Lo scambio – Flessibilità contro una delle poche richieste inevase della lettera della Bce del 2011: dare “più rilevanza” al livello aziendale (in sostanza un modo di tagliare i salari).
articolo di Marco Palombi, da Il Fatto Quotidiano del 24 agosto 2016
Stiamo per dare via l’ultimo pezzo dell’argenteria di quanto resta della tutela del lavoro in Italia: il contratto nazionale. Il governo ormai lo dice (quasi) esplicitamente: il mezzo per convincere la Commissione Ue a concedergli lo sconto sul minor deficit da realizzare nel 2017 è una qualche riforma del sistema di contrattazione. L’idea, dunque, è procedere con la legge di Stabilità in autunno, contestualmente con la richiesta di 10 miliardi di maggiore flessibilità sui conti pubblici: un altro passo sulla strada della deflazione salariale consigliata dall’Ue (finora senza successo) per recuperare produttività.
È appena il caso di ricordare, prima di procedere, quanta rilevanza abbia il tema. Nel primo capitolo della famigerata lettera della Bce dell’agosto 2011 (governatore Jean-Claude Trichet, che sarebbe stato sostituito di lì a qualche mese da Mario Draghi) c’erano tre richieste: la “piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali”, soprattutto “attraverso privatizzazioni su larga scala” (ci si sta lavorando coi decreti attuativi della riforma Madia); licenziamenti più facili accompagnati da un sistema di assicurazione sulla disoccupazione (Jobs Act); la riforma dei contratti di lavoro per rendere quelli aziendali “più rilevanti” rispetto al contratto nazionale.
Nell’estate 2011, il governo di Silvio Berlusconi obbedì solo in parte facendo un decreto in cui consentiva di derogare in peggio al contratto nazionale col consenso dei sindacati. Fu quella la scappatoia legale usata da Sergio Marchionne per creare i nuovi contratti del gruppo Fca/Fiat dopo l’uscita da Confindustria. Il governo Renzi, finora, si è limitato a minacciare sindacati (Cgil, Cisl e Uil) e associazioni dei datori di lavoro che, in caso non trovino un accordo per spingere la contrattazione aziendale, ci avrebbe pensato lui con una legge. Nel Jobs Act aveva anche inserito una delega per istituire il “salario minimo”, che non ha però esercitato in tempo. L’accordo tra le cosiddette “parti sociali”, però, non c’è e non ci sarà e ora il governo si trova nella necessità di avere quella riforma per ottenere lo sconto in Europa. Quindi si ricomincia a parlarne. Già nell’ultimo “Programma nazionale di riforme” (aprile) inviato a Bruxelles si legge che “nel 2016 il governo si concentrerà su una riforma della contrattazione aziendale con l’obiettivo di rendere esigibili ed efficaci i contratti aziendali e di garantire la pace sindacale in costanza di contratto. I contratti aziendali potranno altresì prevalere su quelli nazionali in materie legate all’organizzazione del lavoro e della produzione”.
Insomma, l’intenzione c’è. Un paio di giorni fa, poi, il viceministro all’Economia Enrico Morando – intervistato dall’Unità – ha buttato lì che una riforma possibile in cambio della quale chiedere flessibilità a Bruxelles è questa: “Se il governo decide un incentivo fiscale sul salario di produttività, in modo da spingere la contrattazione di secondo livello (aziendale, ndr), di fatto sta promuovendo una riforma strutturale”.
Ieri, infine, Repubblica – giornale non estraneo all’inner circle renziano – addirittura sparava l’ipotesi nel titolone di pagina 3: Renzi “punta sulla riforma dei contratti” (per tenere buona Merkel sul deficit). Ora va capito quale sarà la via scelta. Il progetto circolato prima dell’estate prevedeva l’introduzione per legge di un modello che valorizzasse la contrattazione aziendale, a cui sarebbero demandati orari, turni di lavoro e la parte del salario legata alla produttività. Sempre per legge, poi, andrebbe regolata la rappresentanza sindacale: in sostanza chi può partecipare alle trattative e chi no. Quando un contratto è firmato dai sindacati “autorizzati” a trattare – e, se serve, approvato dal 50% dei lavoratori – gli altri devono adeguarsi pena sanzioni: in sostanza, il “modello Marchionne” con in più l’arma della legge a comprimere le possibilità d’azione dei sindacati conflittuali.
Ancora incerto il destino del “salario minimo legale” fissato per legge: se è troppo alto, infatti, causa l’uscita dal lavoro (o il passaggio al nero) di molti lavoratori precari e/o poco qualificati; se è troppo basso diventa presto il salario medio per tutti. In Portogallo, dove è stato applicato sotto dettatura della Troika, ha causato un drammatico abbassamento degli stipendi.