Pubblichiamo il Quaderno Nr. 1/2016 a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo. Con questo saggio inizia l’attività di formazione on-line da parte del Centro Studi. Si prevede la pubblicazione a cadenza almeno mensile di documenti che in qualche modo inquadrino in modo semplice il problema della necessità di redistribuire il lavoro.
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Meno lavoro o più lavoro nell’età microelettronica?
Un problema annoso ancora irrisolto
di Giovanni Mazzetti
Il presente saggio, di marzo 2016, Meno lavoro o più lavoro nell’età microelettronica?, riprende un tema che è stato recentemente approfondito dal libro di Riccardo Staglianò Al posto tuo (Einaudi 2016), nel quale è stata fornita una forte conferma della tesi a suo tempo enunciata nelle ricerche del Centro. In un serrato confronto con le tesi di Adam Schaff e di Paola Manacorda, si cerca di rispondere al quesito posto dal titolo, dimostrando che la società incontrerà crescenti difficoltà a riprodurre il rapporto di lavoro salariato. Le vicende degli ultimi trent’anni dimostrano la fondatezza di questa ipotesi, ulteriormente suffragata della moltitudine di esempi contenuti nel lavoro dello Staglianò.
Una varietà di teorie, una contraddizione o un malinteso?
Possono due studiosi che fanno riferimento ad un medesimo sistema teorico, giungere a conclusioni addirittura opposte nell’analisi delle conseguenze di lungo periodo del diffondersi della microelettronica? In altre parole, è giusto che esistano molte e diverse teorie dell’età microelettronica o è possibile e necessario giungere ad un’unica teoria, pur con le inevitabili differenze di accento su questo o quell’aspetto del problema, su questa o quella mediazione? E cioè, il giungere a conclusioni analitiche opposte, pur battendo la stessa via, non è forse il segno di una contraddizione nella rappresentazione teorica che le sostiene?
E se non è così, non è allora il frutto di un particolare modo di rapportarsi alla teoria con il quale si estrae dalla totalità che essa rappresenta un suo aspetto unilaterale con la pretesa di farlo valere come totalità contro un altro aspetto, ingenerando così grande confusione?
Questi sono gli interrogativi di fondo che emergono dalla lettura del libro di Paola Manacorda, “Lavoro e intelligenza nell’età microelettronica“, pubblicato a suo tempo da Feltrinelli. La Manacorda prende, infatti, come riferimento emblematico per una dura critica della “mancata analisi dei meccanismi attraverso i quali l’innovazione tecnologica (microelettronica) nasce, si diffonde, incide sull’occupazione e sul tempo libero, sulle condizioni di vita e di lavoro”, oltreché del “modo superficiale e distorto” in cui il grande pubblico “viene sensibilizzato” a tale problema, il breve scritto che A. Schaff ha apposto come capitolo conclusivo alla ricerca interdisciplinare da lui curata con F. Friedrichs per il Club di Roma e pubblicata dalla EST Mondadori nel 1982 con il titolo “La rivoluzione microelettronica“.
Ora, è noto che Schaff è uno studioso marxista, ed è evidente, dalle argomentazioni che sviluppa nel suo scritto, che articola la sua analisi con un presunto riferimento a Marx. D’altra parte, la Manacorda è a sua volta convinta, e lo dice esplicitamente nell’introduzione, che il substrato teorico generale delle sue argomentazioni contro Schaff vada ricercato in Marx. Personalmente ritengo che una teoria che permetta di giungere a conclusioni contrapposte sullo stesso fenomeno non abbia alcun diritto di sopravvivenza. Ma sono anche convinto che la teoria della società in cui viviamo elaborata da Marx sia, invece, una teoria non contraddittoria e ci permetta di rappresentare con grande efficacia il nocciolo del mondo sociale nel quale siamo immersi, e ciò al di là delle mode ad essa favorevoli o contrarie. In altre parole, ritengo che la Manacorda e lo Schaff siano approdati a conclusioni opposte sul rapporto tra microelettronica e lavoro a causa di alcuni malintesi teorici che possono e debbono essere chiariti. Cerchiamo di farlo in questa sede.
Meno lavoro o più lavoro?
Il primo e centrale argomento di dissenso tra la Manacorda e lo Schaff ruota intorno ad un problema vitale per la nostra epoca: l’introduzione su vasta scala della tecnologia elettronica causerà o meno una diminuzione delle possibilità di lavoro? E cioè, l’automazione “ruba” o no lavoro agli esseri umani?
Sul fatto che i meccanismi automatici che si stanno introducendo “rubino” lavoro, la Manacorda è d’accordo, ma aggiunge: che ciò accade solo transitoriamente. A suo avviso, dopo un intervallo più o meno lungo di tempo, il sistema è sollecitato a “produrre” nuove occasioni di lavoro. Ciò accade per “il raggiungimento di un limite di efficienza nel coordinamento della specifica sostituzione di lavoro umano con sistemi automatici che ha avuto luogo nel periodo precedente”. Per descrivere questo fenomeno la Manacorda fa riferimento ad un “modello a clessidra”, capace di rappresentare il processo di restringimento-strozzatura-allargamento che ha in mente. La sua convinzione è, dunque, che coloro che sostengono che la disoccupazione sia destinata a crescere stabilmente estrapolino arbitrariamente “da fenomeni locali tendenze generali”, si limitino ad aggrapparsi “all’evidenza empirica immediata”, vedano la realtà “in modo schematico”.
Schaff, dal canto suo, era stato altrettanto perentorio: “la microelettronica”, aveva detto, “cambierà il ruolo del lavoro nella vita umana, diminuendone la necessità e, in qualche caso, eliminandola totalmente. Ciò solleverà il problema di come rimpiazzare il tradizionale ‘senso della vita’, che, specialmente nelle società industrializzate del Nord, è strettamente collegato per gli esseri umani al lavoro. Si potrebbe certamente dire: lasciate stare questa gente, essi troveranno il loro stile di vita. Ma questo punto di vista può andare bene soltanto per quanti capiscono poco o nulla della psicologia umana”.
L’elemento chiave che contrappone la Manacorda a Schaff è, dunque, il seguente: Schaff crede di poter individuare nella nostra epoca un momento critico al di là del quale la ripetizione del “processo a clessidra”, di restringimento e ampliamento dei posti di lavoro in conseguenza dell’innovazione tecnologica, non può più verificarsi, mentre, secondo la Manacorda, siamo solo nella fase transitoria della strozzatura e il processo di restringimento e allargamento può continuare a verificarsi indefinitamente, come si è già verificato in passato.
Espansione dei bisogni ed espansione del lavoro
La Manacorda cade in un primo evidente fraintendimento quando cerca di afferrare la natura del limite che, secondo Schaff, si frapporrebbe nel prossimo futuro ad una nuova espansione del lavoro. A suo avviso, la posizione di Schaff sarebbe tra quelle “millenaristiche”, in quanto fa scaturire la difficoltà di creare lavoro dalla presunta capacità che avrebbe la microelettronica di “sconvolgere non tanto un ordine sociale, quanto un ordine umano, liberando l’uomo dalla schiavitù del bisogno.”(p. 32)
In realtà, però, Schaff si è limitato a sostenere che “nessuno, conoscendo la tendenza generale, può negare che ci sarà minor necessità di lavoro fisico, che le ore di lavoro nella produzione e nei servizi tradizionali saranno sempre di meno, entro venti o trenta anni, quando i bambini che nascono oggi saranno attivi nella società.(pag. 308) In altre parole, per Schaff, le attività messe in moto per soddisfare quei bisogni che hanno dominato la vita riproduttiva nel passato e ancora ai nostri giorni sono destinate ad assumere via via un peso relativo notevolmente inferiore, e per questo le possibilità di lavoro diverranno sempre meno. Da questo discorso la Manacorda desume, tuttavia, qualcosa di diverso e cioè che Schaff giunge a quelle conclusioni perché “considera i bisogni come una quantità finita”.(p. 34)
Ora, una simile deduzione non sembra affatto condivisibile. L’ipotesi di Schaff, che si possa e si debba espandere un’attività produttiva sostitutiva del lavoro, ha infatti un senso solo perché si fonda implicitamente su una rappresentazione del sistema dei bisogni come sistema aperto. E’ vero che Schaff suppone anche che i bisogni sui quali dovrebbe poggiare questa attività debbono essere “prodotti”, e cioè che si tratta di bisogni che non si presentano spontaneamente, ma è difficile credere che la Manacorda possa far riferimento ad un sistema dei bisogni contraddistinto da una originaria illimitatezza. Infatti, nella concezione marxiana, alla quale la Manacorda fa riferimento, la storia umana non è altro che il processo della continua produzione di nuovi bisogni, e l’uomo “ricco di bisogni”, che l’economia politica pone, ingenuamente, all’inizio della storia, è solo il risultato di un complesso e continuo processo di sviluppo, che non si è ancora compiuto e che non si può compiere mai definitivamente. Il sistema dei bisogni è, dunque, aperto solo nel senso che ne vengono continuamente elaborati di nuovi, e non nel senso che esso è sin dall’inizio un insieme illimitato.
Il fraintendimento della Manacorda è, probabilmente, dovuto al fatto che effettivamente Schaff fa riferimento al drastico ridimensionamento di un insieme di bisogni che ha sinora costituito il nucleo capace di mettere in moto la maggior parte dell’attività produttiva. E, infatti, quando si riferisce alla scomparsa del “tradizionale senso della vita”, Schaff ha evidentemente in mente una situazione nella quale la penuria materiale non è più la condizione oggettiva che sottende la gran parte dell’attività produttiva. “Quando parliamo di gente disoccupata nella società futura”, afferma ad esempio, “dobbiamo essere ben coscienti del cambiamento di significato della parola disoccupato…. Il disoccupato, diversamente da oggi, avrà tutte le proprie esigenze materiali soddisfatte e non soffrirà materialmente dello stato di disoccupazione. Il solo elemento assente sarebbe il lavoro. Se la società non offre loro delle alternative reali li condannerà necessariamente, alla patologia”.(p. 314) Ma questo ragionamento non implica affatto che il bisogno scompaia. Ciò che tende ad essere drasticamente ridimensionato, semmai, è il bisogno dettato dalla necessità esterna, al quale il singolo deve piegarsi se vuole riprodurre se stesso e il suo ambiente immediato. Ma questa scomparsa si accompagna alla possibilità dell’emergere di un altro tipo di bisogni con caratteristiche diverse.
Questa rappresentazione che Schaff offre delle tendenze attuali è pienamente coerente con l’approccio marxiano, che si fonda, da un lato, sull’ipotesi di una continua espansione dei bisogni materiali, accompagnata, però, da una più che proporzionale crescita della capacità di soddisfarli, e, dall’altro, dell’emergere di un insieme di bisogni qualitativamente diversi rispetto ai primi. “Come il selvaggio deve lottare con la natura”, si legge ad esempio nel Capitale, “per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni”.1 “II grande ruolo storico del capitale”, precisa Marx nei , “è di creare … lavoro superfluo dal punto di vista del semplice valore d’uso, della pura sussistenza; e la sua funzione storica è compiuta quando, da un lato, i bisogni sono talmente sviluppati che il pluslavoro al di là del necessario diviene esso stesso un bisogno generale, scaturisce cioè dagli stessi bisogni individuali, dall’altro la generale laboriosità, mediante la rigorosa disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, è divenuta un possesso generale della nuova generazione. Infine, la sua funzione storica è compiuta quando tale laboriosità, mediante lo sviluppo delle forze produttive del lavoro – che il capitale, nella sua illimitata brama di arricchimento e nelle condizioni in cui esso solo può realizzarlo, sferza costantemente ad andare avanti – è a tal punto matura che, da una parte, il possesso e la conservazione della ricchezza generale esigono un tempo di lavoro inferiore per l’intera società, e dall’altra parte la società lavoratrice affronta scientificamente il processo della sua progressiva e sempre più ricca riproduzione; e quindi cessa il lavoro in cui l’uomo fa ciò che può lasciar fare alle cose in vece sua. … Nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo”.2
L’ipotesi marxiana è, dunque, che il superamento “dei limiti dei bisogni naturali” non comporti affatto la “chiusura del sistema dei bisogni”. E però, tale superamento determina anche un mutamento qualitativo della situazione sociale, perché altrimenti Marx non avrebbe potuto parlare affatto, in relazione ad esso, di un “esaurimento della funzione storica del rapporto del capitale”.
La distinzione tra attività e lavoro
L’argomento centrale dell’analisi di Schaff era da lui stato specificato nel modo seguente: “l’automazione totale eliminerà, nel lungo periodo, gran parte del lavoro umano, nel senso tradizionale del termine”. Ed aveva aggiunto: “che cosa significa questa precisazione e perché, l’abbiamo aggiunta? La ragione è che siamo convinti che anche la più totale automazione della produzione e dei servizi, pur eliminando il lavoro, umano, non potrà eliminare ogni tipo dì attività umana”.(pag. 309)
Ora, proprio perché in questa distinzione che cerca di far valere tra “attività” e “lavoro” Schaff è purtroppo confuso, trascina con se’ nella confusione anche la Manacorda, che si vede giustamente sollecitata a mettere in discussione la distinzione stessa. Vediamo in che modo Schaff cerca di sostenere il suo argomento: “Per capire il senso di questa affermazione definiamo meglio la parola «lavoro». Con essa intendiamo, in accordo con il significato corrente, l’attività umana intesa ad ottenere un certo effetto nella produzione (di beni) e nei servizi (soddisfazione di certe esigenze umane) attraverso la spesa di energie fisiche e mentali. Su questa base distinguiamo il lavoro in manuale ed intellettuale. Nel caso della società basata sullo scambio di merci e sulle prestazioni di lavoro, la definizione deve includere l’intenzione di guadagnare denaro in cambio delle opere prestate”. (pag. 309) Qui è evidente che si accavallano, confondendosi, due differenti definizioni di lavoro: quella astratta, che è solo sinonimo di produzione in generale e che, riferendosi a qualsiasi pratica di produzione a prescindere dalla sua particolarità storica e sociale, in realtà le include tutte e, dunque, non ne definisce nessuna, e quella concreta (il lavoro salariato) che si riferisce, invece, ad una specifica forma della produzione sociale, quella dominante oggi. E’ vero che nel momento in cui Schaff va ad indicare di quale lavoro sta parlando, quando afferma che esso non potrà espandersi nell’età microelettronica, fa riferimento alla seconda categoria, ma non in maniera sufficientemente limpida da risolvere la confusione precedentemente creata. Così, ad esempio, quando cerca di dare un’idea delle attività che dovrebbero “sostituire” il lavoro, si esprime in questi termini: “non tutte le attività sono lavoro, perché non tutte sono intraprese con l’intenzione di guadagnare denaro attraverso la produzione di beni volti al soddisfacimento delle esigenze materiali della vita umana o attraverso lo svolgimento di qualche servizio: può trattarsi di un’attività creativa (artistica, scientifica, ecc.) oppure di un’attività destinata ad occupare il tempo libero”.(p. 309)
Da questa descrizione, la Manacorda fa giustamente scaturire la convinzione che l’attività di cui parla Schaff sia un’attività “disinteressata” nel duplice senso che, non solo non sarebbe svolta per una retribuzione, ma nemmeno per soddisfare bisogni di altri, cioè che essa non solo non sarebbe lavoro salariato, ma nemmeno lavoro in generale. Si tratterebbe, semmai, di un’attività di puro spasso, di divertimento, nella quale la soddisfazione potrebbe presentarsi unicamente dal lato di colui che la pone in essere. In altre parole, proprio perché Schaff non riesce a definire concretamente, nella loro specifica forma produttiva, le “altre attività” che contrappone al lavoro, ma parla vagamente di “uso del tempo libero” o, addirittura, di “attività scientifiche”, cioè di attività che vengono oggi egregiamente svolte nella forma del lavoro salariato, confonde in qualche modo le acque, e permette alla Manacorda di riferirsi al lavoro del quale egli parla, non come il lavoro concreto del quale facciamo esperienza nella nostra vita sociale contemporanea, bensì del lavoro come generica attività di soddisfazione dei bisogni. E’ per questa inconsistenza pratica della categoria schaffiana delle “altre attività” che la Manacorda può desumere, dal fatto che il sistema dei bisogni è un sistema aperto, la convinzione che il lavoro stesso non possa mai perdere strutturalmente di peso.
Automatizzabilità e lavoro
L’argomento centrale con il quale la Manacorda respinge la tesi di Schaff e fonda la sua teoria dell’espandibilità del lavoro è il seguente: “Presupporre che quasi tutto il lavoro, inteso come strumento di soddisfazione dei bisogni, degli uomini sia incorporabile nelle macchine, significa considerare i bisogni, e quindi il lavoro necessario a soddisfarli, come una quantità finita. E’ chiaro, ed è una banalità ripeterlo, che il sistema dei bisogni non è finito, è storicamente determinato, e quindi il lavoro necessario a soddisfarli non può essere considerato finito. In particolare, dividere, come fa Schaff, attività che di per se’ possono essere automatizzate da altre che non potrebbero esserlo è un’ingenuità, perché questa distinzione non attiene alla tipologia e natura delle attività, ma solo al grado con il quale gli uomini sono capaci di modellizzarle e di riprodurle. Nemmeno l’attività che sembrava sfuggire per definizione alla meccanizzazione, quella riproduttiva, di generazione della vita, sembra sottrarsi ai tentativi di comprenderla e riprodurla, e niente impedisce di pensare che, una volta perfettamente compresa, essa non possa essere riprodotta da macchine. Non esiste quindi un limite teorico alla possibilità di modellizzare e riprodurre attività umane, ma non esiste nemmeno una limite teorico alla necessità di creare continuamente altre attività … Sostenere, come sostiene Schaff, che questo meccanismo è diverso da quello della precedente rivoluzione industriale …. è di nuovo ingenuo”.(p. 34)
Di fronte alla vaghezza degli esempi concreti di Schaff e alla contraddittorietà del suo discorso teorico, fa bene la Manacorda a condurre l’argomento alle sue estreme conseguenze e a mostrare che, sulla base delle sue ipotesi di partenza, le conclusioni alle quali Schaff giunge sono indimostrate. E, tuttavia, la Manacorda ha torto in rapporto all’argomento in se’. Sbaglia, cioè, quando liquida frettolosamente la distinzione che Schaff cerca di articolare e che lei, giustamente riconduce alla distinzione tra attività automatizzabili e non automatizzabili. Ciò implica, come vedremo, che non è vero che “non esiste un limite alla possibilità di modellizzare e riprodurre attività umane”.
La Manacorda può credere in questo perché riduce la questione ad un problema di “capacità tecniche” – per la generazione artificiale della vita umana su vasta scala sarebbe sufficiente, ad esempio, che questa venisse “perfettamente compresa” – la pone cioè come fatto tecnico. Per questo riesce a cogliere la continuità tra la prima “rivoluzione industriale” e la “rivoluzione microelettronica”, mentre le sfugge la discontinuità che sta emergendo. Il modo di argomentare di Schaff, tuttavia, è confuso proprio perché egli si sforza di sollevarsi al di sopra di questo livello di analisi; perché cerca di includere nella comprensione positiva della tendenza attuale anche la comprensione delle forze sociali che spingono verso la sua negazione. Il limite che egli intravvede, il problema del poter o non poter riprodurre un’attività umana come attività automatica, non riguarda l’automatizzabilità in se’, bensì questa automatizzabilità in relazione ai rapporti sociali dai quali scaturisce e agli effetti sociali che produce, vale a dire il verificarsi o meno di una sua contraddittorietà. In altri termini, questo limite è un limite alla produttività di questa sostituzione, non già alla sua possibilità materiale. Ad esempio, per valutare se la riproduzione artificiale della vita umana rappresenti il nostro possibile futuro non basta rilevare la sua possibilità tecnica, bisogna piuttosto esaminare le forze sociali che possono generare una simile pratica e gli effetti che essa eventualmente produce sul piano della soddisfazione.
Paradossalmente, nelle ultime pagine del suo libro, la stessa Manacorda introduce una considerazione che si muove proprio nella stessa direzione di Schaff, là dove sostiene che si assisterà ad una “progressiva perdita della capacità dei modelli astratti di rappresentare il reale, cioè l’esperienza” (p. 124). E, tuttavia, non si accorge di come l’eventuale verificarsi di una situazione del genere comporti inevitabilmente un incepparsi del processo riproduttivo, e cioè l’apparire di un limite a quell’allargamento del lavoro che la Manacorda ha presunto come senz’altro riproducibile, limitandosi a valutare ciò su un terreno meramente tecnico. In altre parole, è come se il concetto di contraddizione, al quale fa implicitamente riferimento l’analisi della Manacorda, non fosse affatto quello marxiano, che contiene sempre una sua dimensione pratica, una difficoltà riproduttiva materiale della società. La contraddizione si presenterebbe, semmai, su un piano politico puro, come questione che vive nella coscienza degli individui, con una connotazione sostanzialmente feurbachiana, mentre la difficoltà pratica, se dovesse apparire, sarebbe solo il prodotto di una igno-ranza.
II contenuto del lavoro
“Non esiste un limite teorico alla possibilità di modellizzare e riprodurre (automaticamente) attività umane”, sostiene perentoriamente la Manacorda. Ma, come dicevamo sopra, ha torto.
Per esaminare i motivi che spingono ad una simile valutazione dobbiamo procedere per gradi. Che cosa vuol dire, innanzi tutto, “modellizzare” e “riprodurre (automaticamente)” un’attività umana? “Quando un’attività deve essere automatizzata,” spiega con grande lucidità la Manacorda, “essa va innanzi tutto modellizata. Con questo termine si intende la costruzione di una rappresentazione astratta dell’attività che si vuole automatizzare; come tutte le modellizzazioni essa elimina dalla concreta attività alcuni parametri considerati non essenziali, e ne rappresenta in maniera astratta altri considerati costanti ed essenziali”. Nonostante questa descrizione, quanto mai chiara, del processo di astrazione, non sembra, però, che la Manacorda si renda ben conto di che cosa esso concretamente significhi sul piano sociale. È come se non riconoscesse cioè che, sul piano della pratica umana, “l’astrazione” consiste nell’eliminare dall’attività il fatto che essa è l’attività di un particolare individuo, e nella sua riduzione ad attività posta in essere da un qualsiasi individuo, di un essere umano che agisce a prescindere dalla sua specificità, come se fosse una forza impersonale.
Senza questo passaggio preliminare, che non è altro che il passaggio al trattare l’attività di una persona non come la sua attività, ma come un’attività retribuibile, scambiabile cioè contro denaro, il passaggio successivo, che è quello di adoperarsi per far sì che quello stesso dispendio di energia e quei movimenti siano svolti da un complesso automatico, non sarebbe neppure pensabile. Così, ad esempio, la Manacorda cita Aristotele per introdurre la sua critica alle teorie che ipotizzano “la fine del lavoro”, ma non si accorge di come Aristotele, per immaginare un movimento automatico degli utensili, abbia dovuto vedere degli “uomini” al lavoro nella loro posizione sociale di servi e di artigiani. Concepire la negazione dell’attività di quegli esseri umani gli era possibile perché Aristotele e le classi dominanti dell’epoca si trovavano in un rapporto che negava loro praticamente e teoricamente un riconoscimento come individui appartenenti alla loro stessa specie, cioè come persone. Fatto, questo, che precludeva la possibilità di una determinazione positiva particolare dell’attività che essi svolgevano.
Una rappresentazione teorica del tipo di quella elaborata da Aristotele sarebbe stata impensabile presso quei popoli nei quali la produzione materiale era (ed è) mediata dalla particolarità del loro legame comunitario. Gli abitanti delle Marchesi, descrittici da Linton, ad esempio, non avrebbero mai potuto immaginare di sostituire l’attività di tessitura delle stoffe dei loro consanguinei con congegni automatici, perché solo la consanguineità del tessitore attribuiva alle stoffe la caratteristica che consentiva il loro uso.3 II valore d’uso di quelle cose aveva cioè una connotazione sociale profondamente diversa dal valore d’uso di una stoffa prodotta come merce da un artigiano o da uno schiavo. E’ proprio perché c’è sempre un nesso tra la forma sociale assunta dall’oggetto e la forma sociale dell’attività che l’ha prodotto, che può emergere una sollecitazione alla sua sostituzione con meccanismi automatici. Là dove essa è mediata da un rapporto personale, era ed è impensabile.
Il modo perentorio in cui la Manacorda afferma che qualsiasi attività umana è prima o poi riproducibile attraverso sostituti automatici scaturisce, con ogni probabilità, da questa svista macroscopica, che fa sì che per lei l’attività materiale si presenti sempre come qualcosa di meramente oggettivo, di astorico. E’ bene soffermarsi brevemente su questo punto. “Non ha senso”, sostiene la Manacorda, “parlare come fa Schaff, di attività che potranno essere completamente automatizzate e di altre che non lo saranno mai. Esistono, in ogni dato momento, attività che per il loro grado di stabilizzazione e di relativa semplicità, sono state analizzate, modellizzate e infine automatizzate, ed esistono altri processi che a quel momento non hanno ancora subito questo processo e che potranno in futuro esserne investiti” (p. 43). In tal modo, però, le attività umane vengono erroneamente rappresentate come se fossero, e fossero sempre state, tutte di una medesima qualità, e l’unica differenza possibile consistesse nella loro maggiore o minore complessità, non nella loro struttura modale, storicamente differente da epoca a epoca.
D’altra parte, là dove la Manacorda sviluppa ulteriormente la sua critica a Schaff, sostenendo che “la discriminante (per quanto riguarda l’automatizzabilità o meno di un’attività) non è nel contenuto”, ribadisce questa lettura astorica della pratica produttiva degli esseri umani. Il “contenuto” viene da lei ridotto a tecnica, e la pratica sociale della produzione, che si intreccia con la tecnica, vive in sfere separate e non assume una dimensione concreta. In tal modo, però, la Manacorda diventa cieca nei confronti del modo in cui gli individui, producendo i loro mezzi di sussistenza, “producono” indirettamente la loro stessa vita sociale.
Per comprendere questa nostra critica è opportuno tornare a leggere il modo in cui la Manacorda descrive l’eventuale sostituzione delle attuali pratiche attraverso le quali gli uomini hanno riprodotto e riproducono la specie con processi automatici: “nemmeno l’attività che sembrava sfuggire per definizione alla meccanizzazione, quella riproduttiva di generazione della vita, sembra sottrarsi ai tentativi di comprenderla e di riprodurla, e niente impedisce di pensare che, una volta perfettamente compresa, essa non possa essere riprodotta da macchine”. Il contenuto dell’attività è qui palesemente solo la fecondazione di un ovulo da parte di uno spermatozoo, e la crescita del feto in ambiente idoneo alla sua esistenza. Le differenti azioni e le differenti motivazioni umane – le determinanti sociali e individuali! – che si intrecciano con questo “oggetto” e che sono in entrambi i casi parte integrante del processo materiale che la Manacorda denomina “generazione della vita”, non assurgono affatto anch’esse a contenuto. Scompare così la differenza tra l’essere, eventualmente, il marito o il compagno di una donna, e l’essere il medico che procede alla sua inseminazione, o la differenza tra l’essere genitori o l’essere – come nell’Huxley di Brave New World, degli “addetti all’equilibrio riproduttivo delle provette”. Tutti questi termini eterogeni vengono ridotti alla loro astrazione di “riproduttori della vita”.
Questo particolare processo di astrazione, al quale la Manacorda ricorre nella sua rappresentazione teorica, non è qualcosa di arbitrario e di puramente intellettuale. Si tratta, piuttosto, di una particolare manifestazione di quel processo di astrazione che, nel nostro mondo fatto di merci, pratichiamo momento per momento quando acquistiamo l’oggetto che soddisfa il nostro bisogno. Nella compera noi poniamo l’oggetto, il risultato, come unico valore, e astraiamo dai particolari processi umani attraverso i quali esso è stato ottenuto. Tanto è vero che siamo capaci di comperare le opere d’arte o gli oggetti sacri dei popoli primitivi, ne’ più e ne’ meno di come acquistiamo un’auto o una radio e, in prospettiva, potremo acquisire la capacità di comparare un figlio (magari con determinata caratteristiche geneticamente predeterminate).
L’elemento dinamico sottostante all’automazione
Tutte le attività umane sono automatizzabili, sostiene la Manacorda. Ma può giungere a questa conclusione erronea in quanto elude un interrogativo che non può e non deve essere eluso: perché e quando si verifica un fenomeno sociale come l’automazione? Affermando che il “quando” è determinato unicamente dal superamento di una difficoltà tecnica, la Manacorda suppone implicitamente che non ci sia un “perché” da esaminare, e cioè che la sostituzione di attività umane con processi automatici sia qualcosa di intrinseco, di connaturato alla produzione umana, il cui manifestarsi, quindi, non abbisogna di spiegazioni. In verità, c’è un luogo del suo libro nel quale dice fugacemente che l’automazione persegue lo scopo di un “aumento della produttività”(p. 45), ma è come se questa categoria fosse racchiusa negli asfittici ambiti nei quali l’ha formulata l’economia politica, invece di giocare il ruolo complesso che ha nel sistema teorico marxiano.
Alla base della sostituzione di alcune attività umane con processi automatici c’è il movente, quanto mai tangibile che quell’attività comporta un costo per colui che la mette in moto (che, si badi bene, non è immediatamente identificabile con colui che agisce nella produzione). La sostituzione di un’attività produttiva che non comporti un costo con un processo automatico è qualcosa di inconcepibile. In questo caso, semmai, la spinta è alla ripetizione dell’attività.
Per supporre che tutte le attività siano automatizzabili, e che quindi il limite intravvisto da Schaff non esista, è necessario supporre, consapevolmente o inconsapevolmente, che l’attività produttiva comporti inevitabilmente un costo, e cioè che si trovi sempre in una determinazione negativa nei confronti di chi la fa venire alla luce. Ora, è vero che l’idea dominante nella nostra epoca è questa. Tanto è vero che nella contabilità sociale in uso, quando si va a definire “l’ampiezza dell’area della produzione”, “in armonia con il pensiero economico dominante nei paesi ad economia di mercato”, si qualifica “la produzione come un flusso di beni e di servizi che derivi da ogni attività nella quale ci sia un impiego di fattori produttivi non per se stesso, non per diletto, ma per il risultato, per un qui pro quo”. Se, invece, l’attività “trova in se stessa la propria soddisfazione … si ottiene un risultato che non rientra nel concetto economico di produzione”. Ciò implica che se non c’è costo la nostra società non riconosce nemmeno l’esistenza di una ricchezza, che pure è venuta alla luce. Un padre che insegna ai propri figli l’inglese perché lo desidera, non sta insegnando nulla, a differenza del professore di inglese che lo fa per mestiere (e chiede un pagamento). Un bambino che viene allevato dalla propria madre non è un prodotto socialmente riconosciuto come tale, mentre un bambino allevato da una nurse o da una baby sitter, per la parte di tempo che queste vi dedicano è un prodotto (per il quale chiedono un pagamento).
La produzione non implica necessariamente un costo
Questa, appunto è la forma “normale” del nostro modo di sperimentare la realtà, tanto è vero che nessuno potrà mai far valere la propria attività di assistenza di un genitore ammalato per appropriarsi di una parte del prodotto sociale creato dagli altri. Essa può, però, farci cadere nella falsa convinzione, e questa sembra la convinzione della Manacorda, che il nesso sociale che sperimentiamo abbia un valore assoluto e cioè che noi non riconosciamo il prodotto di colui che assiste gratuitamente un malato non a causa di una nostra limitatezza, quanto piuttosto perché crediamo che quel prodotto puramente e semplicemente non ci sia. Ma in tal modo diverremmo ciechi non solo rispetto alla storia, ma anche nei confronti di una parte notevole della nostra realtà quotidiana.
Il perché di una simile conclusione è presto detto: un comportamento come quello descritto implica che si presuma (magari inconsapevolmente) che la forma normale del prodotto sia quella della merce e la forma normale dei rapporti umani sia quella del denaro, implica, dunque, la rappresentazione dei rapporti sociali odierni, che sono storicamente dati, come rapporti umani in generale, cioè come universalmente validi. Infatti, il rapporto di denaro emerge là dove un individuo, precedentemente legato ad altri individui da rapporti comunitari, fa qualcosa per un altro senza che in questa attività trovi una conferma dei propri scopi personali, e cioè senza che la particolare riproduzione di quell’individuo sia il suo scopo. Chiedendo di essere pagato per quello che fa, egli sottolinea la separazione reciproca che fa sì che quell’attività sia per lui un costo, e asserisce implicitamente che la sua attività non può essere immediatamente per l’altro, ma può esserlo solo se, in cambio della privazione di sé che egli sperimenta in essa, questa gli assicura un corrispondente ricavo.
Lo scambio di cose come equivalenti, che rappresenta l’embrione del più sviluppato rapporto di denaro, scaturisce proprio dalla necessità di una misurazione del valore delle cose scambiate, che consegue a sua volta dal non riconoscimento reciproco come persone particolari dei due individui o gruppi che se le scambiano. Là dove gli individui si riconoscono praticamente come persone particolari, e il motivo dell’uno è motivo anche per l’altro, non c’è, né può esserci, scambio di equivalenti. Il dare e l’avere non sono, infatti, contrapposti. Soffermiamoci sul punto.
Quando Paul Riesman, descrivendo la vita di un popolo dell’Alto Volta, i Peul, sostiene che in quella comunità “pagare qualcuno per un lavoro equivale ad insinuare o a constatare che non lo ha fatto per esservi utile … non è considerato un aiuto dato alla persona per cui si lavora ….è un venir meno all’essere Peul”4, definisce proprio una forma della produzione nella quale il particolare rapporto sociale che la media è rovesciato rispetto a quello che prevale oggi da noi. Parafrasando i criteri della nostra contabilità nazionale, potremmo dire che, in quella società, solo un’attività che è messa in moto come fine, che assicura in se stessa una soddisfazione, è considerata come produzione, mentre qualsiasi attività che implica un costo è considerata come non produttiva, in quanto non riproduttiva della comunità, e cade così nell’indifferenza sociale o incontra, addirittura, un’opposizione. D’altra parte, le popolazioni della Nuova Guinea descritteci da Malinowski in Argonauti del Pacifico Occidentale non avrebbero mai potuto pensare, fintanto che riproducevano positivamente la comunità, di sostituire le loro attività di abbattimento di un albero per fabbricare una canoa con l’uso di una sega a motore. Anzi un atto del genere sarebbe risultato come un atto sacrilego, e l’albero avrebbe perso con esso irrimediabilmente le caratteristiche necessarie per potersi trasformare in un secondo momento in una canoa. Anche dal punto di vista del rapporto con l’ambiente immediato esterno, dunque, non si riscontra affatto quell’atteggiamento, normale nell’individuo borghese, che pone la propria attività produttiva come dispendio di forza lavoro. Nemmeno da questo lato compare, quindi, la connotazione di costo dell’attività produttiva. Ciò è inevitabilmente connesso al fatto che l’uomo preborghese non tratta affatto la natura come mero oggetto, ma si avvicina ad essa come ad una realtà dotata di una propria soggettività, e che “interagisce” con lui su questo terreno. Bisogna giungere ad un avanzato sviluppo del rapporto mercantile affinché questa forma della coscienza e dell’esperienza lasci il terreno a quella alla quale siamo oggi abituati. La Manacorda può rappresentarsi l’estendersi dell’automazione come graduale processo cumulativo di accrescimento delle conoscenze e delle tecniche perché elimina tutto ciò; non coglie cioè che il restringersi del confine delle attività non automatizzabili, corrisponde al restringersi e al decadere delle passate forme della produzione sociale, e l’ampliarsi del confine delle attività automatizzabili non è altro che l’ampliarsi della produzione mercantile. Non vede, per dirla in maniera apodittica, come l’unico possibile destino del figlio in provetta è quello di essere comperato.
Quale riferimento a Marx?
Da quanto abbiamo detto fino ad ora risulterà evidente che riteniamo che, quando ha cercato di sviluppare la sua distinzione tra attività e lavoro, Schaff sia andato più vicino a Marx di quanto non ci sia andata la Manacorda. Tuttavia, è opportuno essere più precisi dell’indicare le ragioni di tale convinzione, se vogliamo individuare dei punti fermi di una possibile teoria dell’età microelettronica con un qualche riferimento a Marx.
La microelettronica è un prodotto umano e, come tale, non può sfuggire al generale rapporto che Marx teorizza tra gli esseri umani e i loro prodotti. L’enunciazione generale di Marx è molto semplice: non solo gli individui fanno il loro prodotto, ma anche il loro prodotto fa gli individui. Nel linguaggio del Capitale: “operando ….sulla natura fuori di se’ e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il gioco delle loro forze al proprio potere”.5 Ciò comporta che l’introduzione di ogni nuova forza produttiva, che non sia un’estensione puramente quantitativa delle forze produttive preesistenti, porta come conseguenza un cambiamento e, se in positivo, uno sviluppo degli esseri umani.
E’ noto che uno dei punti essenziali della marxiana concezione della storia è che gli agenti sociali non trasformano se stessi sulla base esclusiva della loro volontà, né tanto meno, in conseguenza di una semplice rapporto causa effetto tra il mutare delle circostanze e il mutare della struttura delle loro relazioni. C’è, piuttosto, un’interazione continua (e circolare) tra questi due momenti, che solo quando vengono presi congiuntamente in considerazione permettono di definire la forma della società e la natura della produzione, e, conseguentemente, sia le trasformazioni in corso che quelle realizzabili. Essi, infatti, definiscono concretamente, per qualsiasi formazione sociale, il rapporto tra necessità e libertà storicamente date in quel momento.
Ciò implica che una parte essenziale del processo di trasformazione è comunque da ricercare nell’interazione tra il mutare delle circostanze, del quale un aspetto essenziale è il modificarsi delle forze produttive, e il mutamento sociale. “L’invenzione di un nuovo strumento di guerra”, sostiene perentoriamente Marx, “l’arma da fuoco, doveva necessariamente modificare tutta l’organizzazione interna dall’esercito, ossia i rapporti nel cui ambito gli individui formano un esercito e che rendono quest’ultimo un tutto organizzato, come pure, infine, i rapporti tra eserciti diversi”. Schaff sembra leggere lo sviluppo della microelettronica, seppure in maniera troppo schematica e talvolta contraddittoria, in questa chiave e non nel senso in cui lo interpreta la Manacorda. La sua tesi è cioè che la rivoluzione microelettronica produrrebbe un cambiamento, ma questo non sarebbe necessariamente un cambiamento positivo, e cioè non produrrebbe automaticamente quella che per lui è la “società comunista”.
Abbiamo già riconosciuto che la maniera frettolosa in cui Schaff affronta il problema può trarre in inganno, ma a noi sembra che, coerentemente con la rappresentazione marxiana, egli distingua, anche se grossolanamente, tra emergere della dinamica che spinge al mutamento, nel linguaggio di Marx, “lo sviluppo delle facoltà”, e il mutamento, sempre nel linguaggio di Marx “l’assoggettamento del gioco delle forze delle facoltà al potere degli individui”. La Manacorda ha forse ragione nel sostenere che la povertà dell’analisi di Schaff può far leggere il testo in maniera diversa. Ma il mondo che Schaff ci prospetta, come sviluppo spontaneo delle tendenze attuali, come prodotto immediato dell’elettronica, non è affatto un mondo “millenaristico”, bensì un potenziale inferno, nel quale esistono le condizioni materiali per una forma superiore di vita, ma questa forma deve a sua volta essere prodotta. E non è detto che si riesca a produrla, evitando gli effetti distruttivi – la patologia – che altrimenti innescherebbe.
La “fine del lavoro” di cui parla Schaff non è, dunque, fin dall’inizio un’utopia positiva, quanto piuttosto una pura e semplice contraddizione, che può determinare una sciagura sociale. Egli è, infatti, convinto che se si lasciano evolvere spontaneamente le tendenze attuali “si gettano milioni di persone in preda alla frustrazione, alla patologia sociale e alla ribellione”. Una prospettiva del genere rende “necessario” adoperarsi per trovare un uso positivo per le nuove capacità produttive. E’ l’inevitabilità di questa spinta – che è però cosa ben diversa dalla certezza che essa produca una mutamento positivo – che sollecita talvolta Schaff a parlare in termini consequenziali tra “fine del lavoro” ed emerge di una nuova attività. Quando ciò accade, ha indubbiamente ragione la Manacorda a sostenere che egli “lega questo risultato troppo meccanicamente alla trasformazione del contenuto del lavoro”. Ma ha invece torto nel momento in cui rovescia l’errore di Schaff nel suo opposto e sostiene che “la creatività del lavoro e la sua capacità di costituire elemento di autorealizzazione sono molto più legate al rapporto tra impegno nel lavoro e conoscenza del suo significato e della sua finalità”. L’autorealizzazione diventa così non qualcosa di pratico, quanto piuttosto un sentimento soggettivo, una forma di relazione muta, un semplice atteggiamento producibile, in quanto tale, con un mero atto di volontà.
La riproducibilità del lavoro
Ma è possibile riformulare l’analisi di Schaff nei termini più rigorosi che la Manacorda esige, là dove chiede “una riflessione più attenta su che cosa si frappone tra l’utopia e la realtà”? E’ possibile, cioè, prevedere una “fine del lavoro” senza che le argomentazioni che sostengono questa previsione siano intrise di illusorie scorciatoie?
La nostra risposta è positiva, anche se riteniamo che la soluzione dal quesito non sia producibile con un’operazione analitica semplice, e richieda, piuttosto, un ricco ed articolato confronto del quale questo saggio può essere al massimo una scintilla sollecitatrice.
Che cosa si vuole, dunque, rappresentare con un concetto come quello della “fine dal lavoro”? Abbiamo già accennato sopra che essa non è affatto la fine della produzione, perché il lavoro di cui stiamo parlando e del quale dobbiamo parlare è il nostro tipo di lavoro, e non la generica attività di soddisfazione di bisogni umani. E’ questo lavoro che diverrà sempre più difficile mettere in moto, perché tendono a scomparire le condizioni oggettive della sua riproducibilità, o almeno della sua riproduzione non contraddittoria.
Ora, per affrontare adeguatamente il problema della riproducibilità dobbiamo essere certi di sapere in che cosa consiste il nostro lavoro. Qui, a differenza di Schaff, diciamo subito che il significato corrente, mutuato soprattutto dal linguaggio dell’economia politica, è quanto mai ingannevole. Ci sembra più utile fare riferimento a Marx che, nell’Introduzione del ’57, lo definisce coma una specifica relazione sociale nell’ambito della quale gli esseri umani riproducono una parte della loro vita. (Certo Marx aggiunge che, con l’ausilio della categoria che si riferisce a questa relazione, possiamo anche cercare di interpretare alcuni aspetti delle società del passato, ma sottolinea ripetutamente che la verità pratica di questa categoria, la sua esistenza empiricamente rilevabile, è limitata alla nostra epoca storica). Se la categoria che definisce questo particolare rapporto può oggi essere correntemente usata come sinonimo di produzione in generale è solo perché, nell’ambito di una società mercantilmente sviluppata come la nostra, esso costituisce la forma dominante nella quale gli individui producono la propria esistenza e diviene, quindi, il riferimento spontaneo di qualsiasi discorso sulla produzione.
Tuttavia, nel momento in cui dobbiamo svolgere un approfondimento analitico, e cioè vogliamo esaminare i caratteri specifici, le differenze nelle attività riproduttive, il ricorso a questa analogia è sbagliato e ingannevole. C’è una differenza tra un uomo che fa l’amore con la propria compagna e il medico che insemina artificialmente una donna che desidera avere un figlio, nonostante l’atto d’amore produca, al pari dell’inseminazione artificiale, una nuova vita. E questa differenza sta proprio nel fatto che nessuno può sostenere, senza stravolgere la realtà del rapporto, che l’atto d’amore sia un lavoro. Mentre, certamente è un lavoro ciò che il medico fa in rapporto alla sua paziente.
Anche nel momento in cui andiamo ad analizzare gli effetti dell’espansione della microelettronica e dell’automazione sul piano della riproducibilità del lavoro, non possiamo cadere nell’errore di usare un termine non analitico, come quello di un lavoro che è solo generico sinonimo di produzione. Quello che ci interessa comprendere, infatti, è se riusciremo a riprodurre su scala adeguata quella specifica attività che oggi chiamiamo lavoro. In altre parole, il fatto che gli esseri umani possano continuare ad avere bisogno, in misura crescente, l’uno dell’altro e che ciò possa sollecitare un’attività di reciproca soddisfazione, non ci autorizza ad eludere il problema che scaturisce logicamente dal fatto di riconoscere che il lavoro è una forma particolare di questa soddisfazione: il problema delle condizioni della sua riproducibilità. L’ipotesi dell’infinita riproducibilità del lavoro fa, infatti, tutt’uno con l’ipotesi che esso sia l’unica forma possibile della produzione, e che eventuali oscillazioni nell’occupazione scaturiscano di conseguenza solo da difficoltà esterne o da errori umani nel coordinamento sociale, o addirittura dalla cattiveria delle classi sociali dominanti. In un simile contesto, il problema della riproducibilità o meno di questa attività non si pone neppure, perché essa è posta come generalmente umana.
Non basta, dunque, che crescano i bisogni per generare lavoro. Occorre che questi bisogni si presentino in una forma sociale capace di mettere in moto proprio quel tipo di attività. La convinzione opposta si basa sua un’evidente illusione: che l’attività dagli esseri umani diretta al reciproco soddisfacimento, per la quale la formulazione del bisogno è un momento essenziale, assumano spontaneamente una forma adeguata, senza che questa debba in qualche modo essere prodotta. Qui siamo lontani mille miglia dall’assunto marxiano, che parte dalla constatazione che le epoche storiche si distinguono in base al modo di produzione della vita e che, pertanto, l’analisi di una formazione sociale che non contenga un esame dei processi storici attraverso i quali ha avuto luogo ed ha luogo la produzione di quella forma di vita, oltre all’analisi positiva di quella forma, sia un’analisi unilaterale e perciò ingannevole. Nessuna conoscenza sociale è infatti possibile senza comprendere i limiti che una formazione sociale ha permesso di superare e i limiti che essa – più o meno consapevolmente – pone.
Per tornare al nostro problema, è possibile riconoscere che l’unico bisogno capace di produrre lavoro è il bisogno che viene espresso come domanda, e che, dunque, il lavoro non può essere altro che lavoro salariato o lavoro che produce merci. Il soggetto che esprime il bisogno deve cioè agire in modo da cercare di comperare l’oggetto della propria soddisfazione o da cercare di farlo comperare ad altri per lui. Una donna che si rivolge alla propria madre per chiederle di tenere i figli, quando è impegnata, formula indubbiamente un proprio bisogno e sollecita altrettanto indubbiamente un’attività produttiva, ma non crea lavoro. Crea, invece, lavoro se si rivolge ad una persona offrendole una retribuzione in cambio della cura dei bambini, o se fa pressione sulle autorità pubbliche affinché aprano un asilo nido, nel quale i bambini saranno assistiti da operatrici salariate. Chi mette insieme un gruppo di giovani per ripulire un bosco gratuitamente dai rifiuti, esprime un bisogno, sollecita un’attività produttiva ma non crea lavoro. Crea lavoro, invece, se esige che il corpo delle guardie forestali venga ampliato al punto da garantire anche la pulizia di quel bosco. Il rapporto di valore e il rapporto di denaro sono, pertanto, solo due facce della stessa medaglia, e l’espansione del lavoro è impossibile senza una continua espansione del mercato o della spesa pubblica.
Per comprendere appieno che cosa Schaff volesse intendere, quando cercava di articolare una distinzione tra attività e lavoro, proprio in relazione alla loro riproducibilità, dobbiamo però spingerci un po’ più in là di una mera fenomenologia della generazione del lavoro. Ciò è possibile solo se analizziamo il significato della pratica produttiva che noi chiamiamo lavoro in contrapposizione – perché contrapposizione c’è nella realtà – al significato delle pratiche produttive che l’hanno preceduta e che sopravvivono stentatamente al suo fianco.
La madre di un bambino può chiedere alla nonna di tenere il ragazzo con se’, quando ha altri impegni senza dover offrire in cambio del denaro, in base all’esistenza di una reciprocità personale. Ciò significa che nel rapporto si presenta il potere personale di un individuo di evocare, con la sua richiesta, l’attività di un altro individuo. Anche quando una persona formula una domanda tenta di affermare un proprio potere su un altro individuo, analogo a quello appena descritto: quello di evocare l’attività di quest’ultimo o di appropriarsi dei suoi frutti. Poiché, però, non esiste alcun legame personale che fondi in maniera immediata questo potere, egli deve offrire in cambio del denaro. Con questa pratica egli concede a coloro che accettano di sottomettersi a lui volontariamente un potere equivalente sulla propria attività (il denaro), o su quella di altri uomini che, al pari dei due contraenti, partecipano di una generale dipendenza materiale (non personale) reciproca. II soggetto che lavora rinuncia temporaneamente alla propria individualità ed accetta, vendendosi, di agire sulla base di una volontà altrui e per scopi posti da altri che sono a lui indifferenti e dai quali è personalmente indipendente. Lo fa per poter poi disporre, attraverso la compera, di un analogo potere di far agire altri, indifferenti nei suoi confronti e da lui indipendenti, in base alla propria volontà e ai propri scopi.
La differenza profonda, che contrappone la produzione comunitaria al lavoro, è resa esplicita proprio dal bisogno di equivalenza nello scambio, che è intrinseco al rapporto mercantile e che fa nascere una spinta alla misurazione di ciò che viene scambiato, a fissare un prezzo per la cosa o per l’attività oggetto dello scambio. Là dove gli individui si riconoscono esplicitamente o implicitamente come persone particolari, e sono quindi immediatamente legate tra loro nella riproduzione come comunità, essi riconoscono praticamente anche le proprie differenze, e quindi lo “scambio” materiale reciproco esprime, in un modo o nell’altro, queste differenze, cosicché mancano i presupposti per fissare un prezzo della cosa o dell’attività. Là dove gli esseri umani si rapportano, invece, attraverso la domanda, le differenze personali diventano insignificanti, data l’assenza di un legame reciproco. Allora solo l’eguaglianza di valore di ciò che si riceve (ricavo) in cambio di ciò che si dà (costo) può sollecitare l’azione. Ciò significa che il singolo, all’interno delle relazioni mediate da una dipendenza personale reciproca, con ogni probabilità anche a causa della loro limitatezza e della convinzione soggettiva che siano naturalmente date, non sperimenta la propria attività come se fosse posta in essere a prescindere dalla propria particolarità, come qualcosa di esterno a se’, come un costo. Al contrario, il potere che egli riconosce su di se’ agli altri, nella pratica riproduttiva della comunità, costituisce l’espressione positiva della sua specificità, lo conferma nell’azione. Per questo la nonna va, ancora oggi, a prendere gratuitamente il nipotino all’uscita dalla scuola, e la nuora, a sua volta, non le presenta il conto quando la invita a pranzo, mentre il conducente di autobus che accompagna gli scolari a casa, proprio perché non è il padre, lo zio o un amico di famiglia, perché percepisce la sua attività come esterna a sé, come un costo, la eroga solo fintanto che gli assicura un ricavo equivalente, il suo salario; così come fa l’oste con i suoi clienti, ai quali presenta un conto dopo la cena.
Come ci insegna la storia, il confine tra i bisogni formulati nell’ ambito di una reciprocità personale e i bisogni formulati come domanda è un confine che, nelle comunità che si sviluppano, si sposta in continuazione a favore dei secondi. Ma le comunità che si sviluppano, che superano i ristretti limiti nell’ ambito dei quali si sono formate, proprio perché lo sviluppo implica sempre una trasformazione degli individui che consegue al loro contatto con altri individui estranei alla comunità, sono comunità che si disgregano. Noi siamo ancora testimoni di questa disgregazione degli ultimi brandelli di comunità, quando assistiamo alla progressiva riduzione, nell’ambito della famiglia moderna, del potere personale di ciascuno di evocare l’attività riproduttiva degli altri. (Non solo i padri e le madri hanno sempre meno potere sui figli, ma anche l’idea stessa di riprodurre figli su una scala analoga a quella dei nostri avi è rifiutata in massa dai genitori, come modo solo parzialmente consapevole di sottrarsi ad un potere personale (dei figli) al quale sono sempre meno abituati. Gli stessi genitori, infatti, sperimentano la riproduzione della specie nell’ambito dei legami personali (tradizionali) come limitativa e, conseguentemente, non solo riducono l’attività di allevamento personale della prole, demandandola sempre più a lavoratori salariati, ma contraggono fortemente le stesse nascite come meccanismo difensivo aprioristico.)
Dunque, l’espandersi del sistema dei bisogni formulati come domanda non è altro che l’affermarsi del potere reciproco, da parte di persone che non sono legate da un rapporto personale, di agire le une per le altre in una forma che permetta, tuttavia, di riprodurre questa separazione e indifferenza (rapporto privato). Quanto più, però, i singoli individui si riproducono al di fuori dei loro legami comunitari, in rapporto ad altri esseri umani a loro sconosciuti e da loro indipendenti, tanto più i legami comunitari tenderanno a disgregarsi e a scomparire. Denaro e comunità personale sono, cioè, contrapposti. Vale a dire che essi costituiscono diversi e inconciliabili contesti, nei quali differenti motivazioni e differenti pratiche mediano la riproduzione degli esseri umani, in modo tale che l’attività che in essi ha luogo non è la stessa attività. Pertanto, la crescita del lavoro e il recedere dell’attività comunitaria sono solo due facce della stessa medaglia.
La disgregazione dei vecchi rapporti di dipendenza personale reciproca, e il corrispondente diffondersi su scala allargata dei rapporti mercantili e di lavoro, proprio perché comporta un positivo abbattimento di preesistenti limitazioni – gli individui producono gli uni per gli altri anche se non sono legati da preesistenti vincoli “naturali” – può però generare una illusione. Può infatti far nascere l’erronea convinzione che il contatto reciproco che ha luogo nel loro ambito sia espressione della pura volontà degli individui. E’ come se gli esseri umani, una volta liberati dalle limitazioni comunitarie preesistenti, si ritenessero capaci, finalmente, di evocare l’attività degli uni diretta a soddisfare i bisogni degli altri in modo tale da rappresentare la forma normalmente umana, cioè libera. “Nei rapporti di denaro”, sottolinea in merito Marx, “nel sistema di scambio sviluppato (e questa parvenza seduce la democrazia) i vincoli di dipendenza personale, le differenze di sangue, di educazione, ecc. in effetti sono saltati, sono spezzati e più individui sembrano entrare in un contatto reciproco libero e indipendente e scambiare in questa libertà; ma tali essi sembrano soltanto a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza nelle quali questi individui entrano in contatto (ove queste condizioni sono a loro volta indipendenti dagli individui, e sebbene prodotte dalla società si presentano per così dire come condizioni di natura, ossia incontrollabili da parte degli individui)”6. E’ una simile inconsapevole astrazione dalla storia dei rapporti produttivi, che equivale ad una rimozione dell’esperienza della limitazione che incombe sulla nostra riproduzione, che può impedire di intravvedere l’eventuale emergere di un limite alla formulazione dei nuovi bisogni come domanda.
Anche quegli studiosi di scienze sociali che sono più critici cadono spesso nell’errore di teorizzare, come fa la Manacorda, l’esistenza di un’unica limitazione all’attività produttiva: quella della sua subordinazione al movente del profitto. Essi non si accorgono di come la stessa forma mercantile del rapporto che è inscindibile dal presentarsi del lavoro come forma dell’attività che soddisfa i bisogni, ponga già una sua specifica limitazione all’attività riproduttiva dell’uomo. In altre parole, essi non riconoscono che lo stesso sistema dell’equivalenza del valore, al quale è subordinata la circolazione delle merci, possa trasformarsi in un fattore limitativo della libertà individuale, della soddisfazione degli individui, e che questo fattore sviluppa le sue leggi anche a prescindere dalla sua subordinazione al principio del profitto.
Domanda e opposizione reciproca degli individui
Questo modo di avvicinarsi alla realtà si fonda, consapevolmente o meno, sulla convinzione che la forma nella quale viene espresso il bisogno sia indifferente rispetto alla possibilità di soddisfarlo, al godimento o, ed è la stessa cosa, che il bisogno sia esprimibile in un’unica forma. Tuttavia, non solo quest’idea è del tutto estranea alla rappresentazione teorica marxiana, ma è anche lontanissima dalla realtà.
Infatti, nel momento in cui formulo una domanda, come abbiamo ricordato sopra, chiedo ad un individuo di soddisfare i miei bisogni a prescindere dalla particolarità della sua persona: gli chiedo di lavorare per me e nient’altro. Ciò significa che pongo praticamente le forze produttive che soddisfano il mio bisogno non già come sue forze, bensì come forze di una entità astratta che è il lavoro, un’attività nella quale, nonostante venga da lui erogata, egli non può riversare i suoi scopi e la sua volontà, non può agire come persona. Ciò comporta che, nel rapporto di lavoro, “le forze produttive appaiono come completamente indipendenti e staccate dagli individui, come un mondo a parte” accanto ad essi.
Ora, è estremamente importante comprendere che tra questa separazione delle forze dagli individui e la separazione degli individui tra loro esiste un nesso immediato per cui la prima è sistematicamente prodotta dalla seconda. In altri termini, “il fondamento materiale” della separazione delle forze dagli individui sta proprio nel fatto che questi “individui, di cui esse sono le forze, operano in una situazione di frazionamento e di opposizione reciproca. Ciò implica che gli individui possono formulare efficacemente i loro nuovi bisogni come domanda, solo se e fintanto che sono capaci dì agire gli uni per gli altri accettando che la forma dell’azione contenga in sé l’impossibilità di una conferma reciproca come individui. Domanda ed opposizione reciproca sono cioè solo due aspetti di un medesimo fenomeno sociale, nel senso che la domanda è la forma pratica attraverso la quale l’opposizione reciproca si fa valere. Pertanto, l’unica forma di socializzazione della produzione permessa dalla domanda è quella che Strzyz ha efficacemente definito come “socializzazione narcisistica”. In essa “l’oggetto viene sempre considerato in modo unilaterale dal punto di vista del soggetto; in questa considerazione unidimensionale non si tiene conto di ciò che può avvenire all’interno di una relazione oggettuale fra il soggetto e l’oggetto per quanto riguarda la possibilità di interazione, di ciò che può essere la qualità del contenuto di queste interazioni e fino a che punto l’oggetto possiede anche la qualità di un soggetto7.
Milton Friedman ha ben descritto i limiti entro i quali, in un rapporto come quello di denaro, gli individui si “muovono”: “Nessuna delle migliaia di persone coinvolte nella produzione di una matita”, scrive in Liberi di Scegliere, “ha svolto il suo compito perché voleva una matita. Alcuni di loro non ne hanno mai vista una e non saprebbero dire a che cosa serve. Ognuno di loro ha considerato il suo lavoro come un mezzo per ottenere i beni e i servizi che gli occorrevano: beni e servizi che abbiamo prodotto noi allo scopo di ottenere la matita che ci occorre. Ogni volta che entriamo in un negozio e comperiamo una matita, scambiamo una piccola porzione dei nostri servizi con una quantità infinitesima dei servizi che ognuno di loro ha fornito nella produzione della matita. Ciò è ancora più sbalorditivo del fatto che la matita sia stata prodotta. Non c’è nessuno che dalla scrivania di un ufficio centrale abbia dato ordini a queste migliaia di persone. Né un apparato poliziesco ha imposto l’esecuzione di ordini che non sono stati dati. Questi uomini vivono in molti paesi, parlano lingue differenti, praticano religioni diverse possono persino odiarsi reciprocamente, ma nessuna di queste differenze ha impedito loro di cooperare per produrre una matita. Come è potuto accadere? Il sistema dei prezzi è il meccanismo che svolge questo compito senza direzione centrale, senza che gli uomini debbano parlare tra di loro o amarsi. Quando comperi una matita o il tuo pane quotidiano, non sai se la matita è stata fabbricata, o il grano è stato coltivato, da un bianco o da un negro, da un cinese o da un indiano. Di conseguenza il sistema dei prezzi permette alla gente di cooperare pacificamente per un aspetto della loro vita, lasciando che ognuno persegua le proprie attività per quanto riguarda tutto il resto8. Qui è evidente che l’oggetto viene considerato in modo unilaterale e si prescinde proprio da quell’insieme di caratteristiche che potrebbero porlo a sua volta come soggetto.
Ciò che Milton Friedman non vede è che il rapporto mercantile, del quale la formulazione del bisogno come domanda è un momento, è un rapporto contraddittorio. In esso, infatti, due persone particolari entrano in relazione tra loro come se non fossero tali. Questo astrarre dalla loro individualità contraddice il fatto che essi sono degli individui particolari. E, tuttavia, questa contraddittorietà non assume una funzione dinamica, di trasformazione del rapporto, e per questo Friedman può ancora considerarlo come forma adeguata della vita, fintanto che la domanda non è espressione del bisogno immediato da parte di un uomo di quell’attività di un altro uomo. Essa è cioè riproducibile fintanto che il prodotto dell’attività può presentarsi come valore in sé, come cosa separabile da chi l’ha prodotta, senza che in questa separazione si perda qualcosa. Il bisogno di una matita, di latte, di pane, di una casa, di una barca ecc. può essere formulato, senza che emergano contraddizioni radicali, come bisogno di quella cosa e non del particolare individuo che l’ha prodotta.
Ora, fintanto che l’attività deve essere impegnata, a causa di una condizione oggettiva di penuria, prevalentemente a produrre una ricchezza materiale, questa “svalorizzazione del mondo umano”, il suo progressivo svuotamento, e la concomitante “valorizzazione del mondo delle cose” ha un senso, e non si presenta come contraddittoria. Anzi è forma adeguata della produzione perché, per ricorrere al giudizio di Marx, è l’unica che assicura “uno sviluppo delle forze produttive”, che, a sua volta, costituisce “il presupposto pratico assolutamente necessario” di qualsiasi sviluppo individuale. “Senza di esso, infatti, si generalizzerebbe soltanto la miseria, ricomincerebbe il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda”. Ma quanto più la produzione materiale cresce, quanto più si sviluppa il mondo delle cose prodotte dall’uomo, tanto più è probabile che si giunga ad un punto in cui tenderà a decrescere il peso relativo dell’attività industriale, così come è già accaduto per la produzione agricola. Vale a dire che l’espansione del lavoro sarebbe possibile solo se crescesse continuamente il peso relativo del lavoro che non è destinato a produrre cose, bensì ad oggettivare relazioni immediate tra gli individui. Infatti, quanto più gli esseri umani avranno creato un mondo di oggetti e di nessi materiali reciproci, tanto più la loro attività dovrà essere dedicata all’uso di questi oggetti e di questi nessi, cioè allo sviluppo dei rapporti immediati tra loro. (La costruzione delle scuole e università farà sviluppare l’attività di insegnamento, quello degli ospedali e delle cliniche l’attività di cura e prevenzione, quella dei diversi mezzi di trasporto e degli alberghi i viaggi e il turismo, quella dei computer e dei cellulari la comunicazione, ecc.).
L’illusione nella quale sta cadendo la nostra epoca, e la Manacorda se ne fa portatrice scientifica, è quella di credere che questa nuova attività, che sta lentamente diventando l’attività prevalente, possa essere trattata come se fosse della stessa qualità di quella diretta alla produzione delle condizioni materiali della vita; che possa essere, dunque, al pari di quella, un’attività salariata o produttrice di merci, cioè lavoro, senza che da questa forma scaturiscano delle contraddizioni. Così si può supporre che, come chi batteva con un martello ha potuto essere sostituito da una pressa automatica, e chi scavava da una motopala, non solo si possa sostituire il bigliettaio di un autobus con una vidimatrice automatica e l’autista con un sistema automatico di guida, ma anche le favole della mamma con un “raccontastorie” registrato su nastro, il medico con un congegno diagnostico automatico, la “generazione della vita” in un rapporto con il proprio compagno con una fecondazione artificiale e, in prospettiva, l’educazione morale delle nuove generazioni con una manipolazione dei geni.
Ma queste sono “fantasie” interamente prodotte dalla forma mercantile della nostra vita materiale e con essa coerenti. Come riconosce acutamente Marx, e come facciamo quotidianamente esperienza nella nostra vita di uomini borghesi, la forza del denaro è tale da permettere che queste “penose fantasie” riescano a trasformarsi in realtà, perché ci spinge a credere che veramente la domanda possa essere mediatrice di qualsiasi bisogno. Ma ciò significa solo che noi trattiamo la forma storica della nostra vita sociale come se fosse una forma immutabile, una forma “naturale” dell’esistenza umana. E proprio in base a questo errore viviamo ancora come individui il cui sviluppo ha luogo in forma contraddittoria, come esseri umani che non riescono a percepire il perché della loro insoddisfazione dilagante pur nella ricchezza materiale.
Processo di astrazione e modo della produzione
Siamo ora in grado di comprendere quale ruolo giochi, nel sostenere l’ipotesi dell’illimitata riproducibilità del lavoro, la convinzione che la riduzione dei processi produttivi umani a processi automatizzabili sia una forma generalmente umana di trattare la produzione. La Manacorda nega che il passaggio necessario a questa riduzione, l’astrazione, sia qualcosa di storicamente determinato. A suo avviso “non è il processo di astrazione in quanto tale ad avere caratteri capitalistici. Ammettere questo significherebbe”, secondo lei, “sposare un naturalismo che guarda all’età della pietra come al paradiso perduto. Capitalistico è il processo di astrazione che avviene fuori dal controllo di chi lo opera e che produce valorizzazione del capitale”.(p. 57)
In questo passaggio, e nelle considerazioni che vi fanno seguito, c’è una grande confusione teorica che impedisce alla Manacorda di affrontare in maniera piana il problema del grado di riproducibilità del lavoro. E’ vero che il processo di astrazione in quanto tale non è identificabile con il processo di astrazione capitalistico, ma non nel senso in cui lo intende la Manacorda che esso è un processo generalmente umano. Infatti, il processo di astrazione, attraverso il quale un individuo viene fatto agire come mera forza-lavoro, può essere messo in moto, è vero, anche a prescindere dallo scopo dell’accumulazione, ma solo se e in quanto la produzione è comunque almeno semplice produzione di merci. In altre parole, dalla mancata identificazione del processo di astrazione con il processo capitalistico di produzione non scaturisce affatto, come invece sembra credere la Manacorda, che il processo di astrazione sia connaturato alla produzione umana in generale. Ma c’è di più. Nel momento in cui riconosciamo ai fenomeni concreti, nell’analisi, lo stesso ruolo sostanziale che hanno avuto nella realtà storica, si restringe anche significativamente la differenziazione tra astrazione e produzione capitalistica. Infatti, i rapporti mercantili preborghesi rappresentano uno sviluppo solo parziale del rapporto di valore e dell’astrazione in esso implicita, poiché la merce si presenta, in essi, ancora come forma subordinata della ricchezza sociale, e il rapporto della proprietà privata non è forma sociale dominante, capace di dare la sua impronta alla generalità della produzione. Quindi, se l’astrazione è concepibile anche nei più semplici rapporti mercantili preborghesi, ciò va tuttavia inteso nel senso che essa è in essi insita come elemento embrionale in formazione, mentre diviene praticamente vera nella sua pienezza, come elemento che struttura i valori e i comportamenti che informano la pratica sociale nella sua generalità solo nell’ambito della società borghese.
Ma la Manacorda non tiene conto di ciò. Ipotizzando che qualsiasi rapporto che “non guardi all’età della pietra” debba contenere al suo interno il presupposto dell’astrazione, identifica il processo di astrazione con un fantomatico approccio razionale alla produzione. Per questo l’unica limitazione artificiale (non necessaria) alla produzione che riesce a cogliere è quella della sua subordinazione al profitto.
L’astrazione come limitazione alla possibilità dell’appropriazione individuale della ricchezza umana
Per soddisfare alcuni bisogni, abbiamo affermato sopra, è possibile fare astrazione dall’individualità di chi agisce e di chi viene soddisfatto, ed è quello che normalmente avviene nella produzione mercantile. Se voglio bere un bicchiere di latte o spostarmi da un luogo ad un altro, non ho alcun bisogno di interagire con il lattaio (e via via con l’imbottigliatore, il contadino, il veterinario, ecc.) e con il macchinista del treno (e via via il capostazione, il lavoratore dell’’ENEL, l’agganciatore, il produttore di locomotive e vagoni ecc.) come persone particolari; posso cioè limitarmi a comperare l’oggetto del mio bisogno. Ci sono, tuttavia, altri bisogni che non possono essere soddisfatti attraverso l’astrazione, o meglio, che possono essere soddisfatti attraverso l’astrazione solo in maniera contraddittoria, ed è in rapporto a questi bisogni che emerge originariamente un limite alla riproducibilità del lavoro.
Per dare contenuto concreto a questa affermazione è opportuno prendere le mosse da un esempio estremo. Nei paesi anglosassoni, ma ora anche da noi, alcuni uomini d’affari e alcuni uomini politici hanno cominciato a prendere l’abitudine, in occasioni di intrattenimenti che si intrecciano con la loro attività professionale e ai loro viaggi, di farsi accompagnare da hostess affittate ad una tariffa contrattuale di un tanto a sera. Il perché di una simile pratica è presto detto: si tratta di un modo spicciolo di ridurre l’impegno necessario a trovare una donna che abbia i requisiti desiderati e sia disposta ad accompagnarsi volontariamente all’individuo in questione. Pagando la sua accompagnatrice il nostro uomo fa in modo che questa, che pure non ha alcun interesse specifico in lui, esca con lui. Le chiede di accantonare momentaneamente la propria individualità, per soddisfare i suoi bisogni e sottomettersi “a tempo” alla sua volontà (sempre entro i limiti contrattualmente fissati).
Ora, la “soddisfazione” del bisogno ha luogo in tal modo proprio perché l’individuo non ha avuto bisogno di andare a se stesso come individuo, e tanto meno ha chiesto all’altro essere umano che agisce per lui di soddisfare i suoi bisogni come individuo. Gli è bastato portare in giro con sé una merce che gli fa fare bella figura. L’economia politica sosterrebbe, a questo punto, che in ciò non c’è nulla di strano: che il bisogno è bisogno e basta, e se qualcuno sceglie una specifica forma sociale per soddisfarlo è perché ha anche bisogno di quella forma. Ma questo è proprio il livello al quale interviene la critica di Marx, il quale afferma che un simile modo di analisi è del tutto inconsistente, perché prescinde dalla comprensione della natura del bisogno. Il fatto è, e questo l’economia politica non lo vede, che il denaro non è solo uno strumento di misura, né semplicemente un mezzo di scambio; che non è solo un fondo di valore che media neutralmente qualsiasi bisogno, ma è anche un rapporto di potere, un modo specifico di agire umanamente nei confronti di un altro essere umano, un modo storicamente determinato di esprimere un bisogno che solo esteriormente può apparire lo stesso. Ed è allora che il raffronto tra questa forma di potere e le altre forme di potere che si esprimono nella produzione e nell’appropriazione dei prodotti, esistite in passato e generabili in futuro, diviene possibile e sensato.
Si pensi con quanta lucidità Marx ha articolato questo raffronto: “Si è detto e si può dire”, sostiene nei Grundrisse, “che il lato magnifico (del rapporto di denaro) sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione naturale, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. E certamente questo nesso materiale è preferibile alla loro mancanza di nesso o ad un nesso soltanto locale fondato su rapporti naturali di consanguineità e di signoria e servitù. Altrettanto certo è che gli individui non possono subordinare a sé i loro stessi nessi sociali prima di averli creati. Ma è anche insulso pensare quel nesso soltanto materiale come un nesso naturale inscindibile dalla natura dell’individualità (in antitesi al sapere e volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne è il prodotto. E’ un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo. L’estraneità e l’autonomia in cui esso ancora si trova rispetto a loro, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. Quella naturale, è la connessione di individui nell’ambito di determinati e limitati rapporti di produzione. Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettate al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l’universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale soltanto produce, insieme con l’universalità, l’alienazione dell’individuo da se’ e dagli altri, ma anche l’universalità e l’organicità delle sue relazioni e delle sue capacità. Nei precedenti stadi di sviluppo l’individuo singolo si presenta in tutta la sua pienezza appunto perché non ha ancora elaborato la pienezza delle sue relazioni, e perché questa pienezza di relazioni egli non se l’è ancora contrapposta come forze e rapporti sociali indipendenti da lui. Volgersi indietro a quella pienezza originaria è altrettanto ridicolo quanto credere di dover rimanere fermi a quel completo svuotamento”.9
Torniamo al nostro esempio. L’uomo che per uscire con una donna paga il tempo di quest’ultima, ha certamente un rapporto con un numero di donne incommensurabilmente maggiore rispetto a quello dei suoi antenati. Spesso si tratta, addirittura, di donne di nazionalità diversa e di livello culturale diverso. Da questo punto di vista, ha sviluppato una particolare forma dell’universalità. E, tuttavia, proprio la proposta di pagamento, la formulazione del suo bisogno come domanda e la corrispondente sollecitazione dell’attività dell’ altro come lavoro, ci dicono che egli non ha ancora sviluppato la capacità di far muovere, attraverso il perseguimento immediato dei suoi scopi, un altro individuo nel modo desiderato, senza far valere nei suoi confronti la morsa della costrizione materiale. Quest’altro individuo, proprio perché si fa pagare, non si muove per lui, per i suoi scopi, bensì per il suo denaro. E’ questo potere, che non è il suo potere, bensì il potere del quale egli è in possesso, a far muovere l’altro. Come persona si incontra con tante persone, ma in realtà non si incontra con nessuna di esse in particolare. Se un’eventualità del genere dovesse accidentalmente verificarsi, dovrebbe smettere di pagare quella persona, perché per l’essere umano contemporaneo esiste, ne’ più ne’ meno che per le popolazioni antiche, una opposizione oggettiva tra individualità e denaro.
Quanto abbiamo appena detto aiuta a chiarire perché questa forma di soddisfazione di quei bisogni che trascendono la mera produzione materiale sia una forma limitata, vale a dire che l’individuo che vi ricorre è un individuo che rinuncia a ricercare delle altre possibili forme di soddisfazione che richiederebbero una capacità superiore da parte sua. Va anche tenuto presente che la riproduzione del rapporto di denaro, in questo caso, non è altro che la rinuncia a provare la propria capacità di determinare nell’altro il comportamento desiderato senza ricorrere alla costrizione materiale. Una simile rinuncia, lungi dal favorire la possibilità dello sviluppo di questa capacità, la inibisce. Con la riproduzione del rapporto di denaro, con la sollecitazione all’azione attraverso la domanda, si eliminano, infatti, le condizioni oggettive che sole potrebbero permettere la produzione di questa capacità. Infatti, se essa non è generabile, come non è generabile, con la mediazione della sola volontà, c’è bisogno di una pratica effettiva per poterla acquisire. L’individuo deve cioè provare ripetutamente a praticare “quelle manifestazioni determinate e corrispondenti all’oggetto della sua volontà”, e verificare se ciò produce un risultato nel quale egli si ritrova, e che anche gli altri sperimentano come affermazione della loro individualità, al punto da agire liberamente nel modo da lui desiderato.
Solo un “lavoro” continuo sullo scarto che inevitabilmente si verifica tra le proprie aspettative e la realtà prodotta può permettere a ciascun individuo di acquisire la capacità di produrre un modo della sua socialità non fondato sull’indifferenza. Ciò implica che gli individui debbono conquistare una forma completamente diversa di passività rispetto a quella che si manifesta nell’astrazione e con la quale si misurano attraverso la domanda. Come afferma Marx nel testo sopra citato, egli deve riconoscere che ciò che fa “muovere” un altro essere umano liberamente nella direzione e nella maniera da lui voluta è prodotto da qualcosa, un insieme di affetti, di sentimenti, di valori, di motivazioni, di conoscenze che non sono ancora sotto il suo controllo e che non è in nessuno modo riducibile alla miserevole manifestazione del bisogno rappresentata dalla sua formulazione come domanda. L’atto della compera, in quanto fa leva sul bisogno che l’altro individuo sperimenta come esterno a se’, che è dettato dalla necessità, per “costringerlo economicamente” all’azione, elimina a priori la possibilità per l’altro di affermare liberamente se stesso nell’ azione.
Quando l’individuo sperimenterà finalmente un’insoddisfazione nella soddisfazione del bisogno attraverso la compera, e quindi incontrerà delle difficoltà nel riprodurre su scala allargata il rapporto di lavoro, sarà compiuto il primo passo necessario alla appropriazione delle forze proprie di ciò che abbiamo cercato di definire con il concetto di umanità, che in lui giacciono ancora sopite. L’economia politica, abbagliata dalle proprie categorie, vede un indice di sviluppo nella capacità di creare nuovi posti di lavoro, e quindi addita come esempi da seguire il Giappone, gli Stati Uniti, ecc. In realtà, però, gli individui che possono tentare più coerentemente di imboccare questa strada sono proprio quelli dei paesi industrialmente avanzati che incontrano più difficoltà a produrre lavoro su scala allargata. E’ qui, infatti, che gli individui si pongono già, in parte consciamente, in parte in maniera inconscia, il problema della conquista del loro potere sociale come individui, corrispondente al far leva sulla storia collettiva e individuale.
Ma lasciamo da parte gli esempi estremi, che si riferiscono solo ad elementi dinamici in formazione, e veniamo ad un rapporto personale, posto in essere come lavoro, al quale nessuno di noi, cittadini del mondo occidentale, ormai sfugge: la scuola. Qui l’astrazione consiste proprio nel prescindere dal fatto che ci si trova nell’ambito di un rapporto tra individui particolari, nel trasformare, cioè, un processo di educazione che aveva luogo nelle formazioni sociali premercantili – di formazione di individui particolari da parte di individui particolari – in un processo di istruzione, di acquisizione di un insieme di conoscenze e di tecniche che costituirebbero il patrimonio oggettivo della società.
La trasmissione delle conoscenze in forma oggettiva, la cui forma prima è stato il programma obbligatorio e il libro di testo e il termine ultimo può essere un sistema elettronico di apprendimento e l’uso generalizzato del computer come mezzo di acquisizione delle conoscenze, si basa ovviamente sull’ipotesi che non sia necessario un rapporto individuale tra coloro che trasmettono le conoscenze e coloro che se le appropriano. Che, cioè, la conoscenza sia acquisibile attraverso una mediazione analoga a quella mercantile, nella quale la soggettività non gioca alcun ruolo essenziale.
E’ molto significativo, dal punto di vista che qui ci interessa, il giudizio che Marx espresse su questo tipo di formazione, in relazione al progressivo decadere dell’economia politica: “L’ultima forma (di questa disciplina)”, scrisse nei suoi appunti sulle Teorie sul plusvalore, “la forma professorale, procede ‘storicamente’, e con saggia moderazione, raccoglie qua e là il ‘meglio’, senza badare alle contraddizioni, bensì alla compiutezza. E’ lo svuotamento di tutti i sistemi di cui si elimina il mordente, per accoglierli insieme in una pacifica compilazione. Il calore dell’apologetica è qui temperato dall’erudizione, che assume un’aria di benevola superiorità verso le esagerazioni dei pensatori economici e le lascia galleggiare soltanto come curiosità nella sua mediocre poltiglia. Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando l’economia politica come scienza è conclusa, essi sono nello stesso tempo le tombe di questa scienza”.10
La tesi è quanto mai chiara. Il processo di svuotamento, di astrazione, attraverso il quale la conoscenza viene depurata della componente soggettiva che l’ha prodotta, per presentarla puramente e semplicemente come un prodotto oggettivo – e il manuale ne è un esempio perfetto – è un processo che è possibile solo là dove gli individui si ostinano a cercare di rimanere qualcosa di divenuto. Incapaci di cogliere la loro specificità storica e il carattere transeunte del loro modo di sperimentare il mondo, agiscono in maniera da supporre che non ci sia più bisogno di rapportarsi ai sofferti processi individuali e collettivi attraverso i quali la conoscenza è stata e viene prodotta.
Implicita nella critica di Marx c’è, invece, la convinzione che non ci sia speranza di poter produrre una conoscenza se si cancella il rapporto dinamico esistente tra la conoscenza stessa e la soggettività dalla quale è scaturita. Mentre questa speranza è legittima nel momento in cui l’uomo accetta di non conoscere ancora le sue proprie forze, e si muove sulla base dell’ipotesi che una conoscenza adeguata di queste può di volta in volta essere prodotta solo in un rapporto critico tra le nuove generazioni e quelle che hanno prodotto il sapere accumulato. Ma la condizione dell’instaurarsi di questo rapporto è proprio che esso, in quanto rapporto, si fondi sulle individualità, cioè sulla particolare esperienza (storica e personale) che ha prodotto quella conoscenza, oltre che sull’ esperienza che gli individui che fanno parte delle nuove generazioni fanno di quel mondo che l’azione sostenuta da quella conoscenza ha a sua volta prodotto.
Si potrebbe facilmente cadere nell’errore di credere che questo nesso positivo tra soggettività e conoscenza operi solo ad un livello avanzato dell’apprendimento, là dove il bisogno di una scelta di valore si presenta in maniera più evidente. Ma le più recenti ricerche hanno ampiamente dimostrato che l’assunto di Marx è generalizzabile. E cioè che non esiste livello dell’apprendimento nel quale la soggettività non giochi un ruolo essenziale ed immediato nell’apprendimento stesso.
I lavori di B. Bettelheim, tanto per riferirci ad uno dei possibili esempi, hanno evidenziato che c’è un filo conduttore limitativo della conoscenza, che consegue dalla limitazione del ruolo dell’individualità, che va dal modo in cui si insegna a leggere nella scuola elementare, al modo in cui si formano i professionisti che operano in campo psicoanalitico. Questo filo conduttore, che consiste nel ridurre sistematicamente l’apprendimento ad acquisizione di un tecnica, in spregio del fatto che esso è sempre e inevitabilmente un particolare rapporto tra chi ha scritto, chi media il contatto e chi impara, produce gravi conseguenze negative proprio sul piano della soddisfazione dei bisogni alla quale l’apprendimento è finalizzato. In Sigmund Freud e l’anima dell’uomo, Bettelheim rappresenta efficacemente la necessità di recuperare, da parte di chi studia per diventare analista, l’atteggiamento individuale con il quale Freud ha formulato alcune delle sue categorie psicoanalitiche, perché altrimenti quelle stesse categorie, depurate di questa componente, possono “servire ben poco” “ad aiutare coloro che sono affetti da gravi disturbi psichiatrici”. Esse, infatti, “traggono in inganno il lettore inducendolo a sviluppare un atteggiamento ‘scientifico’ nei confronti dell’uomo e delle sue azioni”. In conseguenza di ciò egli è indotto ad assumere un atteggiamento con il quale non è mai “coinvolto direttamente”, e cioè “si limita” “a vedere gli altri attraverso uno schermo di astrazioni, senza mai riuscire da entrare in contatto con loro per le persone particolari che sono. Poiché questo contatto è il presupposto indispensabile di qualsiasi terapia analitica, è evidente che l’azione non produce i risultati ai quali è finalizzata.
La radice di una simile pratica specialistica, come ricordavamo sopra, Bettelheim l’aveva già individuata nel modo in cui lo stesso apprendimento primo della lettura viene ridotto a tecnica. In Imparare a leggere, pubblicato un anno prima del testo sopra citato, aveva sviluppato le seguenti considerazioni: “Purtroppo la lettura è insegnata il più delle volte come capacità di decifrare, e il decifrare è essenzialmente un’attività priva di significato – un processo di mero riconoscimento – a cui ci dedichiamo per un motivo esterno, come l’imposizione da parte di un insegnante. … Ma se l’insegnante vede gli errori di lettura come dovuti all’incapacità di decifrare – il che potrebbe benissimo essere – è facile che questo aggravi in un bambino un atteggiamento negativo verso la lettura. Se, al contrario, considera un errore compiuto dal bambino come qualcosa di significativo – cioè in grado di rivelare un pensiero o un sentimento nascosto e importante per il bambino”, allora potrà ottenere risultati diversi e positivi. Questo perché la lettura è un atto compiuto da un particolare individuo in rapporto con altri individui, anch’essi particolari.
Il nostro discorso potrebbe essere sviluppato con ulteriori richiami esplicativi presi dal campo della medicina, dell’assistenza sociale, dell’attività ricreativa, dell’azione giudiziaria e rieducativa, dell’attività politica e di programmazione, ecc. Ma l’economia dell’esposizione ci impone di giungere finalmente all’enunciazione teorica.
Il processo produttivo attraverso il quale gli esseri umani soddisfano reciprocamente i bisogni facendo astrazione dalla loro individualità è riproducibile senza contraddizioni solo in misura limitata. Non appena la produzione non è più prevalentemente indirizzata alla creazione di cose, non appena cioè essa non è più prevalentemente produzione industriale, ma piuttosto l’azione diretta di un uomo a favore di un altro uomo, la forma del rapporto di valore, e il lavoro che ne è parte, si presenteranno come limitativi della possibilità di soddisfare coerentemente il bisogno.
L’elusione implicita nella risposta di Schaff
Le conclusioni alle quali siamo appena giunti fanno emergere un problema estremamente importante: se il tentativo di porre l’attività nella forma lavoro limita la possibilità di soddisfare i bisogni, esiste un modo per superare questa limitazione? In altri termini, se non è possibile adoperarsi per espandere il lavoro senza produrre contraddizioni radicali, c’è un modo per assicurare altrimenti uno sviluppo, oppure la “fine dell’espansione del lavoro” è anche la fine dell’espansione della produzione e della soddisfazione dei bisogni su scala allargata?
Schaff, a differenza della Manacorda, cerca di misurarsi su questo terreno, ma, analogamente alle difficoltà che ha incontrato nel formulare teoricamente la differenza tra il lavoro e le altre attività produttive, finisce con l’avanzare delle proposte che nel concreto si mordono la coda. Esse si basano, infatti, sulla necessità di introdurre un’attività sostitutiva del lavoro che, pur avendo un nome differente, si presenta con una connotazione sociale simile a quella del lavoro. Vediamo in che modo Schaff formula questa sua proposta. “Che fare per questa fetta della popolazione (che avrà poco o nessun lavoro?). Come trovare lavoro per tutti? La soluzione più semplice consisterebbe nell’introdurre un sistema di educazione permanente .. in modo che ciascuno la possa seguire fino alla pensione11…. Il requisito dell’educazione permanente potrebbe diventare un’ipotesi realistica per il fatto che quanti sono oggi considerati disoccupati strutturali riceverebbero mezzi di sussistenza proporzionati al livello dei bisogni storicamente consolidati. La società si sentirebbe perciò autorizzata a chiedere a costoro, in nome della loro responsabilità, certe prestazioni che potrebbero essere rese obbligatorie per tutti in certi periodi della vita. Sarebbe un po’ come l’istruzione obbligatoria dei giovani, divenuta in molte nazioni una realtà”, (p. 315) Qui è come se Schaff supponesse che alla fabbrica possa essere sostituita la scuola o altre attività che continuano ad essere imposte da un dovere esterno. Quella “costrizione” che prima si presentava nella forma della necessità di lavorare fisicamente per poter vivere, ora si dovrebbe presentare nella forma del dover studiare o nel dover svolgere compiti predefiniti, per poter vivere. Una simile operazione di ingegneria sociale avrebbe lo scopo di “realizzare l’antico ideale umanistico dell’uomo universale, cioè dell’uomo dalla preparazione poliedrica e capace, quindi, di cambiare occupazione secondo le esigenze”.(p. 316)
E’ evidente che, così, Schaff suppone che “l’uomo universale”, cioè l’uomo capace di una generalità di libere ed efficaci manifestazioni di se’, possa essere il prodotto passivo di un processo, che il soggetto accondiscende a compiere, senza imparare contemporaneamente ad agire in una forma che non gli appartiene ancora. Questa negazione del metodo materialistico marxiano, che si basa invece sull’ipotesi che non sia possibile alcuna conquista della libertà senza un processo di autotrasformazione, gli fa apparire l’educazione obbligatoria e i lavori socialmente utili come un mezzo adeguato per lo scopo che persegue. Ciò che Schaff non sembra rilevare è che l’elemento preliminare essenziale di qualsiasi processo educativo alla libertà dal bisogno immediato è quello di creare uno spazio sociale nel quale questa libertà possa concretamente manifestarsi per ciascuno e per tutti. E che qualsiasi discorso teso ad affermare le possibilità di una manifestazione personale positiva fatto all’interno dell’ educazione obbligatoria e dei lavori socialmente utili è un discorso che contraddice la stessa pratica nell’ambito del quale è formulato, ed è quindi incapace di produrre i risultati desiderati.
Come sostenevamo sopra, quando analizzavamo il suo tentativo di distinguere il lavoro dalle altre attività produttive, è come se Schaff non riuscisse a concepire concretamente un’attività (produttiva) qualitativamente diversa dal lavoro, e quindi cercasse di definire quest’attività appoggiandosi su quest’ultima. Questo fatto è confermato dalla sua, forse solo parzialmente consapevole, convinzione dell’esistenza di una contrapposizione assoluta tra individuo e società, invece di, come a noi sembra più realistico ipotizzare, una contrapposizione storicamente determinata. Soffermiamoci ancora brevemente sul testo. “L’occupazione è necessaria per dare un senso alla vita. Il fatto è – soprattutto per i giovani – che l’individuo deve raggiungere l’indipendenza all’interno della società, e trovarvi il proprio posto e ruolo. Non ha senso riferirsi a comunità del passato più semplici e invocare un’inversione nel corso della storia del genere umano. A meno di grandi calamità la storia non fa marcia indietro. Dobbiamo andare avanti, passare cioè dal lavoro a forme nuove e superiori di attività umana. Se il lavoro costituisce in questo momento lo scopo della vita dell’uomo e rappresenta il contesto in cui egli mette ad effetto le proprie aspirazioni per raggiugere l’indipendenza nella società, godere di un’adeguata posizione sociale e svolgere un’adeguata funzione sociale, allora quando il lavoro scomparirà per effetto dell’applicazione di nuove tecnologie, dovremo trovare un modo e un contesto nuovi per inquadrare questi obiettivi. Ciò andrà fatto su base societaria, e non lasciato all’individuo. In altre parole, la società dovrà costruire nuovi obiettivi alla vita umana, fra i quali i singoli individui potranno scegliere quelli che costituiscono il senso della loro vita. Si tratterà – come sempre si è trattato – di un’operazione a carattere societario. Bisognerà soltanto vedere se ciò debba avvenire in forma spontanea oppure debba essere esplicitamente condizionato da considerazioni e strutture di carattere sociale. Com’è naturale (?), io mi dichiaro per la seconda soluzione.” (p. 313) Ma se il limite della riproducibilità del lavoro non investe solo il capitale, come si può mai credere che lo stato sia invece in grado – non già di organizzare la soddisfazione dei bisogni collettivi di base – ma anche quelle attività che possono essere definite superiori, perché trascendono i limiti del rapporto salariato.
Così ragionando, però, Schaff mostra involontariamente di non credere nella possibilità del comunismo, così com’è stato delineato da Marx, cioè di una organizzazione sociale nella quale gli individui riescono finalmente a produrre una forma di relazione reciproca ed un’attività che siano espressione della loro socialità, piuttosto che qualcosa di estraneo che li sovrasta e nei confronti del quale al massimo hanno la possibilità di “scegliere” l’una o l’altra determinazione particolare già data per ciascuno di loro. Infatti, la riappropriazione del tempo reso disponibile dall’aumento della produttività, che Schaff propone, non avrebbe luogo in uno spazio sociale nel quale gli individui, come individui possono cominciare a darsi problematicamente una comunità, cioè possono cominciare a porre liberamente i loro scopi e a ricercare le pratiche adeguate al loro raggiungimento in comune con altri uomini, bensì ha luogo in uno spazio nel quale l’attività (di studio) è “al pari del lavoro, determinata dalla costrizione esterna”.
Che cosa fare per non eludere il problema della libertà?
I cambiamenti sociali non possono essere prodotti con puri e semplici atti di volontà, con mere decisioni politiche, e tanto meno con progetti di ingegneria sociale elaborati a tavolino. “Se non trovassimo già occultate, nella società così com’è, le condizioni materiali del cambiamento tutti i tentativi di trasformazione sarebbero soltanto degli sforzi donchisciotteschi.”12 Il dato di fatto innegabile per i paesi industrialmente avanzati è che essi hanno raggiunto una capacità di produrre beni materiali incomparabilmente maggiore di qualsiasi altra epoca storica, e tale da far considerare come superato, a prescindere da questioni redistributive, lo stato di penuria. Il risvolto di ciò è che una quantità decrescente e tendenzialmente esigua di attività lavorativa deve essere impiegata nella riproduzione delle condizioni materiali dell’esistenza di quelle popolazioni, e ciò nonostante la riproduzione avvenga, o possa avvenire, su una scala sempre più allargata. Aumenta così il tempo disponibile, il tempo nel quale gli individui potrebbero agire liberamente, per costruire quelle relazioni umane che sin qui non erano possibili, e cioè senza la costrizione di uno scopo esterno alla loro personale volontà. E, tuttavia, questo aumento del tempo disponibile non è affatto qualcosa di cui gli uomini contemporanei facciano esperienza, e tanto meno essi sperimentano di avere una maggiore libertà rispetto al passato. C’è, anzi, una spinta a negare l’esistenza del tempo disponibile, che si esprime proprio nel tentativo di porlo nuovamente solo come un tempo di lavoro potenziale. Questa spinta scaturisce dal fatto che il tempo disponibile cresce in antitesi al tempo di lavoro come tempo di disoccupazione. E’ il bisogno che hanno i disoccupati di un lavoro che alimenta il meccanismo attraverso il quale il tempo disponibile viene necessariamente posto come tempo che deve di nuovo essere trasformato in tempo di lavoro. Questa struttura delle relazioni sociali si presenta come forza capace di impedire a ciascun singolo e alla società nel suo insieme di far esperienza del tempo disponibile, e di appropriarsene produttivamente. E’ essa che occulta per il tempo disponibile la sua natura di tempo disponibile.
Ma ciò avviene perché gli individui vivono ancora in uno stato di frazionamento e opposizione reciproca, e non si accorgono del legame generale che unisce la disoccupazione di alcuni all’aumento della produttività del lavoro di coloro che sopravvivono all’espulsione dal mercato del lavoro. Il mondo dei rapporti nell’ambito dei quali essi si riproducono appare loro come qualcosa di naturale, di talmente indipendente dalla loro volontà collettiva, che sentono di non poter far nulla anche per quegli individui loro vicini che evidentemente soffrono della disoccupazione.
Posizioni analitiche come quella della Manacorda sono pericolose perché, fornendo una falsa rappresentazione delle possibilità, tendono a consolidare questo stato di cose. Se, infatti, all’esperienza dell’impotenza individuale si accompagna l’illusione che il futuro delle società industrialmente avanzate sia tale da rendere possibile una nuova espansione del lavoro, e che questa espansione sia comunque indipendente da qualsiasi cambiamento gli individui possano imparare a praticare, l’indifferenza nei confronti della disoccupazione, accompagnata magari da altisonanti dichiarazioni di intenti, sarà legittimata.
Quando risulterà tuttavia evidente che, quanto più gli individui si sviluppano positivamente, tanto meno essi saranno capaci di porre i loro nuovi bisogni come domanda e l’attività produttiva come nuovo lavoro, l’obiettivo sociale prioritario non potrà essere diverso dalla redistribuzione del lavoro fra tutti, fondata su una drastica riduzione del tempo individuale dedicato a questa attività.13
Non è un caso che uno studioso equilibrato e interno alla borghesia come J.M. Keynes, gettando uno sguardo ai nostri giorni, abbia potuto candidamente sostenere già nel 1930: “Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo per noi stessi più cose di quante non ne facciano oggi i ricchi, ben felici di avere piccoli compiti, incombenze e routine da svolgere. Al di là di ciò, ci adopereremo per distribuire il lavoro che sarà rimasto da fare quanto più ampiamente è possibile e in parti accurate. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo”.14
Un paese come il nostro che, in questi anni, con le sue resistenza al thatcherismo e al reaganismo, sta facendo da inconsapevole avanguardia verso il futuro, dovrebbe finalmente acquisire la consapevolezza storica della priorità di questo obiettivo, affinché l’era elettronica non si trasformi senza necessità in un’era di insoddisfazione e sofferenza.
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Note
1. Karl Marx, Il capitale, libro III, vol. 3, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 232
2. Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, p. 317, La Nuova Italia, Firenze 1970
3. Abraham Kardiner, L’individuo e la sua società, Bompiani, Milano p. 162
4. Paul Riesman, Società e libertà, Jaca Book, Milano, p. 28
5. Karl Marx, Il capitale, Libro I, vol. 1, p. 195
6. Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. I, p. 214
7. Klaus Strzyz, Narcisismo e socializzazione, p.50, Feltrinelli, Milano
8. Milton e Rose Friedman, Liberi di scegliere, Longanesi, Milano, p. 17
10. Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. 1, p. 105
11. Questi riferimento alla pensione indica più di ogni altro elemento l’analogia che cerchiamo di sottolineare
12. Karl Marx, Lineamenti fondamentali …, cit. vol. I, p. 105
13. Non approfondiremo qui le ragioni per le quali questa riduzione del tempo individuale di lavoro debba intervenire a parità di salario, che abbiamo affrontato in altri scritti
14. John M. Keynes, Possibilities for our grandchildren, in The Collected writings, Macmillan London, vol. IX