Reportage di Marina Forti per Internazionale del 23 gennaio 2016
Gli abiti che indossate probabilmente sono stati cuciti in un posto molto simile a Katunayake, alle porte di Colombo, nello Sri Lanka. È un villaggio di modeste case a un piano, galline che chiocciano nei cortili tra banani e alberi di mango, quasi nascosto dal verde intenso della vegetazione. Però siamo in una periferia urbana, a due passi dall’aeroporto internazionale della capitale srilanchese.
Soprattutto, siamo accanto a una “zona speciale per l’esportazione”, agglomerato di un’ottantina di stabilimenti in cui lavorano quasi 40mila persone: qualche azienda di componenti elettroniche, manifatture varie, ma per lo più fabbriche di abbigliamento che lavorano per committenti stranieri. Sfornano abiti che saranno venduti in tutta Europa e negli Stati Uniti, spesso con marche molto note.
Gocce di sudore
Il villaggio dall’aspetto rurale dunque è un sobborgo operaio a ridosso delle fabbriche. Qui alloggiano i lavoratori della zona speciale, mi spiega Chamila Tushari mentre scendiamo dall’autobus, sulla trafficatissima strada nazionale, e ci addentriamo tra i viottoli. “Zona speciale” significa che le aziende godono di esenzioni fiscali e altri benefici, concessi dal governo per favorire gli investimenti; quella di Katunayake, fondata nel 1978, è tra le prime del paese.
Richiama manodopera dalle campagne più lontane: “Sono per lo più donne, spesso molto giovani; arrivano da località distanti anche più di un centinaio di chilometri”. Chamila Tushari lavora in questo sobborgo da una ventina d’anni. Coordina il collettivo Dabindu, che significa “goccia di sudore”, organizzazione un po’ sindacale, un po’ sociale. Mi indica case adibite a pensionato: “Le operaie lavorano tra le 12 e le 14 ore al giorno, poi spendono buona parte del salario per pagarsi una stanza e il cibo”.
Le note marche occidentali hanno smesso da tempo di avere fabbriche proprie
Le lavoratrici di Katunayake però alimentano una delle principali industrie dello Sri Lanka. Tessili e abbigliamento sono la prima voce dell’export del paese, hanno generato oltre 4,7 miliardi di dollari di reddito nel 2014. Sono anche la seconda fonte di valuta straniera (la prima sono le rimesse degli emigranti). Secondo l’ente nazionale per gli investimenti, le prime tre aziende del paese esportano da sole merci per più di tre miliardi di dollari all’anno, quasi tutto negli Stati Uniti e in Europa, e sono tra i 50 maggiori fornitori di abbigliamento sul mercato mondiale.
La parola “fornitori” è appropriata. L’industria dell’abbigliamento è un sistema globale in cui, da un lato, ci sono imprese di paesi industrializzati che vendono abiti e abbigliamento sportivo, di solito con marchi noti; dall’altro, ci sono i produttori di quegli abiti.
Le note marche occidentali in effetti non producono più nulla. Hanno smesso da tempo di avere fabbriche proprie; si limitano a commissionare i loro modelli a fabbricanti sparsi in paesi a basso reddito e basso costo del lavoro, per lo più in Asia (una decina di paesi dell’Asia meridionale e del sudest oggi sforna il 60 per cento dell’abbigliamento mondiale, secondo dati dell’Organizzazione mondiale del commercio). Questo significa che l’impresa europea o statunitense non ha alcuna responsabilità verso gli operai che cuciono i suoi vestiti: non sono suoi dipendenti.
Connessioni opache
Tra le belle vetrine in Europa e le fabbriche asiatiche dunque c’è una rete complicata. L’impresa occidentale fa la sua ordinazione a un certo numero di imprenditori con cui ha un rapporto diretto; questi producono in proprio, in grandi stabilimenti con migliaia di operai, oppure subappaltano a piccole fabbriche. Un singolo marchio occidentale dunque può avere centinaia di fornitori. In mezzo ci sono intermediari, la catena si allunga, le connessioni sono opache.
Quando il 24 aprile del 2013 in Bangladesh è crollato il Rana Plaza (guarda il reportage Il vero prezzo della moda), uccidendo più di 1.100 persone (oltre a 300 ancora disperse, e più di 2.400 ferite), in quell’edificio lavoravano cinque imprese su commissione di alcune grandi marche occidentali (tra cui l’italiana Benetton): ma non è stato semplice individuare i nomi dei committenti, e in ogni caso questi non avevano nessuna responsabilità diretta.
Certo è che tra i “fornitori” c’è una concorrenza spietata: si aggiudica le ordinazioni chi offre il prezzo più basso. Facile indovinare che per tagliare i costi le imprese aumentano i ritmi di lavoro, comprimono i salari, tagliano sulla sicurezza. La corsa al ribasso ricade sui lavoratori.
Le operaie di Katunayake stanno all’estremo di questo sistema globale.
“Arrivano dalle campagne pensando di lavorare alcuni anni e mandare soldi alla famiglia, ma scoprono presto che qui la vita è molto dura”, dice Chamila Tushari. Lungo la strada noto manifestini affissi ai pali della luce: le aziende reclutano, con foto di donne dai sorrisi felici e una cifra stampata in grande, “puoi guadagnare fino a 24mila rupie mensili”, circa 150 euro.
“Ma non è vero. I lavoratori della zona speciale prendono al massimo tra le 17 e le 20mila rupie”. È sempre più delle diecimila rupie del salario minimo di legge, “ma per arrivarci devono fare almeno quattro ore di straordinario al giorno e guadagnarsi i bonus”. Un euro sono 156 rupie: dunque i salari vanno da circa 65 a 130 euro mensili, dipende tutto da voci come il “bonus di presenza” e i premi di produzione (più pezzi prodotti, più salario: è il vecchio cottimo). “Se fai due giorni di malattia perdi il bonus presenza. Il numero quotidiano di pezzi aumenta di continuo, se non ce la fai salta il premio di produzione. Per portare a casa 20mila rupie ti devi sfiancare”.
Anche nel migliore dei casi però “resta una paga da povertà”, osserva Tushari. Cita i dati dell’ente nazionale di statistica: considerato il “paniere” di prodotti essenziali, una famiglia di quattro persone ha bisogno almeno di 51mila rupie mensili. Gli operai dello Sri Lanka lavorano per salari ben al di sotto di questa cifra. Negli Stati Uniti li chiamerebbero working poor.
Il 60 per cento dei lavoratori nelle zone speciali per l’export soffre di anemia
Siamo arrivate al piccolo bungalow dove ha sede il collettivo Dabindu, due stanze e un cortile dove il sabato si tengono corsi sui diritti dei lavoratori, addestramento professionale, a volte gite. Il collettivo è nato trent’anni fa, fondato da un’attivista per i diritti sociali e un sindacalista. Hanno cercato sede qui, nel sobborgo operaio, perché era l’unico modo per entrare in contatto con i lavoratori: “Nella zona speciale è vietato l’ingresso agli estranei. La legge ha riconosciuto anche qui il diritto ad associarsi, ma nei fatti il sindacato è bandito e anche il nostro lavoro è molto malvisto”.
Vite precarie
Le aziende affermano di avere un deficit di manodopera, ma non per questo migliorano i salari. “Piuttosto, ormai assumono anche adolescenti, ragazze di 15 o 16 anni”, spiega Arul Joseph, dirigente della National free trade union, confederazione di sindacati indipendenti, che ci ha raggiunto nel bungalow di Katinayaka. Oppure reclutano attraverso le agenzie di lavoro a contratto, continua: “Li chiamiamo ‘lavoratori manpower’, fanno lo stesso lavoro dei dipendenti diretti ma sono più precari, e sono pagati meno perché l’agenzia trattiene una percentuale del salario”.
Di recente le aziende hanno reclutato anche tamil chiamati dal nord del paese, aggiunge il sindacalista. È la minoranza etnicolinguistica dello Sri Lanka, travolta da una guerra interna durata 25 anni e finita sei anni fa in modo sanguinoso, con i ribelli armati sterminati dall’esercito e gran parte dei civili costretti a sfollare. Le ferite sono ancora aperte, la normalizzazione è lenta; solo ora i profughi interni si avvicinano a cercare lavoro. “Sono i meno sindacalizzati, i più vulnerabili”, osserva la coordinatrice del collettivo operaio.
Chamila Tushari cita un’indagine condotta nel 2009 dal ministero del lavoro dello Sri Lanka, da cui risulta che il 60 per cento dei lavoratori nelle zone speciali per l’export soffre di anemia: non possono permettersi il cibo sufficiente. Parla di malnutrizione, disturbi riproduttivi, malattie da stress. Vite precarie: “Arrivano in fabbrica ragazze sempre più giovani. Magari si legano a un uomo, a volte restano incinte, e allora scoprono che lui aveva già una famiglia o comunque scompare: abbiamo visto aumentare le giovani madri single, alcune appena quindicenni”.
Portano il bambino ai nonni, subiscono tutta la riprovazione sociale. Se si sposano, finiscono comunque per lasciare i figli ai parenti, al paese: come tenerli, con 14 ore al giorno in fabbrica? Così dice Mathika, una delle operaie che a volte si fermano nel piccolo bungalow di Dabindu, dopo il lavoro. Lei lavora a Katunayake dal 2003; abbandonata dal marito è tornata al paese con un figlio, ma poi lo ha lasciato ai nonni per tornare in fabbrica. Almeno è indipendente, dice: “Che altro potrei fare?”.
Ovunque i carichi di lavoro aumentano, i salari reali calano, gli straordinari sono la regola
Il collettivo Dabindu ha pubblicato opuscoli su salute riproduttiva, contraccezione, educazione alimentare, diritti delle donne. Pubblica anche un bollettino – i primissimi numeri erano ciclostilati. All’inizio, dice Tushari, tra i dormitori era difficile perfino distribuire volantini, tanta era la diffidenza; ora sempre più lavoratrici si fanno avanti, nonostante le intimidazioni.
“In Sri Lanka abbiamo una legislazione progressista sul lavoro, ma non è applicata”, dice Arul Joseph. Cita un’assemblea sindacale con centinaia di operai, fuori orario: l’azienda ha filmato, ha identificato i partecipanti e li ha chiamati uno per uno, con un messaggio semplice: se ti iscrivi al sindacato sei fuori.
È recente anche il caso di Smart Shirts Lanka, una delle aziende più importanti a Katunayake (è di Hong Kong, ha altre filiali in Cambogia e Vietnam); qui ha 3.600 dipendenti e produce per la marca Next. “Quando l’azienda ha saputo che quasi trecento operai avevano deciso di iscriversi alla Commercial and industrial workers union, ha licenziato i più attivi e ha mandato i suoi thug, picchiatori, a minacciare gli altri. Molti hanno restituito la tessera del sindacato, e hanno firmato una dichiarazione che non si sarebbero iscritti”. Sono pratiche illegali, osserva Joseph, “ma come dimostrarle? I lavoratori terrorizzati non testimonieranno, e l’azienda resta impunita”. Ma ormai, aggiunge sarcastico, “tutto lo Sri Lanka è una export processing zone”.
I racconti dei sindacalisti dello Sri Lanka non sono molto diversi da quanto descrivono attivisti e rappresentanti sindacali in India, in Cambogia, in Indonesia e in Bangladesh, riuniti il mese scorso a Colombo. L’occasione era una sessione del Tribunale permanente dei popoli, l’istituzione fondata da Lelio Basso, organizzata insieme alla Asia floor wage alliance, una rete di sindacati e organizzazioni non governative di tutta l’Asia. Era la conclusione di una serie di “tribunali” nei paesi citati (escluso il Bangladesh), un lavoro di indagine durato quattro anni a cui hanno partecipato sindacati, lavoratori (quasi sempre lavoratrici), autorità pubbliche, in qualche caso rappresentanti delle aziende, insieme a esperti e giuristi e qualche giornalista (chi scrive era nella giuria di quella sessione del Tribunale dei popoli).
Consumarsi in fabbrica
“Dalle testimonianze che abbiamo raccolto risulta che ovunque i carichi di lavoro aumentano, i salari reali calano, gli straordinari sono la regola e le norme su paghe e orari non sono sempre rispettate”, riassume Annanya Bhattacharjee, coordinatrice della Asia floor wage alliance e presidente del sindacato indiano Garment and allied workers union. La pratica di arruolare lavoratori interinali, come a Katunayake, è sempre più diffusa: con il risultato di limitare garanzie e diritti.
Sono comuni anche le storie di intimidazione verso chi si avvicina ai sindacati: in particolare (ma non solo) nelle “zone speciali”, che si moltiplicano in tutta l’Asia. Spesso le proteste sono state represse con la forza, dal Bangladesh alla Cambogia.
Dopo il crollo del Rana Plaza le dichiarazioni di solidarietà si sprecano ma non è cambiato molto
In tutti questi paesi i lavoratori dell’abbigliamento sono in gran parte donne: di solito provenienti da zone rurali o comunque dagli strati più vulnerabili della società. Tutte hanno riferito di orari di lavoro massacranti, maltrattamenti e insulti, o di straordinari non contati nella busta paga. Molestie sessuali, miserie quotidiane – perfino le pause per la toilette negate, anche nei giorni mestruali: impressionante sentire giovani operaie che sfidano pregiudizi e intimidazioni per testimoniare cosa significa consumarsi in fabbrica.
Se c’è un caso che ha scosso il mondo è quello del Rana Plaza in Bangladesh: un esempio brutale delle condizioni di lavoro in questa industria. “Da allora le dichiarazioni di solidarietà si sprecano, ma per le lavoratrici non è cambiato molto”, osserva Rokeya Kabir, attivista di un’associazione per il sostegno legale alle lavoratrici, la Bangladesh nari progati sangha. “Il governo ha istituito un ‘fondo di soccorso e welfare’ per le vittime e le loro famiglie, che ha raccolto 16 milioni di dollari. Quasi due anni dopo però ne ha distribuito appena il 15 per cento, molti non hanno ancora visto un centesimo. Nelle fabbriche il lavoro è ripreso come prima”.
Dopo la tragedia il salario minimo dei lavoratori dell’abbigliamento è stato aumentato, ora raggiunge l’equivalente di 68 dollari: “Le imprese però hanno aumentato i ritmi, se prima davano target di 36 pezzi cuciti in un’ora, ora arrivano fino a 120”.
Il diritto al salario vitale è un diritto umano
Dunque neppure una tragedia come quella del Rana Plaza ha indotto a migliorare il lavoro nell’industria dell’abbigliamento? “Sì, ci sono state ispezioni sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, ma si moltiplicano le piccole aziende, in subappalto, che non rispettano le misure di sicurezza e sfuggono ai controlli”, spiega ancora Rokeya Kabir. Il governo di Dhaka ha firmato un “programma di sostenibilità” (Sustainability compact) con l’Unione europea e l’Organizzazione mondiale del lavoro, per migliorare la sicurezza.
Hanno aderito numerose imprese europee e statunitensi che tengono alla propria immagine. Del resto, da ormai vent’anni si parla di “codici di condotta” e “responsabilità sociale d’impresa”: tutti impegni volontari – e secondo gli attivisti della rete Asia floor wage, hanno dimostrato il loro fallimento. “I marchi internazionali sono parte di questo sistema di produzione decentrato, e sono collettivamente responsabili delle condizioni di lavoro lungo tutta la catena”, dice Annanya Bhattacharjee, “ma non c’è un meccanismo internazionale a cui debbano rispondere”.
“È chiaro che i lavoratori non riescono a vivere con i loro salari, ma non hanno alternative”, dice Ashim Roy, dirigente del sindacato indiano New trade union initiative e uno dei promotori della Asia floor wage campaign. Anche dove i salari minimi di legge sono rispettati, restano sotto la soglia di povertà: come nello Sri Lanka.
Per questo la rete Afwa preferisce parlare di living wage, un salario che permetta di vivere. Propone un calcolo preciso: la somma necessaria a garantire tremila calorie al giorno per persona, per una famiglia di due adulti e due bambini, oltre a un alloggio, la scuola e l’accesso a servizi sanitari. “In ogni paese, aziende e governi sostengono che se si aumentano troppo i salari il paese perde competitività, rischia gli investimenti stranieri”, continua Roy, perché le aziende andranno a cercare aziende con il costo del lavoro più basso.
Così i sindacati puntano a una campagna sovranazionale. Dicono che è urgente riconoscere un “salario vitale” come diritto umano fondamentale, come il diritto al cibo, alla salute, a un alloggio. Sostenuta da ong europee e americane, come la Clean cloth campaign, l’idea ha cominciato a trovare ascolto presso l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil): la rete di sindacati asiatici spera che l’Oil la includa tra i suoi princìpi fondamentali.
A Katunayake di “codici di condotta” non si vede traccia, e neppure di living wage. Una sera seguo Chamila Tushari in un pensionato operaio: un grande cortile su cui si affacciano diverse costruzioni a un piano, con file di stanze che ora vedo illuminate. Ciascuna con una finestra, letto e qualche mobile – un armadio, un tavolino. In quelle più grandi vivono famiglie, vedo bambini seduti a terra a fare i compiti. Qualcuno lava i piatti alla fontanella nel cortile, uomini appena tornati dal lavoro si lavano a un’altra fontana; i servizi igienici sono in fondo, comuni.
Una ragazza invita a entrare: si sta preparando la cena per terra, su un fornellino da campeggio. Lavora per la Next, dice, come la sua vicina. Paga 2.500 rupie per la stanza, poi c’è da comprare il cibo e da mandare soldi a casa. Altri pensionati prendono anche tre o quattromila rupie, spiega. Sul tavolino c’è una bella radio accesa: insieme al telefonino, è l’unico segno di comfort. Il silenzio cala presto; nella vicina casa padronale è ora di cena, i guardiani sbarrano i cancelli del “pensionato”. Torniamo sulla strada nazionale tra il gracidio delle rane e il frastuono degli aerei che decollano.