Brexit: per l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori europei, di Antonello Zecca

brexit3Per l’unità delle lavoratrici e dei lavoratori europei

di Antonello Zecca, da Sinistra Anticapitalista, del 14 luglio 2016

Il 23 giugno ha indubbiamente segnato un ulteriore passaggio della crisi dell’Unione Europea e delle sue istituzioni. Il voto britannico contro la permanenza del paese nel quadro politico-istituzionale dell’Unione ha prodotto preoccupazione, timori, nervosismo e tensione tra le alte sfere di Bruxelles e, soprattutto, tra i governi dell’UE. Ma torneremo in seguito sulle caratteristiche di fondo di questo voto.

La Brexit, ovvero l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, non è fulmine a ciel sereno, né è stata evento imprevedibile ma affonda le sue radici nelle contraddizioni intrinseche del progetto di “unificazione” del nucleo di paesi fondatori (Belgio, Germania, Paesi Bassi, Italia, Francia e Lussemburgo) prima, degli altri ventidue paesi poi (di cui diciannove fanno parte della zona Euro).

Un progetto e la sua realtà

A partire dai sei fondatori, le classi dominanti dei maggiori paesi europei ebbero subito chiaro nel secondo dopoguerra che non avrebbero potuto sostenere la concorrenza con il gigante nordamericano se non avessero posto le basi per la nascita di un’area di scambio e di un mercato comune che consentissero la massa critica necessaria all’impresa. Non era solo però un’esigenza di carattere puramente economico: sebbene la tutela degli Stati Uniti fosse ritenuta necessaria di fronte a quella che veniva percepita, a torto, come la minaccia sovietica, al tempo stesso anche dal punto di vista politico la presenza statunitense cominciò a essere sempre più considerata una zavorra per i progetti delle borghesie più forti, in particolar modo quella della RFT, vogliose di emancipazione da questa ingombrante tutela. A partire dal 1957, anno di sottoscrizione dei trattati di Roma da parte dei sei paesi fondatori della CEE (Comunità Economica Europea), sono stati numerosi i passaggi che hanno portato formalmente alla nascita dell’Unione Europea il 7 Febbraio del 1992 con la sottoscrizione del Trattato di Maastricht , completata poi dalla nascita della zona Euro a diciannove paesi nel 2001. Il cosiddetto processo di unificazione non è però stato lineare e privo di contraddizioni ma è sostanzialmente stato la risultante dello scontro intercapitalistico e interimperialistico tra le diverse borghesie nazionali dell’Unione Europea, fra tutte quelle francese e tedesca, che ha costruito un dispositivo di governance politica, economica e finanziaria, perfezionata dai numerosi trattati dopo Maastricht al servizio delle classi dominanti egemoni in quest’area. Soprattutto dopo l’unificazione (o meglio dire l’annessione) della RDT alla Repubblica Federale Tedesca all’indomani della caduta del Muro di Berlino, la Germania ha senza dubbio costituito il cuore dell’UE nonché il suo timone, modellandola sulle necessità della sua borghesia che aveva bisogno di un grande mercato di sbocco delle sue merci, quindi in buona sostanza obbligando di fatto gli altri paesi a seguire un modello export-oriented, sia intra- che extra-europeo.

La piena unità di intenti è stata però trovata su un altro fronte, altrettanto decisivo per il Capitale globale: lo strumento dell’UE è stato infatti molto importante per raggiungere un obiettivo che le borghesie di tutta Europa avevano perseguito da decenni, ovvero la sconfitta del movimento operaio organizzato, la distruzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e la drastica riduzione del loro salario, compreso quello differito con la fine del sistema pensionistico retributivo, l’annichilimento dei servizi pubblici e la privatizzazione delle aziende statali e un forte aumento dell’esercito industriale di riserva. C’è da dire che riguardo a quest’ultimo aspetto, hanno avuto una grossa mano, e con loro tutte le borghesie dei paesi a capitalismo storico, dall’ingresso della Cina nel WTO nel 1997, che ha di fatto spianato la strada alla messa diretta in concorrenza di milioni di salariate/i su scala internazionale, esercitando una pressione già peraltro intensa a causa dell’esistenza di un vasto esercito industriale di riserva tra le classi lavoratrici occidentali, frutto della controrivoluzione liberista.

Che cosa è la Unione europea?

Benché sia comune in alcune aree della sinistra identificare l’Unione Europea come polo imperialista, ciò non corrisponde a un’esatta definizione di questa istituzione. L’UE è costituita di diversi imperialismi, maggiori o minori, che se ne contendono l’egemonia e la direzione a beneficio degli interessi della propria classe dominante. Si tratta piuttosto di un processo intimamente contraddittorio su cui ognuno dei maggiori imperialismi europei vorrebbe imprimere il proprio marchio. Per ora ci è sostanzialmente riuscita la Germania, servendo in primo luogo gli interessi delle sue grandi imprese. Non è possibile entrare qui nel discorso molto complesso relativo a quei giganteschi monopoli a dominante finanziaria comunemente noti come multinazionali, che si sviluppano in una dialettica costante con la forma e la struttura degli Stati nazionali, tendendo costantemente alla rescissione del legame con lo Stato, ma non potendone sostanzialmente fare a meno per la riproduzione globale del modo di produzione che ne consente l’esistenza. Per questo, con particolare attenzione all’Unione Europea, rimandiamo a due articoli di Alain Bihr pubblicati recentemente sul nostro sito:

Le radici della Brexit

Non è facile discendere nelle profondità dei movimenti strutturali del Capitale e districarsi nelle tendenze fondamentali che, oltre la superficie, hanno caratterizzato questo voto. Per non cadere nello schematismo, va precisato che le risultanti di processi di grande portata non sono unicamente ravvisabili nel movimento dell’economia capitalistica, in una sequenza lineare e meccanica ascendente alle grandi questioni politiche (la vecchia, abusata, quanto fraintesa, dicotomia struttura/sovrastruttura), ma è pur vero che, in particolare nel contesto in cui è maturata la Brexit, è possibile comprendere meglio le posizioni politiche emerse nel corso della campagna referendaria a partire dal quadro determinato dallo scontro tra le diverse frazioni di classi dominanti britanniche e dai loro divergenti interessi.

Nessuno dei due campi, Remain e Leave, è stato un terreno liscio e privo di asperità ma ha rappresentato l’intersezione di diverse spinte, spesso anche divergenti e opposte, in cui si sono condensate le tensioni che attraversano, in forme diverse, l’Unione Europea e che si sono manifestate in forma peculiare in Gran Bretagna, per la particolare posizione che questo paese ha avuto all’interno di questo processo: non ha mai fatto parte del “cerchio interno” dei paesi dell’Unione, non ha adottato l’Euro, l’interesse verso la “integrazione” europea non è mai stato politico ma sempre solo ed esclusivamente per l’accesso libero al mercato unico, in particolare come fornitore di servizi finanziari e assicurativi, ed è stato di fatto il primo paese europeo a introdurre una massiccia dose di controriforme neoliberiste, ben prima che queste fossero moneta corrente nell’insieme dell’Unione. Si può dire che, insieme agli Stati Uniti, la sua grande borghesia abbia “pioneristicamente” percepito la necessità di un’offensiva generale contro il mondo del lavoro salariato, senza per questo doversi servire di alcun diktat di un’istituzione sovranazionale…

Diverse linee di frattura hanno quindi intersecato i due campi, sovrapponendosi e confliggendo all’interno del medesimo spazio, ed è per questo che di fronte a una complessità così evidente il mero dato sociologico, che qualcuno intende utilizzare come puntello dell’affermazione che la Brexit sia tout court l’espressione del rigetto da parte delle classi popolari delle politiche di austerità dell’Unione Europea, è insufficiente a dar conto delle dinamiche politiche che hanno caratterizzato questo referendum.

Benché sia infatti vero che gran parte del voto a favore dell’uscita provenga da aree particolarmente colpite dalle politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni in cui la composizione sociale operaia è maggioritaria e che questo voto esprima in modo istintivo la rabbia per la propria drammatica condizione, è anche vero che il voto contrario all’uscita abbia visto una percentuale non irrilevante di voto proveniente dalla classe lavoratrice, con una differenza non trascurabile tra aree metropolitane e aree “rurali” (senza tralasciare le differenze tra il voto delle aree centrali nelle grandi città e quello delle periferie, soprattutto a Londra).

Ma sopra questo tipo di considerazioni, si ergono le caratteristiche della campagna referendaria, la cui cifra dominante è stata indubbiamente l’avversione all’immigrazione, un più serrato controllo degli ingressi nel Paese, anche quelli di provenienza comunitaria, con punte di forte xenofobia, se non di aperto razzismo. Non è possibile dimenticare che questa consultazione è stata voluta fortemente da ambiti conservatori, in primisl’ex premier Cameron, che sperava in un risultato che gli consentisse di strappare ulteriori concessioni a Bruxelles, continuando a beneficiare dell’accesso al mercato unico ma riducendo ancora di più dei pur deboli vincoli di alcuni ambiti della legislazione comunitaria, non ultima quella relativa all’immigrazione e al libero movimento delle persone. Non è da escludere che in caso di vittoria del SI avrebbe anche ottenuto ulteriori concessioni.

Si è trattato di un azzardo finito male, non v’è che dire, ma che ha consentito anche ad ambienti filoliberisti ancora più aggressivi di puntare credibilmente sulla Brexit, sfruttando la condizione sociale disastrata della classe lavoratrice in Gran Bretagna, e indirizzando la rabbia e il forte malcontento sul capro espiatorio dell’immigrazione, sia comunitaria che non comunitaria.

Contro la UE ma non contro l’austerità

La peculiarità di questa vicenda, che fa piazza pulita di ogni schematismo economicistico, è che il rigetto della condizione di grave insicurezza sociale da parte di ampi strati di lavoratori e lavoratrici si sia manifestato in una forma espressione dell’egemonia ideologica delle classi dominanti e di loro frazioni, le quali hanno giocato in un campo politico sostanzialmente sgombro da un orientamento contro l’austerità, le politiche liberiste e i trattati antisociali dell’Unione Europea, che rappresentasse quindi gli interessi fondamentali della classe lavoratrice nel suo complesso in questa fase storica.

In realtà, in questa campagna si è giocata una partita che ha escluso fin dall’inizio l’angolo di visuale degli interessi della classe lavoratrice. Come già sottolineato, lo scontro si è dipanato sulle direttrici della lotta fra tendenze conflittuali interne al perimetro delle classi dominanti britanniche: per comodità, da un lato quella “liberoscambista”, dall’altro quella “protezionista”.

Il referendum è stata infatti l’occasione in cui entrambe hanno visto la possibilità di segnare punti a proprio favore e ridefinire la posizione della Gran Bretagna all’interno della divisione internazionale del lavoro e del mercato globale, e ha mostrato una lotta che in realtà attraversa, in forme e misure diverse, tutti i paesi imperialisti, non ultimo gli Stati Uniti, dove è una delle chiavi di lettura dello scontro tra Hillary Clinton e Donald Trump.

È del tutto evidente che non vi sia trasposizione meccanica tra le tendenze fondamentali della lotta di classe e la manifestazione politica ed ideologica di questa stessa lotta, le quali sono leggibili solo a partire dai rapporti generali esistenti tra tutte le classi della società, dalla posizione di un Paese nel mercato globale, dalle caratteristiche della sua industria, dalla composizione di classe del suo proletariato e dalle relazioni della sua borghesia con le altre frazioni della borghesia mondiale. È questa la ragione dell’eterogeneità di entrambi gli schieramenti in cui i liberoscambisti, così come i protezionisti, hanno trovato posto a seconda della migliore capacità di preservare e promuovere i propri interessi di fondo rispetto ai diversi settori industriali e/o finanziari di riferimento. Il punto è la capacità effettiva che queste tendenze hanno di coagulare attorno ad esse un blocco sociale in grado di stabilizzare il dominio politico della classe o della frazione di classe egemone, e in una fase di notevole instabilità causata dall’acutizzazione dello scontro in atto, esacerbato peraltro dalla perdurante crisi economica, ciò risulta abbastanza problematico (il che contribuisce a spiegare la fibrillazione nei due maggiori partiti britannici, i Tories e il Labour, con motivazioni e dinamiche affatto diverse, ma non entreremo qui in questo discorso lungo e complesso. Sia detto di sfuggita, il fenomeno Corbyn va guardato con grande interesse, perché rappresenta la reazione contro la governance liberista del Labour e punto di riferimento per centinaia di migliaia di persone che ne hanno abbastanza dell’austerità).

La Brexit e le classi sociali

In questo calderone, il ruolo della piccola borghesia declassata che, come in moltissimi altri paesi è in profonda crisi esistenziale, ha fornito buona parte dell’arsenale ideologico che ha esercitato un’influenza anche sulla classe lavoratrice. Peraltro le posizioni delle “classi medie” sono suscettibili di un’alleanza con quelle frazioni di classe dominante che hanno sposato o stanno sposando politiche protezioniste, in crescita nonostante il discorso della liberalizzazione commerciale domini la retorica politica mainstream. Anche la classe lavoratrice potrebbe essere attratta dalle sirene del protezionismo, costituendo il terzo polo di questo possibile blocco sociale.

La classe lavoratrice, appunto, anch’essa stratificata e diversificata non meno che le classi dominanti, non è riuscita ad esprimere un punto di vista politicamente autonomo ed indipendente che ne consentisse l’unità su interessi storicamente alternativi a quelli dei suoi avversari. Ciò non è avvenuto certo per sua “colpa”, come alcuni, per fortuna pochi, pseudosinistri, in buona compagnia dei tecnocrati dell’UE, paiono voler indicare rimproverandole il voto per la Brexit e in alcuni casi invocando addirittura limitazioni al diritto di voto e al suffragio universale. Questa situazione affonda in ultima analisi le radici nella sconfitta del movimento operaio ai tempi della Thatcher, nella social-liberalizzazione del Partito Laburista e nell’incapacità collettiva della sinistra di classe di vincere settarismi, primogeniture, ideologismi fuori tempo massimo e di costruire radicamento nelle aree popolari, superando una dimensione prevalentemente propagandistica dell’azione politica. Non molto diverso da quanto è successo in altri Paesi europei, non ultimo l’Italia (con esiti diversi, però).

L’assenza di una prospettiva internazionalista

Il problema più grosso, che molti fingono di non vedere e che la Brexit ha mostrato, è che spesso si scambiano lucciole per lanterne: il punto non è sposare di volta in volta questa o quella espressione politica di una delle parti in conflitto all’interno del campo delle classi dominanti, magari perché superficialmente ha parole d’ordine che possono apparire coincidenti con le nostre, bensì lavorare per aiutare nella costruzione di una soggettivazione politica delle classi subalterne che rifiuti false alternative e costruisca il suo percorso e le sue opzioni in totale indipendenza.

Questa alternativa oggi non può che passare per l’ edificazione di un nuovo internazionalismo del lavoro salariato.

In tutta evidenza, quanto accaduto in Gran Bretagna non va in questa direzione, né sostiene questa opzione. Pur con tutte le migliori intenzioni, la Lexit, ovvero la campagna per un’uscita da sinistra dall’UE, si è rivelata in questo contesto una tragica illusione. Il rifiuto dell’establishment, che questo voto pure ha indubbiamente espresso, può avere direzioni ben diverse, finanche opposte.

La Brexit, così come si è concretamente realizzata, rafforza infatti la destra, quella liberista come quella xenofoba e populista in tutta Europa. La parola razzista è entrata prepotentemente tra gli ordini del discorso accettati nel mainstream, benché ipocritamente si tenda a negarlo da parte dei partiti politici dell’establishment britannico (ed europeo).

Essere padroni in casa propria è stato il vero sfondo su cui si è costruita la campagna xenofoba e contro i migranti, ed è stata la cifra dominante contro la UE. Solo che questo recupero della “sovranità nazionale” ha poco a che vedere con la spinta verso una “sovranità sociale” ma sostanzia il discorso politico nazionalista e reazionario delle destre europee, comprese quelle radicali, e riduce ulteriormente in questa fase l’indipendenza culturale e politica delle classi lavoratrici, non ultima per la buona ragione che non ci sono strumenti politici, sindacali e organizzativi validi o abbastanza forti che sostanzino questa indipendenza nella pratica della lotta di classe e del conflitto sociale. Senza contare che l’esito del referendum approfondirà almeno sul breve termine la divisione delle classi lavoratrici su scala europea.

Francamente non si vede proprio quale vittoria si possa cantare in questo contesto.

C’è uscita e uscita

Ciò rimanda anche a una valutazione di ordine più generale: non tutte le “uscite” sono uguali.

Benché l’obiettivo debba essere quello di abolire i trattati e rompere il quadro istituzionale di quell’associazione di stati-nazione condotta sotto l’egemonia di alcuni stati imperialisti che va sotto il nome di Unione Europea, la tattica non può essere espressa rigidamente in ogni luogo e in ogni tempo.

Facciamo un salto indietro di un anno: non è azzardato sostenere che la Brexit, per come si è concretamente espressa nel voto del 23 Giugno, sia una delle conseguenze venefiche della capitolazione del governo Tsipras e di Syriza ai diktat dell’Unione Europea che hanno stritolato il Paese nel Luglio del 2015. Non v’è dubbio che, in quella circostanza, l’obiettivo della rottura con l’Unione Europea non era solo praticabile, ma desiderabile se si voleva dare seguito concreto alla speranza di fuoriuscita dalle terribili politiche di austerità che avevano distrutto socialmente un Paese (e continuano a farlo). In quell’occasione però il contesto era affatto diverso da quello britannico: l’iniziativa era in mano alle classi lavoratrici e ai movimenti sociali, e Syriza esprimeva una capacità egemonica molto forte che di fatto direzionava il processo politico. Esattamente l’opposto della situazione del referendum britannico. Una rottura, in quelle difficilissime condizioni, avrebbe costituito una potente chiamata alle armi per tutti i lavoratori, le lavoratrici e i movimenti sociali del continente, e avrebbe probabilmente gettato le basi per una nuova pratica internazionalista in cui le forze antagoniste al Capitale avrebbero avuto la possibilità di costruire una rete di protezione intorno alla Grecia in rivolta, nonché di cominciare a contendere l’egemonia alle forze del capitalismo europeo. E invece la sconfitta in Grecia ha causato ulteriore demoralizzazione, depoliticizzazione, passivizzazione e riflusso, che ha poi aperto gli spazi per l’affermazione delle destre radicali e populiste come unica “alternativa” credibile allo sprofondamento delle proprie condizioni di vita.

Se bisogna “fare l’analisi concreta della situazione concreta”, allora non si può evitare di riconoscere la differenza fondamentale tra i due processi, e le diverse dinamiche che avrebbe potuto scatenare l’uno, in cui si inserisce l’altro.

La Brexit ci costringe a riflettere anche su un altro punto decisivo: se è vero che l’Unione Europea è irriformabile ma al tempo stesso non ci sono formule schematiche applicabili in ogni momento, bisogna però cominciare a discutere su quale configurazione istituzionale dell’Europa che vogliamo. Se in larga misura sarà la prassi concreta di lotta e conflitto su scala continentale, nell’articolazione e nell’intreccio dialettico tra i diversi livelli (aree metropolitane, piano nazionale, piano transnazionale, luoghi di lavoro) a porre le basi per nuove istituzioni che sostituiscano quelle attuali, non è cassabile una discussione specifica tra le forze radicalmente alternative all’austerità, al liberismo e al capitalismo su scala europea che sostenga e contribuisca a creare le condizioni di possibilità di questo processo.

A tal fine, la collaborazione sempre più stretta, integrata e permanente tra queste forze (organizzazioni politiche, movimenti sociali, organizzazioni sindacali) su scala continentale sarà necessaria e indispensabile a partire da subito.

Non possiamo attendere oltre.