da due avvocati che hanno fatto parte dell’autorità antitrust degli Stati Uniti. Ne è emerso un paper di una ventina di pagine pieno zeppo di dati e di riferimenti legislativi, primo tra tutti il Clayton Act, che regola la concorrenza oltreoceano. Quello che ne emerge è il quadro di un settore già altamente concentrato, nei comparti sia dei semi sia degli prodotti fitosanitari. La Bayer negli scorsi mesi ha fatto notare che i due gruppi non sono direttamente troppo concorrenti: la società tedesca si occupa, in campo agricolo, soprattutto di erbicidi, ma anche di anticrittogamici e fertilizzanti, mentre la Monsanto soprattutto dei brevetti sui semi geneticamente modificati e della vendita degli stessi semi. Il gruppo di Leverkusen si concentra su Europa e Asia, quello di St. Louis soprattutto sull’America. Vero, ma non troppo. Prendiamo il cotone: negli Stati Uniti i campi coltivati con i semi della Monsanto occupano oltre il 31% della superficie coltivata, quelli con i semi della Bayer il 38 per cento. Assieme sfiorerebbero il 70 per cento, con un indice di concentrazione (si usa il parametro HHI, da Herfindahl-Hirschman Index) che schizzerebbe da 2.760 al 5.151 post fusione. Non solo: se si guarda agli erbicidi, Monsanto e Bayer sono concorrenti diretti e molto agguerriti. Lo studio considera sempre il mercato americano. Qui dal 1974 la Monsanto ha messo a punto il suo prodotto erbicida a base di glifosato, chiamato Roundup Ready. Il principale concorrente è il Liberty Link della Bayer, a base di glufinosato. Secondo gli autori del Konkurrenz Group si violerebbe quindi uno dei principi del Clayton Act, cioè la necessità di evitare le fusioni tra i due maggiori concorrenti in un determinato settore.
C‘è da aggiungere qualche particolare, solo apparentemente tecnico. L’utilizzo degli erbicidi come quelli a base di glifosato è schizzato alle stelle da quando, a metà degli anni Novanta, la Monsanto ha cominciato a produrre e a commercializzare una serie di sementi geneticamente modificate per resistere agli erbicidi. L’effetto è che mentre prima gli erbicidi si potevano dare solo prima che spuntassero le piante (per esempio di mais) o solo dopo il raccolto, ora si possono usare anche quando le piante sono spuntate. Se nel 1996 meno del 10% delle coltivazioni di cotone, mais e soia veniva irrorato di glifosato, la percentuale nel 2016 è salita a più del 90 per cento. Il legame tra semi ed erbicidi è quindi evidente e una piattaforma che unisca i due passaggi della filiera sarebbe tutt’altro che innocua dal punto di vista della concorrenza.
A dirlo per prime sono le associazioni degli agricoltori statunitensi, come la National Farmers Union. Ricordano che, mentre i prezzi dei principali cereali si sono dimezzati negli ultimi tre anni, quelli dei semi hanno continuato a salire. La Usda (il Dipartimento di agricoltura statunitense) ha fatto notare come i prezzi dei semi siano l’input agricolo i cui prezzi sono cresciuti maggiormente. Il periodo di incremento maggiore dei prezzi dei semi dei cereali fu tra il 1994 e il 2010, quando i listini raddoppiarono. Nei 20 anni tra il 1988 e il 2008, il peso dei semi sui costi degli agricoltori è salito dal 2,6 al 4,9 per cento. In parte questi rincari sono dovuti al peso della ricerca, che ha permesso di limitare i costi su altri versanti (per esempio le perdite da malattia) ma, denuncia il presidente della National Farmer Union, Roger Johnson, in parte sono stati dovuti alla concentrazione e allo sbilanciamento dei rapporti di forza tra produttori di semi brevettati e agricoltori. È solo il caso di ricordare che una pratica comune alle prime sei grandi società del settore a livello mondiale (le Big Six) impone agli agricoltori che acquistano i semi di utilizzarli solo per una stagione. La Monsanto, per esempio, lo prevede per i semi di soia.
Monsanto è già uno sviluppatore e licenziatario dominante dei tratti (traits) di sementi biotech geneticamente modificate usate nel mais, nel cotone e nella soia negli Usa. L’American Antitrust Institute ha dichiarato che la società possiede una quota del 97% per i tratti della soia, del 75% per i tratti del mais e del 95% per i tratti del cotone. Per l’istituto queste quote di mercato sono da considerare monopolistiche. I produttori indipendenti di sementi, in forza di questi brevetti, devono fare accordi con la Monsanto. Per esempio, non è in genere possibile mischiare i caratteri genetici dei semi della multinazionale di St. Louis e quelli di altre società. L’Antistrust Usa nel 2007, quando la società stava acquistando la Delta and Pine Land Company, ha imposto che per un decennio, relativamente al cotone, queste restrizioni fossero impossibili. Al contempo ha imposto la vendita di alcuni asset, sempre relativi ai semi di cotone. L’acquirente principale era stata la Bayer. Le società indipendenti nel settore dei semi negli Usa sono scese dalle 600 del 1996 alle 100 del 2009.
La questione della fusione, secondo associazioni come l’American Antitrust Institute, solleva preoccupazioni anche dal punto di vista della ricerca. Non tanto sul fronte del lavoro, perché la Bayer ha rassicurato sul fatto che lascerà buona parte delle attività di ricerca negli Usa. Quanto su quello della capacità di innovare, che avrebbe meno stimoli dalla diminuzione di concorrenza. Se, inoltre, si riducessero (fino ipoteticamente a uno solo) i prodotti usati (semi ed erbicidi), aumenterebbero i rischi legati alla minore biodiversità. Ossia, in caso di malattia delle piante, gli effetti sarebbero molto più disastrosi.
La questione, peraltro, non è isolata, perché in questi stessi mesi sono in via di definizione altri due enormi operazioni nello stesso settore. C’è il deal in corso tra la Dow Chemical e la DuPont, due delle Big Six del settore, il cui valore congiunto sarebbe di 130 miliardi di dollari. E quello tra la ChemChina (quella che in Italia ha comprato la Pirelli) e la svizzera Syngenta, per la quale sono stati offerti 43 miliardi. A fare gli avvocati del diavolo si potrebbe dire che l’annunciata fusione Bayer-Monsanto sarebbe in chiave difensiva. Tanto che si vocifera di una controfferta su Monsanto da parte di un’altra delle Big Six, la Basf. Ma, per gli avvocati del Konkurrenz Group, questa circostanza non è sufficiente a dare un via libera dell’Antitrust, a meno che non emergano benefici per i consumatori.
La logica difensiva, aggiunge Andrea Di Stefano, direttore del mensile Valori, può essere intesa da Bayer sotto altri due aspetti: si tratta anzituttto di contrattaccare «di fronte ad alcune grosse problematiche, a partire dall’accettabilità degli Ogm a livello internazionale. È vero che queste società sono molto forti – commenta – ma è vero anche che l’opposizione agli Ogm non è assolutamente diminuita. Anzi in alcuni contesti è cresciuta. Bayer è molto interessata come anche Basf al tema degli Ogm. La sua convinzione è che eliminando un’azienda che si porta dietro una reputazione negativa e un forte attivismo contrario, come Monsanto, si possa riportare il dibattito su terreni meno ostici, in particolare i terreni regolatori, in Europa». L’altra parte della strategia difensiva riguarda il glifosato. «Nonostante tutte le pressioni effettuate al riguardo, è apparso evidente che il glifosate andrà in phase out a breve-medio termine. Da questo punto di vista per il comparto, e in particolare per Bayer e Monsanto, si apre la necessità di avere a disposizione qualche sostituto che però sia in grado di passare il vaglio di regolatori sempre più aggressivi, sul fronte della salute umana». La Bayer ha sviluppato un prodotto alternativo al glifosato, chiamato glufinosato. «Si tratta di passare da prodotti esclusivamente di prodotti di sintesi della chimica petrolchimica – aggiunge il direttore di Valori – a prodotti di sintesi di materie prime rinnovabili, che non necessariamente sono più sicure per la salute umana ma che sicuramente possono avere degli effetti di rischio più basso».
La coltivazione degli Ogm in Europa come noto è vietata, al contrario della vendita, che è permessa. Gli europei hanno tutto il diritto di decidere se cambiare legislazione al riguardo, ma sarebbe meglio se lo facessero su basi scientifiche e senza le pressioni che verrebbero dai lobbisti. A Bruxelles «Bayer ha sicuramente uno staff di public affairs molto più efficace ed efficiente di quanto non abbia oggi Monsanto», sottolinea Andrea Di Stefano. «È molto alto il rischio che questa fusione abbia effetti negativi sul tema specifico Ogm e più in generale sui temi di regolazione delle politiche alimentari», aggiunge.
In Europa l’Antitrust intanto si è perà fatta sentire. La commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager, riporta Politico, ha fatto sapere che intende controllare attentamente gli effetti sui prezzi e sulla ricerca che avrebbe la fusione tra Dow Chemical e DuPont. L’Antitrust europeo funziona così: si esaminano i casi uno alla volta, man mano che arrivano, mentre le autorità Usa cercano di vedere gli effetti combinati delle diverse fusioni in corso. «Abbiamo visto che negli ultimi tempi l’Antitrust europeo si è dimostrato molto attivo. Basti pensare al mega contenzioso con Microsoft o all’intervento sulle posizioni dominanti di Facebook – dice Di Stefano -. Sicuramente gli uffici della Vestager saranno aggressivi. Bisogna capire – aggiunge – fino a che punto l’analisi concorrenziale sarà fatta solo sulle quote di mercato o anche sugli effetti sui prezzi. Le autorità di Antitrust si sono dimostrate particolarmente poco efficaci sui prezzi, come nel campo delle telecomunicazioni. Si stanno dimostrando più capaci di intervenire con analisi a tavolino ma meno per bloccare pratiche scorrette che vengono messe in atto». Di certo si va verso una riduzione delle Big Six a soli quattro operatori. Pure in macro-settore come quello della chimica-farmaceutica che ci ha abituato a super-fusioni, la logica vorrebbe che ci fosse una limitazione alla concentrazione.