Il Referendum sulle trivelle crea disoccupazione?

trivelle 6Cosa succederà all’occupazione il giorno dopo il referendum se il 17 aprile, raggiunto il quorum, la maggioranza degli aventi diritto voterà per il Sì al referendum contro le trivellazioni? Quanti posti di lavoro andranno persi, quanti disoccupati in più ci saranno, in quanti dovranno cercarsi un nuovo lavoro? Si tratta di un tema che sta ricorrendo sempre più spesso con l’avvicinarsi della data del referendum No Triv.

Chi conosce il territorio e non fa propaganda sa che le trivellazioni per l’estrazione di combustibili fossili (petrolio e gas) non risolvono il problema dell’occupazione, ma impoveriscono l’economia locale: lo dimostra anche il caso della divergenza tra il nazionale e il locale della categoria dei chimici della CGIL:
il segretario della Filctem ha infatti dichiarato di essere contro il referendum perchè una vittoria del sì porterebbe alla perdita di posti di lavoro, ma le segreterie lucane del sindacato si sono tutte espresse diversamente: “Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili rappresentano un passato fatto di inquinamento, dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici. Noi vogliamo un futuro basato sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili distribuite, un’economia sostenibile e equa, la piena occupazione e la democrazia partecipativa”.

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Articolo di Carmine Tomeo, da La Città futura, del 17 marzo 2016

La preoccupazione sul futuro occupazionale è legittima. Snobbare la questione sarebbe assolutamente sbagliato, perché le preoccupazioni sono avanzate anche da lavoratrici e lavoratori che, date la fase storica, la crisi economica che attanaglia milioni di persone, l’impossibilità a pensare un futuro, la precarietà di vita; date queste condizioni, dicevo, è normale difendere il proprio posto di lavoro di fronte alla sensazione che questo possa essere minacciato.

Un paio di settimane fa, in Abruzzo sono scesi in piazza centinaia di lavoratori. Con un sit-in a Pescara, quei lavoratori chiedevano alla Regione Abruzzo e al Governo l’apertura dello stato di crisi che sta colpendo il settore petrolifero ed energetico. Si stima, in Abruzzo, che siano a rischio oltre 200 dei circa 3 mila posti di lavoro del settore, senza considerare l’indotto. Nel ravennate negli ultimi 6 mesi si sono persi 900 posti di lavoro nel settore petrolifero. Sono due esempi che, come fa notare Enzo Di Salvatore, docente di diritto costituzionale all’Università di Teramo ed esponente No Triv, dimostrano che iltrivelle 7 referendum con la perdita dei posti di lavoro non c’entra niente. Di Salvatore afferma giustamente che “Il comparto degli idrocarburi è già in crisi”, pertanto “la perdita dei posti di lavoro non può essere attribuita al referendum, non essendosi questo ancora tenuto”. Eppure, proprio in questi termini, in maniera molto strumentale e di solito meschina, vengono spesso alimentati timori sugli effetti che una vittoria del Sì potrebbe avere sull’occupazione.

Il presidente del consiglio, Matteo Renzi in una recente intervista radiofonica parlava dimigliaia di licenziamenti in caso di vittoria No Triv con il referendum del 17 aprile. La questione, afferma Renzi, è che “chi propone il referendum dice di bloccare tutto alla prima scadenza utile, ma non si può bloccare a metà l’estrazione in nome di un principio ideologico”. Ma ancora Di Salvatore fa notare Mappa_piattaforme_trivelleche “in mare sarebbero presenti ben 135 piattaforme” e di queste “soltanto cinque
concessioni scadranno tra 5 anni. Tutte le altre scadranno tra 10-20 anni. E questo vuol dire che prima di quelle date non si perderà un solo posto di lavoro: almeno non per effetto del referendum”.

Il tema da affrontare – e che una vittoria del Sì potrebbe far emergere – è quello della strategia energetica da adottare a partire dai prossimi anni. E sarebbe un tema da prendere in considerazione con urgenza, non solo rispetto al problema impellente della tutela ambientale e della riconversione energetica, ma anche propriamente rispetto all’occupazione.

Stando ai dati della società di consulenza finanziaria e gestione del rischio, Deloitte che ha esaminato le condizioni di oltre 500 aziende del settore petrolifero, 175 rischiano la bancarotta per aver accumulato debiti per 150 miliardi di dollari. Ciò, nonostante quelle stesse aziende abbiano beneficiato di sussidi pari a 5.300 miliardi di dollari nel solo 2015. Secondo questo rapporto, la crisi del settore petrolifero è così grave da peggiorare i dati della Grande recessione. Cosa c’entra il referendum con questa situazione?

Niente, naturalmente. Anche la Cgil, con il segretario nazionale dei chimici, Emilio Miceli, si schiera contro il referendum affermando che si rischia di perdere migliaia di posti di lavoro.

Ma non tutti nella Cgil la pensano allo stesso modo. In Basilicata, il sindacato si è espresso a favore dei referendari: “Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili – si legge in un documento approvato da tutte le segreterie lucane della Cgil – rappresentano un passato fatto di inquinamento,  dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici. Noi vogliamo – si legge ancora – un futuro basato sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili distribuite, un’economia sostenibile e equa, la piena occupazione e la democrazia partecipativa. Vogliamo che il nostro Paese acceleri la transizione energetica, si doti di un piano industriale strategico per lo sviluppo sostenibile e di un piano per la decarbonizzazione che contribuisca a realizzare l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5° sancito nell’accordo della conferenza sul clima di Parigi”.

Per di più, è stata proprio la  Cgil ad aver prodotto rapporti che dimostrano quanto le realtà locali non possano certo sopravvivere di un’economia basata sul petrolio. Un esempio illuminante viene dalla Basilicata, la cui Val D’Agri è stata praticamente colonizzata dai petrolieri. Questa terra è interessata da importanti estrazioni petrolifere e qui sorge un importante Centro Oli dove avviene una prima lavorazione del greggio. Queste attività, si diceva, avrebbero dovuto portare occupazione e risorse economiche. Ma niente è andato per come veniva prospettato.

Già nel 2009, la Cgil mostrava che “complessivamente il numero dei lavoratori che costituisce il potenziale bacino di impiego è stimabile in circa 1.500; quelli dipendenti delle 24 aziende locali sono poco più di un terzo (550 addetti)”. Ovviamente è sempre sbagliato considerare l’inquinamento ambientale una possibile contropartita per l’aumento occupazionale. Ma in questo caso nemmeno questa considerazione può essere portata. Tanto che, ancora la Cgil per il 2015 ha stimato che il fabbisogno ordinario dell’attuale attività dell’Eni tra Centro Oli e pozzi di estrazione è rimasto sui 1.500 dipendenti. Ed a fronte di un aumento dell’occupazione nel settore, permangono importanti criticità, dovute a composizione della forza lavoro che spesso proviene da fuori regione, alla bassa qualificazione della mano d’opera ed al basso valore aggiunto delle attività svolte dalle imprese locali. E soprattutto, dovute al fatto che nel frattempo la disoccupazione in Basilicata è continuamente in crescita. Qualcuno potrebbe dire, a questo punto, ben venga l’industria petrolifera che porta qualche posto di lavoro. Ma non è così. La millantata correlazione tra petrolio e sviluppo va a sbattere contro i dati che parlano di aziende agricole dimezzate in dieci anni, disoccupazione che non smette di crescere ed emigrazione che non si arresta.

Il tema fondamentale che pesa sul referendum del 17 aprile, quindi, è quale sviluppo deve avere il nostro Paese. L’alternativa è tra un modello, quello legato alla produzione petrolifera, che genera profitti per pochissimi, impoverisce interi territori, che non ha futuro ma viene imposto dall’alto ad intere popolazioni; e un modello che, invece, promuova uno sviluppo sostenibile fondato su processi decisionali di cui siano partecipi i lavoratori, i cittadini di un territorio per scegliere cosa e come produrre.