I giovani francesi sono tornati a riempire prepotentemente le aule magne e occupare le piazze per protestare contro la Loi Travail della ministra del Lavoro Myriam El Khomri.
Articolo di Jamila Mascat, da Il Manifesto.
La chiamano la «sindrome del dentifricio» e la usano per descrivere le ondate di ribellione degli studenti francesi che dal ’68 in poi hanno scandito la storia dei movimenti sociali: una volta che la pasta fuoriesce dal tubo, è difficile rimetterla a posto.
È stato così nel 2006 quando l’esplosione implacabile delle manifestazioni studentesche è riuscita a far fare marcia indietro al governo Villepin sul Contratto di primo impiego (Cpe), un provvedimento che avrebbe permesso di licenziare senza giustificazione i dipendenti under 26 entro due anni dall’assunzione. E ora, nel corso degli ultimi dieci giorni, nonostante il clima asfissiante inaugurato quattro mesi fa da uno stato d’emergenza che continua a protrarsi e che François Hollande è appena riuscito a far integrare nella costituzione (art. 16), i giovani francesi sono tornati a riempire prepotentemente le aule magne e occupare le piazze per protestare contro la Loi Travail della ministra del lavoro Myriam El Khomri.
Jobs Act à la francese
Subito dopo la presentazione del testo a metà febbraio, nel giro di poco tempo la petizione Loi Travail, no merci! ha raccolto oltre un milione di adesioni da parte di studenti, lavoratori, sindacati e cittadini indignati, che chiedono il ritiro immediato della legge. Jobs Act à la francese, caldeggiato dal ministro dell’Economia Macron, laLoi Travail promette miracoli al Medef (la Confindustria), facilitando i licenziamenti economici, indebolendo il peso dei contratti collettivi, privilegiando gli accordi aziendali, permettendo l’estensione dell’orario di lavoro, riducendo i congedi e abbassando le soglie retributive degli straordinari.
Un attacco smisurato al diritto del lavoro in sintonia con quanto accade ovunque in Europa. Qui, come altrove, il governo prova a raccontarla come una favolosa rottamazione, ma i giovani (e i meno giovani) non credono alle favole: è chiaro che il ferro vecchio è la legge. «Ci riporta indietro, è di un’anacronismo spaventoso, perché smantella decenni di conquiste dei lavoratori», spiega alle telecamere, Claire da poco stagista in un’ong, che il 9 marzo ha partecipato alla prima manifestazione indetta dalle organizzazioni sindacali e studentesche (500mila persone, almeno 80mila a Parigi). «Ci prendono per scemi», secondo Elise, studentessa di lettere. «È una provvedimento che fa a pugni con la logica: consente di licenziare meglio, per licenziare meno».
Il licenziamento diventerebbe in effetti terapeutico, perché come recita il testo della legge «può permettere il risanamento di un’azienda», «ridurre la reticenza ad assumere» e «favorire» i contratti a tempo indeterminato. Non stupisce che approfittando della rima l’abbiano ribattezzata «legge cazzata» (loi el khomri/loi connerie).
Stato di guerra e delocalizzazione
Giovedì 17 marzo gli studenti (150mila) lanciavano, a distanza di una settimana, la seconda mobilitazione nazionale contro l’ultima versione rapidamente “ritoccata” della Loi Travail. Nei giorni precedenti il presidente del Medef, Pierre Gattaz, si era lamentato del passo indietro fatto dal premier Manuel Valls per andare incontro agli emendamenti suggeriti dalla Cfdt, il sindacato tradizionalmente più accomodante, che di fronte alla prima bozza del disegno di legge aveva comunque minacciato di aderire allo sciopero nazionale del coordinamento intersindacale previsto per il 31 marzo.
La manifestazione del 9 ha spinto Valls ha accelerare il restyling e, alla luce delle modifiche apportate, soprattutto per quel che riguarda le indennità in caso di licenziamento ingiusto e i margini di applicazione dei licenziamenti economici, il segretario della Cfdt, Laurent Berger, si è dichiarato soddisfatto. Ma soddisfatto è anche Gattaz, secondo cui «gli aspetti importanti del testo sono stati mantenuti», e anche se «la strada è lunga», il Medef è pronto a predisporre «un’organizzazione militare di lobbying» nei confronti del Parlamento, dove alcuni deputati del Partito socialista sono visibilmente scontenti di questa e altre trovate del governo. A differenza della Cfdt, la Cgt, l’Unef (il principale sindacato studentesco), Sud e altre sigle non sono disposte a trattare e vogliono che la legge venga ritirata in blocco.
Mickael Wamen, delegato Cgt, licenziato insieme ad altri 1142 operai della Goodyear di Amiens, che ha chiuso lo stabilimento nel 2014 per delocalizzare, denuncia lo «stato di guerra» in cui è precipitata la Francia di Hollande, davanti a un’assemblea generale contro l’état d’urgence organizzata dai comitati studenteschi di Paris 8 il 10 marzo. «È una guerra contro chi lavora, contro chi lavorerà, e contro chi resiste. Ed è una guerra combattuta con le armi della repressione, soprattutto con la repressione delle lotte sindacali». Ne sanno qualcosa lui e altri sette ex-dipendenti della sua fabbrica recentemente condannati a 24 mesi, di cui nove di reclusione, per aver “sequestrato” due dirigenti aziendali a gennaio del 2014. Il caso dei Goodyear è emblematico: sebbene l’impresa avesse ritirato la denuncia, il processo è stato portato avanti per volontà del procuratore della Repubblica, a ribadire la valenza politica della condanna.
Quella contro i diritti del lavoro, del resto, è solo una delle tante guerre che la Francia di Hollande sta portando avanti: insieme alle missioni militari in Mali e Repubblica Centroafricana, ai bombardamenti in Siria e in Libia, alla guerra contro i “nemici interni” o presunti tali, e alla criminalizzazione sistematica delle proteste come nel caso eclatante dei 317 manifestanti arrestati a Parigi il 29 novembre scorso per aver partecipato a un raduno vietato contro la Cop21.
Dopo una settimana di assemblee reiterate e partecipate da migliaia di studenti nelle università di Parigi e di Francia (in testa Paris 8 che riempie gli anfiteatri con oltre 700 persone), in vista della manifestazione del 17 i presidi della Sorbona e di altri istituti hanno decretato la sospensione della didattica e la chiusura dei cancelli, costringendo i ragazzi a improvvisare le riunioni all’aperto. «Hanno spedito una mail a 40mila studenti il giorno prima per annunciare che avrebbero chiuso il Centro di Tolbiac, ufficialmente “per proteggere la comunità universitaria”, spiega al megafono Renaud, iscritto al secondo anno di geografia a Paris 1 e membro del sindacato studentesco Solidaires. «Invece è stata una manovra ipocrita per impedirci di fare assemblea». Senza darsi per vinti, gli studenti di Tolbiac si riuniscono tutti al sole sulla Place de la Sorbonne. Sono 250, da lì convergono verso Place de la République dove è previsto un concentramento alle 14.00 con gli spezzoni sindacali, con quelli delle altre università e con i licei parigini e di banlieue che in mattinata hanno sfilato a Nation.
#OnVautMieuxQueÇa (Ci meritiamo di meglio) è l’hashtag virale dall’inizio della mobilitazione. «Meritiamo di più, vogliamo di più e possiamo fare di peggio» ribadisce su uno striscione enorme a metà del corteo. C’è anche chi chiede la revoca dello stato di emergenza e chi vuole le dimissioni di Valls e di un governo che, nonostante l’allure marziale, è pesantemente delegittimato dal calo dei consensi e dalle divisioni interne alla maggioranza.
Gli studenti di Paris 8 in marcia sono tantissimi. Da quando è cominciata la mobilitazione l’università è in festa e il ritmo degli appuntamenti serrato: assemblee dei dipartimenti, assemblee generali, commissioni di coordinamento, riunioni miste e non. Laura, dottoranda in Scienze politiche, è entusiasta: «È una gioia, sembra che finalmente tutti si siano accorti che Hollande e il Ps non sono di sinistra. Ci voleva questa legge, lo stato d’emergenza non era abbastanza. Allora forse a qualcosa è servita».
In linea con l’interventismo generoso del governo degli ultimi mesi, la giornata del 17 non poteva concludersi senza un blitz spropositato delle forze dell’ordine. A Strasburgo, Lione, Marsiglia, Nantes e Metz la polizia si è scagliata contro gli studenti. A Parigi, dopo la fine della manifestazione a Place d’Italie, una parte del corteo ha deciso di proseguire verso Tolbiac per protestare contro la chiusura improvvisa dell’università – «La réforme n’est pas bonne, on reprendra la Sorbonne». Quando i ragazzi nel tardo pomeriggio hanno forzato le grate per entrare e riunirsi nei locali dell’edificio, sono stati evacuati immediatamente da oltre 300 celerini in tenuta antisommossa.
Parola misurata, insulti banditi
Nel frattempo 150 studenti di 28 licei della capitale e delle periferie (oltre 200 le scuole bloccate) si sono riuniti in una sala in rue de Charonne per discutere del bilancio della giornata e lanciare un coordinamento regionale delle delegazioni. È vietato applaudire per non interrompere gli interventi, si fa come a Occupy, si ruotano le mani. Gli “adulti” non hanno diritto di parola, ma possono ascoltare in silenzio. E la parola è misurata: gli insulti sono banditi, le battute omofobe o sessiste vengono sonoramente fischiate.
Anche lo spezzone dei liceali in mattinata ha avuto a che fare con la polizia quando la testa del corteo ha deviato il tragitto e preso di mira le vetrine di qualche banca. Alcuni sono arrabbiati, perché si sono trovati impreparati a subire le conseguenze di un’azione che a quanto pare non era stata concertata. Altri ricordano che una vetrina rotta non è un delitto e che nel 68 si lanciavano i pavés. Per molti è la prima occasione di partecipare a una protesta di questo genere, e l’entusiasmo è pari allo spaesamento. Nathan, 17 anni, invece è membro dell’Npa (Nouveau Parti Anticapitaliste) da due. «Penso che certe cose possiamo farle se ci sono i numeri e se servono. E se siamo in 80 a fare a botte in questo momento non serve. Cerchiamo di essere un milione, perché quello sì che fa paura al governo». L’applauso parte lo stesso, ma qualcuno ricorda che non sta bene fare eccezioni. Alla fine si votano i rappresentanti che parteciperanno al prossimo coordinamento del 24 marzo.
La priorità condivisa è quella di far crescere il movimento, portare la mobilitazione dove non c’è ancora, dare un ossatura più solida ai comitati locali e cercare di fare squadra con tutti i “grandi”: gli universitari, i lavoratori, i precari e gli arrabbiati contro questa legge.
Nella speranza che la sinergia di studenti scatenati e lavoratori in lotta che aveva dato i suoi frutti 10 anni fa possa riconfigurarsi e cospargere il paese di dentifricio.
*Fonte: http://ilmanifesto.info/la-sindrome-del-dentifricio/