Electrolux: risultati della ricerca sulle condizioni di lavoro in tre stabilimenti

Electrolux-inchiesta-768x576Pubblichiamo l’inchiesta condotta da Fiorella Longobardi in tre dei quattro stabilimenti italiani della multinazionale svedese Electrolux, durante la mobilitazione che nel 2014 si è opposta alle minacce di delocalizzazione e licenziamenti di massa.

Inchiesta sulle esperienze operaie pubblicata da connessioniprecarie.org

La situazione negli stabilimenti di Electrolux è un esempio molto chiaro di come la precarietà sia entrata in fabbrica e dell’insieme di trasformazioni che l’hanno prodotta nell’ultimo ventennio, rendendola un fatto attuale ben al di là della persistenza di contratti di lavoro a tempo indeterminato. Le politiche attive per le pari opportunità sono state, a partire dagli anni Novanta, una delle prime leve attraverso le quali introdurre processi di «flessibilizzazione» sulla pelle delle donne, che tuttora costituiscono una parte consistente della forza-lavoro di Electrolux e centrale delle sue strategie produttive. La delocalizzazione, l’intensificazione dei ritmi di lavoro e l’abbassamento dei salari sono parte essenziale del processo che ha reso instabile ogni posizione lavorativa. L’organizzazione di tempi e spazi di lavoro, inoltre, ha avuto il preciso obiettivo politico di disciplinare la forza lavoro e di ostacolare ogni possibilità collettiva di riconoscimento anche per coloro che si trovano a lavorare lungo una stessa catena. Questa segmentazione perseguita sistematicamente attraverso la delocalizzazione e la limitazione degli spazi di comunicazione e socialità nel corso della giornata lavorativa non è però riuscita a impedire la costruzione dei legami che hanno reso possibile la mobilitazione del 2014. Risalta la consapevolezza che il proprio destino sfugge ormai alla dimensione territoriale e nazionale. I lavoratori e le lavoratrici intervistate affermano la propria connessione con i lavoratori e le lavoratrici degli stabilimenti Electrolux dell’Europa orientale, benché questa connessione non sia ancora né organizzativa né politica, anche a causa di un’inerzia del sindacato tendenzialmente percepito come struttura di servizio e cogestore delle politiche padronali. Lungi dall’essere segno del passato, queste lunghe esperienze operaie mostrano l’urgenza presente di sperimentare forme di lotta e comunicazione efficaci, capaci di unire gli spazi all’interno e all’esterno della fabbrica transnazionale della precarietà.

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La necessità di un’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Electrolux è emersa dalla vicenda politica ed economica che ha riguardato i lavoratori dei quattro stabilimenti italiani di Forlì, Porcia (PN), Solaro (MI) e Susegana (TV) a partire dall’ottobre 2013, quando la multinazionale ha annunciato una pesante ristrutturazione dei siti e la chiusura di quello pordenonese. All’indomani delle dichiarazioni aziendali la mobilitazione operaia è stata immediata con presidi permanenti, scioperi, blocchi della produzione a cui hanno partecipato diffusamente lavoratrici e lavoratori: in ballo c’erano millecinquecento licenziamenti e la parziale o totale delocalizzazione delle produzioni italiane negli stabilimenti dell’Est-Europa. Nella partita tra lavoratori, governo e sindacati le regioni Emilia-Romagna, Friuli Venezia-Giulia[1], Lombardia e Veneto hanno ricoperto un ruolo di mediazione, perché interpellate a gran voce dai lavoratori e soprattutto perché coinvolte nelle trasformazioni del tessuto produttivo del territorio. Nell’accordo firmato dalle diverse parti nel maggio 2014, la multinazionale svedese si impegnava a mantenere attivi gli stabilimenti, a investire nuovi capitali e a rinunciare ai licenziamenti previsti inizialmente dai piani aziendali. In cambio, essa otteneva un risparmio di tre euro all’ora sul costo del lavoro, attraverso un piano di velocizzazioni delle linee di montaggio e di de-contribuzione dei contratti di solidarietà, un sostegno per l’innovazione grazie a finanziamenti statali e degli Enti locali, maggiore flessibilità e aumenti della produzione.

La ristrutturazione del 2014 si colloca all’interno dei processi di flessibilizzazione e disciplinamento della manodopera, in atto da oltre vent’anni e frutto di specifici rapporti sociali, caratterizzati dal progressivo indebolimento contrattuale dei lavoratori a fronte della capacità della multinazionale di muoversi globalmente. Nel settore elettrodomestico europeo dagli anni ’80 alla metà dei 2000 si sono avuti due decenni di espansione dei volumi, di raddoppio delle vendite e, contemporaneamente, una riduzione degli occupati. La diminuzione progressiva dell’organico negli stabilimenti italiani si è accompagnata all’aumento complessivo dell’orario di lavoro, a maggiori margini di flessibilità a favore delle direzioni aziendali e a un consistente turnover[2]. Negli anni Novanta, il modello partecipativo delle relazioni sindacali ha cominciato a risentire delle continue richieste di flessibilizzazione, fino ad andare in crisi davanti alla conflittualità presente nelle fabbriche manifatturiere. L’intensificazione della prestazione di lavoro è infatti un processo continuo che è stato solo parzialmente rallentato dalle capacità operaie di contrastarla. Questo non ha impedito, a cavallo degli anni 2000, la cessazione del vincolo di cadenza di un minuto su alcune linee di produzione nei quattro stabilimenti, mettendo nero su bianco le nuove velocizzazioni. Il vincolo a un minuto era disciplinato da un accordo del 1975 pensato per contrastare l’aumento dei ritmi, ma oggi si è arrivati a produrre un elettrodomestico ogni quarantadue secondi.

La perdita del potere contrattuale è un processo che ha subito un’accelerazione a partire dalla metà degli anni 2000 a causa del forte calo della domanda nel continente europeo, della diminuzione degli utili del settore elettrodomestico e del clima economico allarmato dalle trasformazioni del mercato internazionale competitivo (OECD 1994) e poi dalla crisi. La multinazionale ha iniziato a delocalizzare[3] alcune produzioni italiane in Polonia, Ungheria e Russia avviando il «decennio degli esuberi» e mettendo in campo uno stato di crisi che ha motivato forti riorganizzazioni dei processi produttivi secondo i principi della lean production. Negli ultimi anni i processi di intensificazione del lavoro sono stati avviati a più riprese e l’ultimo aumento di produttività sulla pelle operaia è rappresentato da novanta pezzi all’ora con un aumento del 10% rispetto al periodo precedente. La multinazionale si serve della possibilità di attingere ai nuovi bacini di forza-lavoro per piegare le necessità dei lavoratori alle esigenze produttive e, sotto la scure della minaccia della delocalizzazione[4], l’organizzazione sindacale perde la sua influenza nelle sedi di negoziazione.

«Un questionario sulle condizioni di lavoro? Non basterebbe un’enciclopedia!»[5]

Il percorso di «conricerca»[6], avviato durante le proteste contro la riorganizzazione annunciata dalla direzione aziendale, è stato svolto in modalità diverse ma ha coinvolto lavoratori e lavoratrici di entrambi gli stabilimenti. Abbiamo così organizzato una serie di riunioni preliminari con lavoratori e delegati sindacali di area prevalentemente FIOM che ci hanno fornito informazioni importanti, partecipando attivamente alla costruzione e alla stesura del questionario distribuito successivamente. La partecipazione dei lavoratori e dei delegati è stata cruciale nella distribuzione e nella raccolta dei questionari, avvenute fuori dai cancelli degli stabilimenti di Forlì, Porcia e Susegana tra febbraio e aprile 2015. Abbiamo distribuito circa 2500 questionari raccogliendone 413. La partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori è stata quindi elevata. I dati qui presentati sono già stati presentati ai gruppi di lavoratori coinvolti fin dall’inizio, che hanno potuto commentarli.

Il Gruppo Electrolux occupa circa 25.000 persone in Europa, quasi 6.200 in Italia, di cui circa 3860 operanti nei quattro stabilimenti: 800 a Forlì, dove si producono piani cottura e forni; 1100 a Porcia (PN), dove si producono lavabiancheria e lavasciuga; 1000 a Susegana (TV), dove si producono frigoriferi e congelatori; 960 Solaro (MI), dove si producono lavastoviglie[7]. Nella media degli stabilimenti la presenza di manodopera femminile equivale a metà del totale, mentre il numero di migranti rappresenta circa il cinque per cento. Questa ricerca prende in considerazione solo i primi tre stabilimenti, ed esclude Solaro, a causa di una mancata collaborazione all’indagine da parte della segreteria provinciale FIOM Milano.

Si ritiene che il campione sia relativamente rappresentativo per quanto riguarda le dimensioni di genere, età, provenienza sociale e sindacalizzazione. Tuttavia, se la metà degli intervistati non è mai stato iscritta al sindacato, tra quelli iscritti risulta preponderante la componente FIOM rispetto alla UILM e alla FIM[8]. Il campione è inoltre rappresentativo della categoria operaia e non di quella impiegatizia, rispetto alla quale i dati raccolti sono insufficienti.

Composizione sociale

Gli intervistati, quindi, sono operaie e operai metalmeccanici degli stabilimenti di Forlì, di Porcia e di Susegana: tre dei quattro stabilimenti della multinazionale in questione che si trovano in territorio italiano. I 413 rispondenti sono composti da 240 donne e 173 uomini, la cui età media si aggira intorno ai 45 anni. La maggioranza è italiana, anche se uno su dieci è nato in terra straniera. Tra i nati all’estero si distinguono cittadini italiani, figli di migranti italiani rimpatriati (5%) e migranti (4%). Tutti gli operai lavorano per Electrolux da almeno 10 anni, ovvero dall’anno in cui l’azienda ha varato il suo ultimo piano di assunzioni nel 2005, ma generalmente l’anzianità di lavoro complessiva è mediamente più alta, aggirandosi intorno ai 20 anni. A una lunga esperienza di fabbrica conseguono necessariamente anche continuità dell’occupazione e del salario, stabilità dei rapporti sociali, legame con il territorio, dimensioni tese a costruire un’identità lavorativa forte, che si discosta nettamente dalle incertezze vissute da larga parte sia della forza lavoro precaria sia di quanti sono occupati in piccole imprese. Oltre la metà degli intervistati proviene da una famiglia di origine operaia, ma non ha goduto di alcuna mobilità sociale; la gran parte è entrata nel mondo del lavoro prima della maggiore età, anche a fronte del possesso di un titolo di istruzione superiore (circa il 60%), iniziando quindi a lavorare durante il percorso scolastico.

La maggior parte delle persone proviene dall’area circostante le fabbriche e si muove con mezzi privati per raggiungere il posto di lavoro. Nel caso di Porcia, tuttavia, i lavoratori provengono da zone lontane impiegandoci fino a un’ora per arrivare nel posto di lavoro e usano più frequentemente gli autobus.

Livelli di inquadramento: una questione di genere

I lavoratori sono operai inquadrati principalmente al terzo (61%) e al quarto (27%) livello. Il terzo livello è composto prevalentemente da donne. Si tratta di stabilimenti in cui vigono ancora molte regole di salvaguardia dei diritti dei lavoratori: gli occupati sono tutti assunti con un contratto a tempo indeterminato e quindi possono contrastare almeno in parte la possibilità di essere licenziati su due piedi, grazie allo Statuto dei Lavoratori. Tuttavia in quest’universo di «garantiti» la percezione dell’insicurezza occupazionale è sensibilmente cresciuta negli anni. Ad accendere l’allarme sulla sicurezza dell’occupazione ci sono sia le continue riorganizzazioni produttive, le delocalizzazioni di parte delle produzioni italiane negli stabilimenti gemelli situati in Est-Europa, ma anche le trasformazioni in seno a un mercato del lavoro in crisi, che mostra i suoi effetti attraverso la chiusura delle fabbriche vicine, la crescita degli indici di disoccupazione del paese e le politiche del lavoro votate alla flessibilità.

Dall’ annual report pubblicato dalla società si evince che un terzo dei dipendenti della multinazionale a livello mondiale è composto da lavoratrici. L’uso di manodopera femminile è elevato rispetto alla media europea che si mantiene sotto la soglia del 20% (Eurostat 2014), che peraltro risulta essere anche la media italiana del settore metalmeccanico. A dispetto della sproporzione di genere che si registra a livello europeo e nel settore metalmeccanico italiano, in Electrolux l’impiego di forza-lavoro femminile è diffuso.

Negli stabilimenti di Forlì, Porcia e Susegana è possibile notare una distribuzione regolare della forza lavoro per quanto riguarda il genere, sebbene sia molto evidente la concentrazione delle donne al terzo livello (70%), mentre figurano raramente nei livelli quarto e quinto, composti invece da forza-lavoro maschile. Il grande aumento della proporzione della manodopera femminile in azienda è una conseguenza delle politiche del Progetto Ipazia per la promozione delle Pari Opportunità, iniziato nel 1989 e terminato nel 1994: «la strategia aziendale richiedeva di passare dal modello tayloristico a un sistema organizzativo orientato ai processi, meno strutturato, più flessibile, meno gerarchico e più partecipativo. Poiché le caratteristiche comportamentali coerenti con questa esigenza sono patrimonio più del femminile che del maschile, era necessario aumentare fortemente la componente femminile, facilitando l’accesso soprattutto ad alcuni mestieri, abbattendo stereotipi e ostacoli alla conciliazione dei tempi»[9]. Alla metà degli anni Novanta tra gli operai di terzo livello la manodopera femminile passa così da meno di un quarto a oltre la metà. Nonostante le premesse aziendali per una fabbrica che doveva valorizzare il femminile, i risultati della nostra ricerca evidenziano come le lavoratrici in Electrolux sono segregate nei livelli contrattuali più bassi, lavorano in catena di montaggio più frequentemente e ricevono salari inferiori rispetto agli uomini. La bassa qualificazione a cui sono mantenute le donne garantisce il contenimento del costo del lavoro, ma costituisce anche una strategia di gestione della fabbrica. I processi di genderizzazione così come quelli di etnicizzazione del mercato del lavoro interno non sono ovviamente limitati all’Electrolux e nei tre diversi contesti locali, ma fanno parte del patrimonio comune di molte altre imprese.

La lenta erosione salariale

I risultati evidenziano che su 10 lavoratori 3 sono monoreddito, 5 percepiscono un altro reddito da lavoro (solitamente il coniuge), mentre i rimanenti possono contare anche su redditi da pensioni ed entrate di diversa entità provenienti da altri familiari. Nelle famiglie dei lavoratori sono sostanzialmente scomparsi i nuclei familiari allargati, lasciando il posto alla famiglia nucleare, ovvero nuclei familiari composti da un numero ristretto di membri con stretti legami di parentela (genitori-figli). Malgrado molti dei rispondenti siano proprietari dell’abitazione in cui risiedono, per il 40% di essi l’affitto o il mutuo rappresentano una voce importante tra le spese familiari.

Inoltre, 2 lavoratori su 10 sono indebitati con istituti privati o familiari, segnalando una certa incapacità del reddito familiare di soddisfare gli standard di vita. La percezione della crisi economica e aziendale aggrava ulteriormente il quadro delle condizioni di vita dei metalmeccanici Electrolux. Il 70% degli intervistati afferma, infatti, che negli ultimi anni è cresciuta notevolmente la preoccupazione per il futuro della propria condizione economica e familiare. Si tratta di un sentimento diffuso anche perché, nelle loro reti sociali e relazionali, i lavoratori entrano sempre più spesso in contatto con lavoratori precari. La percezione di instabilità è un elemento centrale anche per questi operai a tempo indeterminato poiché si sono progressivamente disgregate le forme del collettivo che travalicava le mura delle fabbriche.

Questa situazione incide sugli abituali stili di consumo: nonostante gli intervistati non siano interessati dalla precarietà lavorativa e mantengano un livello salariale quasi costante, rinunciano in particolar modo ad acquistare capi d’abbigliamento, a fare regali e alle vacanze. Si soddisfano i bisogni primari indispensabili quali l’alimentazione e la spesa per i figli, ma comincia a crescere il numero di coloro che evita le cure mediche quando il costo di queste risulta elevato (17%). D’altra parte, pur disponendo di un salario fisso mensile essi svolgono lavoro straordinario solo secondo modalità molto strutturate e le ore supplementari vengono regolarmente conteggiate nelle buste paga. All’esterno delle tre fabbriche molti dei lavoratori occupati in piccole e medie imprese possono invece contare sovente su introiti non sempre dichiarati grazie alle pratiche del lavoro straordinario pagato in nero. Ѐ pur vero che per gli uni e per gli altri è sempre possibile ricorrere al secondo lavoro, ma il periodo di crisi ha limitato questa pratica.

L’orario flessibile

Nel maggio 2014, la stipula dell’accordo tra azienda, governo e sindacati ha introdotto i contratti di solidarietà, ammortizzatore previsto nei casi di crisi produttiva. Tale misura prevede la riduzione del monte ore lavorative e alcuni vantaggi decontributivi per la multinazionale. Secondo i dati raccolti, la riduzione dell’orario di lavoro a sei ore ha rappresentato un miglioramento delle condizioni di lavoro per una parte dei lavoratori (33%). A partire dagli anni ’90 Electrolux ha fatto largamente uso della flessibilità oraria. Ad esempio, è stata tra le prime grandi imprese a sperimentare contratti di telelavoro, banca delle ore, job-on-call. Le misure che hanno dimostrato maggiore efficacia nella regolazione dei tempi e dei ritmi della forza lavoro sono stati i contratti d’inserimento con periodo di formazione, l’uso sistematico nei picchi produttivi di contratti stagionali a tempo determinato, il 6x6x3.

Negli stabilimenti di Forlì e Porcia, il passaggio recente dalle 30 alle 40-48 ore settimanali, ovvero il ripristino del classico regime orario delle 8 ore più il frequente ricorso agli straordinari, è causa di un forte malcontento della base dei lavoratori, maggiormente interessati dagli aumenti dei volumi produttivi. Inoltre alle 40 ore settimanali di lavoro di fabbrica, le donne devono poi aggiungere circa venti ore settimanali per il lavoro domestico.

Questi lavoratori da un lato mettono in dubbio la realtà della decantata crisi del gruppo svedese e, dall’altra, denunciano l’insostenibilità del numero di ore a fronte dell’intensificazione dei ritmi. Uno degli eventi più significativi di questo gioco di forze è rappresentato dal casus belli estivo: per la festività di Ferragosto del 2015, la direzione di Susegana ha voluto azionare due linee dello stabilimento grazie a una trentina di operai (poi diventati un centinaio) recatisi al lavoro su base volontaria. Il sindacato ha denunciato la chiamata al lavoro a Ferragosto mentre la questione rimbalzava sui media locali e nazionali. Non poche sono state le considerazioni secondo le quali in un periodo di crisi occorreva accettare i sacrifici e le opportunità offerte dalle aziende per competere nel mercato globale. I lavoratori in generale paiono di parere diverso: «oggi sembra che i lavoratori che non vanno a lavorare il 15 agosto siano una vergogna, se l’azienda ha bisogno si fa, io sfiderei chiunque domani a farlo loro… io l’ho vissuta non tanto come un discorso di necessità, noi due giorni dopo rientravamo tutti dalle ferie, il 15 agosto era sabato, lunedì 17 tutta la fabbrica funzionava! Fare i frigoriferi che hanno fatto loro a Ferragosto, se li han fatti… Lì secondo me c’è un ragionamento che dice in sostanza che tutti i giorni sono uguali, […] è un messaggio riuscito bene che ha sfondato, e secondo me aveva questo scopo».

Veloci, senza fermarsi mai

«Il lavoro di linea di montaggio, è vero, è alienante ma lo si accetta perché ci si sente comunque partecipi di questa società. A me personalmente non dispiace. Quello che mi preme dire è che anche questa tipologia di lavoro è servita e servirà anche in futuro perché l’abilità della manualità velocizzata è comunque una dote non da tutti. Ma fino a dove volete arrivare a usarci?» (D., lavoratore, Porcia)

«Vado così veloce tutto il giorno che poi non posso fermarmi, capisci? E allora metto a posto casa, devo sempre tenere la tv accesa che il silenzio non lo sopporto» (M., lavoratrice, Forlì)

L’organizzazione del lavoro nei tre stabilimenti si basa essenzialmente sulla catena di montaggio: il 61% degli intervistati, cioè tutti coloro che sono inquadrati al terzo livello, lavora in linea con tempi vincolati e movimenti ripetitivi. Gli stabilimenti operano con catene di montaggio diverse. A Susegana l’impianto è detto a tapparella, cioè a ciclo continuo: ogni persona ha 42 secondi per compiere la propria prestazione lavorando in «linee lunghissime che vanno avanti e non si fermano mai». A Forlì e Porcia la catena è frizionata a bottone: «se hai da fare novanta pezzi all’ora, tra una persona e un’altra ci possono stare un po’ di pezzi, chiamati polmoni […]. A Susegana hanno ancora la tapparella, anche noi corriamo, ma almeno possiamo gestirci qualche pezzo tra una postazione e l’altra».

Alla forza lavoro manuale si accosta un livello di automazione notevole: in Italia Electrolux produce merci che si collocano in un segmento alto di gamma e che godono di una complessità maggiore rispetto a quelle prodotte nei paesi dell’Europa orientale. Questa complessità è conseguenza di diversi fattori: impianti tecnologicamente evoluti all’interno, possibilità di affidarsi a terzisti locali per la produzione di parti delle merci e, soprattutto, la lunga esperienza professionale dei suoi addetti. Tuttavia, i lavoratori e le lavoratrici non hanno fiducia nelle macchine: la maggioranza dei metalmeccanici ritiene che l’inserimento di macchinari e impianti tecnologicamente evoluti nel processo produttivo non mirino tanto a migliorare e alleggerire la fatica umana, quando ad aumentare i livelli produttivi. Le macchine vengono considerate pressoché inutili senza il lavoro umano (40%) o finalizzate al guadagno dell’azienda (30%).

Nel 2006 con l’implementazione della «produzione snella» denominata EMS (Electrolux manufacturing system) è stata inaugurata una nuova stagione nei processi di produzione. Da quel momento i tempi di lavorazione sono stati ulteriormente intensificati: il 90% dei lavoratori in catena avvertono che i ritmi di lavoro sono peggiorati negli ultimi dieci anni. Nell’ultimo accordo, la velocità di catena è stata fissata a quarantadue secondi in tutti gli stabilimenti: «perché l’unico scopo per l’azienda è fare i 90 pezzi, non gliene frega niente del lavoratore, la testa, le mani, le braccia…». L’intensificazione dei ritmi di lavoro è una condizione generalizzata tra tutti i lavoratori indipendentemente dal livello contrattuale (70%), ma aumenta di dieci punti percentuali in catena e tra le donne. L’alto livello di saturazione degli impianti nei cicli di produzione è confermato da una percezione generalizzata di difficoltà e fatica: il 60% degli intervistati di terzo livello afferma di sforzarsi per terminare le operazioni di linea (in particolare tra le operaie) o di vivere una tensione tra colleghi in linea (più frequente tra operai maschi), il 20% afferma di saltare delle operazioni (in particolare a Susegana). Un carico eccessivo di lavoro si traduce nella diffusa percezione di stanchezza, di fatica fisica e di stress psicologico sicché il 70% dei lavoratori avvertono alti livelli di disagio.

La riorganizzazione del processo secondo i principi del toyotismo non rappresenta un superamento del modello fordista di produzione, ma un suo sviluppo specifico, culturalmente orientato[10]: «i concetti di lean production e kaizen (cioè miglioramento continuo) si concentrano sulle persone e sul loro potenziale, in quanto è solo attraverso il loro lavoro che si genera valore per l’azienda, lo scopo principale è quindi quello di sviluppare una mentalità kaizen e l’autodisciplina tra i dipendenti»[11]. I lavoratori rispondono a tratti qualitativi e flessibili: dai dati raccolti emerge che i lavoratori sono in grado di produrre lotti di prodotti diversi mantenendo un alto ritmo produttivo (in media 10 cambi modelli giornalieri). La diversificazione produttiva può quindi avvenire senza particolare dispendio di tempo grazie sia a macchinari che permettono di cambiare facilmente il tipo di produzione sia a una manodopera che si adegua rapidamente alla nuova riorganizzazione produttiva. Per riuscire a reggere questi ritmi i lavoratori di Porcia e Forlì utilizzano la rotazione in linea che li rende polifunzionali a mansioni semplici, ma sempre diverse. A questo proposito una lavoratrice dice che «è importante la rotazione per livellare, per le braccia, ma l’azienda ne ha vantaggio, perché ha persone addestrate su più postazioni».

L’EMS abbisogna di divisione del lavoro, di ripetitività e di forte parcellizzazione delle mansioni. Inoltre la forza lavoro è stata progressivamente immobilizzata: il 70% delle lavoratrici e lavoratori di linea afferma di non muoversi dalla postazione di lavoro, mentre gli spostamenti avvengono solo per problemi connessi alla produzione o per la rotazione. Il kaizen, la filosofia del miglioramento continuo, è finalizzato alla riduzione degli sprechi (muda) percorribile attraverso la creazione di uno standard di lavoro, che deve venire rispettato. Tra gli strumenti per ridurre gli sprechi, il capolinea si serve della spaghetti chart, la rappresentazione dei movimenti di persone e materiali su un’intera fase di lavorazione, eseguendo verifiche periodiche sugli standard di lavoro e le fasi svolte dagli operatori al fine di ridurre i movimenti. In altre parole, viene compresso il tempo che non è volto a essere immediatamente produttivo, le cosiddette not value adding activities (NVAA). Questa generale limitazione dell’autonomia d’azione e di mobilità di chi lavora è segnata anche dalla distanza tra postazioni di lavoro. Mobilità e distanza sono due dimensioni connesse alla possibilità di associarsi e parlare. Non a caso una lavoratrice afferma: «la fabbrica spegne il cervello, e le persone… se smetti di scrivere dimenticherai anche la grammatica» (G., lavoratrice, Forlì).

Il «controllo» arbitrario da parte dei superiori lascia il posto a un controllo oggettivo prima dato dallo spazio e, in seguito, imposto dalle macchine. Dove prima c’erano gli occhi del capo ora l’organizzazione spaziale della fabbrica disegna distanze, allontana persone, riconfigura i reparti e le postazioni, interpone il rumore, mentre le macchine prescrivono tempi, movimenti, posture e pause. Il distanziamento colpisce più gli uomini, mentre le donne lavorano spesso fianco a fianco con altri colleghi/e. Tra le donne la distanza va da uno a tre metri, mentre per il settanta per cento degli uomini la distanza da un altro collega va dai tre ai cinque metri e oltre. In generale la comunicazione verbale durante l’orario di lavoro viene favorita dalla prossimità fisica (40%) e secondariamente da fattori quali un buon rapporto o il lavorare meglio in team. La possibilità di parlare durante le operazioni di linea sembra essere frequente, sebbene, secondo la maggioranza degli intervistati (80%), il dialogo viene ostacolato in ordine di importanza dal rumore, dalla paura di perdere tempo, dalla distanza; in altre parole dal disagio ambientale, dalle necessità dettate dalla produzione e dalla configurazione spaziale dell’organizzazione del lavoro.

Le pause risultano insufficienti al bisogno fisiologico (55%) o appena sufficienti (34%), riducendo il tempo personale e di socializzazione tra colleghi. Le pause rappresentano il principale momento di contatto e di interazione tra pari nella quotidianità della fabbrica e sono cruciali per una socializzazione che si possa estendere oltre i colleghi più prossimi. Esse sono l’occasione per lo scambio di informazioni personali e inerenti al lavoro del gruppo di linea e dell’ambiente di lavoro più generale in cui ci si aggiorna sugli avvenimenti lavorativi, politici e anche personali. Nelle pause, il tempo viene distinto tra i minuti per la soddisfazione dei bisogni fisiologici e quelli per la soddisfazione dei bisogni personali e sociali. Malgrado emerga che le pause sono il principale spazio di contatto attivo tra colleghi/e (66%), esse sono contemporaneamente considerate insufficienti o appena sufficienti per la soddisfazione dei propri bisogni.

La mensa, invece, ha smesso di essere il luogo di socializzazione tradizionale, essendo frequentata da appena un terzo dei lavoratori di Porcia e da un numero ancora inferiore negli altri stabilimenti. Lo spostamento della mensa alla fine o all’inizio del turno richiede una permanenza ulteriore o un arrivo anticipato nella fabbrica da cui il lavoratore tende a sottrarsi; ugualmente ci si sottrae quando la mensa è lontana dal reparto, a causa del tempo di percorrenza per raggiungerla. La mensa spostata a fine turno è figlia della generale riduzione delle pause, della continuità ininterrotta del ciclo di produzione, ma è elemento dell’organizzazione politica del lavoro volta a eliminare luoghi di dibattito più allargati. Nel quadro che emerge, i luoghi di contatto e le relazione tra pari sono costretti entro rigidità imposte dall’organizzazione lavoro, dove una regolazione dei corpi nello spazio industriale cerca di piegare gli spazi di autonomia e di spontaneità.

Lo stabilimento di Forlì è stato l’ultimo a essere interessato dall’introduzione del modello EMS e le nuove norme introdotte dall’accordo del 2014 sono state particolarmente aggressive (area piani sulle linee a flusso da 56 pezzi all’ora, aumento delle cadenze fino a un massimo di 78 pezzo allora, nell’area forni da 74 a 85 pezzi all’ora). In questo stabilimento, due lavoratori su dieci si sentono controllati. Oltre alle forme di controllo diretto sui lavoratori da parte dell’azienda, risultano esserci casi di ostracismo verso la Rsu FIOM denunciata dal giornale interno Altriritmi[12].

L’usura

«Credo che il gruppo Electrolux rovini tutte le persone con il lavoro usurante e numeri altissimi. Non arriveremo alla vecchiaia qua dentro, […] tanto la pelle è nostra, chiedete quante persone hanno dolori al braccio o spalla» (E., lavoratrice, Susegana)

«Sono preoccupato per i ritmi di lavoro. Come potrò tra 10 anni fare il lavoro che oggi, a 46 anni, faccio con tutte le riserve ed energie del mio fisico?» (Commento a questionario, lavoratore, Porcia)

In generale, poco meno del 15% dei lavoratori si è infortunata negli ultimi 5 anni. Il numero maggiore di infortuni sul luogo del lavoro è stato registrato a Forlì. Secondo stime aziendali, il modello EMS ha drasticamente abbassato i rischi di infortunio. La nuova politica della sicurezza sul lavoro è basata su un assunto puramente economico: «un infortunio costa più di quanto si possa pensare: assenteismo, perdita di produzione, ripartizione dei costi, diritto di operare, immagine, costi legali, responsabilità dei costi»[13]. Facile quindi immaginare che la sicurezza sia divenuta un obiettivo aziendale: l’investimento iniziale nella forza lavoro non deve essere superato dai costi di un infortunio. In altre parole, la cultura aziendale della sicurezza non è ascrivibile principalmente alla categoria della integrità fisica-psicologica di chi presta lavoro, ovvero non contempla la salute nel lungo periodo. Le relazioni annuali dei medici del lavoro consegnati agli RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza), evidenziano la grande diffusione di disturbi agli arti superiori, oltre i quindici punti percentuali rispetto alla popolazione generale, causati dai movimenti ripetitivi, dall’impossibilità di muoversi, dallo stare in posizione eretta per lunghi periodi. Le stesse relazioni segnalano diversi casi di ostruzione delle vie aree e rachide lombosacrale. Sono in particolare le donne a essere colpite dalle malattie professionali. La maggioranza delle intervistate considera il proprio lavoro un danno alla salute (79%); nello specifico, lo stabilimento di Forlì vede picchi massimi in entrambi i generi, avvalorando l’ipotesi secondo la quale nel sito emiliano si è arrivati a un grado allarmante di malessere socio-lavorativo.

Conflitti e rappresentanza

Secondo i nostri dati la metà degli intervistati è iscritta al sindacato, prevale la FIOM, seguita dalla UILM e dalla FIM, mentre 43% degli intervistati non è mai stato iscritto ad alcun sindacato. In generale nei tre stabilimenti il tasso di partecipazione al voto delle RSU è alto[14], con una partecipazione media intorno al 70%. Negli stabilimenti di Forlì e Susegana la FIOM ha la maggioranza, mentre a Porcia la UILM precede la FIOM per pochi voti. I dati in nostro possesso hanno il merito di rappresentare bene i non sindacalizzati (43%), ma tra i sindacalizzati vede una sproporzione di rispondenti afferenti alla FIOM.

In ogni caso l’iscrizione o meno al sindacato non rappresenta una discriminate all’interno delle variabili fino ad ora prese in considerazione (caratteristiche biografiche e sociali della popolazione operaia indagata). Il quadro di sindacalizzazione che emerge si produce e riproduce grazie alla figura delle RSU[15]. Sia iscritti sia non iscritti hanno contatti quotidiani con delegati sindacali ai quali riconoscono la forma di rappresentanza sindacale (70%), mentre la sede sindacale, spazio organizzativo istituzionale in un territorio, ha una partecipazione di fatto irrisoria. La sede sindacale trova funzione nell’essere luogo di servizi al lavoratore come il Caaf e la lettura delle buste paga (30%). Ѐ nella fabbrica, invece, che i lavoratori si incontrano, è là dove i rapporti di produzione si inverano che la pratica sindacale prende significato e non all’esterno dello stabilimento. Per questo possiamo comprendere il riconoscimento e la fiducia riposta nelle RSU come colleghi di lavoro, mentre i funzionari sindacali sono spesso dipinti come estranei alla realtà produttiva. In generale il significato attribuito al sindacato è quello della rappresentanza dei lavoratori (40%) e solo secondariamente come strumento di lotta. Da numerosi commenti emerge un malcontento verso il sindacato come istituzione, accusato di essersi trasformato in un attore poco chiaro e sovente più attento alle necessità aziendali che a quelle operaie.

I lavoratori e lavoratrici percepiscono sulla loro pelle l’indebolimento del potere contrattuale e sociale[16]. Nonostante la crisi interna ai sindacati, dall’indagine emerge un soggetto che si percepisce come collettivo, che opera e che si distingue in una parte specifica, cioè in un noi unitario. L’automazione, inutile senza il lavoro operaio, implica il riconoscimento di un noi, allo stesso tempo forza lavoro necessaria alla creazione del valore e insieme di individui che intendono costruire una realtà diversa da quella della produzione di elettrodomestici. In tal senso le forme non isolate di salto delle operazioni in linea (20%) evidenziano un clima complessivo di fabbrica che non si lascia plagiare né dall’ideologia partecipativa né da ammonizioni e multe. La solidarietà si esplicita nella percezione dei lavoratori fuori dal perimetro della fabbrica: la larga maggioranza degli intervistati riconosce nei polacchi e ungheresi lavoratori che dovrebbero lottare con noi (78% a Porcia e oltre la metà dei lavoratori degli altri siti) e dichiara di desiderare di conoscere i lavoratori degli altri siti italiani (50%) o di averli già incontrati (20%). A tal proposito i CAE[17] (Consigli Aziendali Europei) non sembrano essere riusciti né a coordinare né a tutelare i lavoratori a livello internazionale. Al contrario, essi sono rimasti incastrati in un’ottica prettamente nazionale e talvolta nazionalistica, incapace di guardare alle caratteristiche del capitale che al contrario si è sviluppato proprio in virtù delle differenze tra la forza lavoro (18]. Tale assenza di unitarietà e coordinamento degli intenti si riproduce anche a livello nazionale o locale pure tra i rappresentanti sindacali dei diversi stabilimenti dello stesso gruppo Electrolux in Italia.

I lavoratori italiani paiono riconoscere una medesima condizione di sfruttamento e un analogo destino rispetto a quanti sono occupati negli stabilimenti Electrolux nell’Europa orientale. Essi «sono lavoratori come noi» scrive un operaio sul questionario. Ma l’appartenenza a una classe operaia senza confini nazionali e regionali è una dimensione che al momento non è né coltivata né raccolta dagli istituti sindacali, finendo per essere un elemento dimenticato. Infine questo noi si afferma anche nella differenza, in quei loro che stanno dall’altra parte: la crisi e il mercato, le politiche del governo e quelle aziendali. L’80% giudica negative per tutti i lavoratori e le future generazioni le attuali politiche del lavoro, altrettanti giudicano negativamente leggi che riguardano il welfare come la legge Fornero che allunga la vita lavorativa, il 50% sostiene che il mercato avrà crisi che non finiranno mai.

La vertenza dell’inverno/primavera del 2014 è stato un momento importante di espressione della soggettività operaia con un’ampia partecipazione ai presidi, agli scioperi e ai cortei che in alcuni casi sono finiti nei Consigli comunali dei paesi limitrofi alle fabbriche costringendo la politica a esprimersi. In effetti, alcuni lavoratori hanno sottolineato come la vertenza «sia stato il momento collettivo più importante vissuto nella fabbrica», grazie all’aggregazione e al ribaltamento della subalternità e della regolarità che caratterizzano la quotidianità e gli spazi dell’organizzazione del lavoro.

Conclusioni

La storia della Zanussi-Electrolux, più che la storia di una multinazionale svedese o del primo industrialismo italiano, è la storia di migliaia di corpi al lavoro. Donne e uomini, legati prima alla stagionalità dei frutti della terra contadina, poi alla stagionalità delle linee di montaggio, hanno assistito alla trasformazione del paesaggio da rurale a urbano e industrializzato. La giovane generazione di operai entrata in fabbrica tra gli anni ’80 e ’90, più istruita e flessibile di quella precedente, portatrice di forti differenze socio-anagrafiche, ha tuttavia continuato a riprodurre un’identità operaia. Il linguaggio, le forme di conflittualità e di organizzazione dei lavoratori paiono far parte di una storia, prodotta e riprodotta simbolicamente: la stessa la sigla «Lavoratori Zanussi», che continua a campeggiare su striscioni e blog di movimento operai, è frutto di tale tradizione[19]. Tra le differenze nella composizione della forza-lavoro operaia si annovera sia il grado di istruzione sia il genere e la nazionalità. Tuttavia, malgrado i tentativi di espellere la politica dalle fabbriche, queste paiono resistere ponendo alla propria testa proprio quanti rappresentano le nuove leve[20].

Nel corso degli ultimi trent’anni le fabbriche sono completamente cambiate nel Nord-Est, non solo a causa della riorganizzazione produttiva ma anche perché una nuova composizione di forza lavoro ha iniziato a definirsi. Questi tre stabilimenti paiono per alcun aspetti rimandare a un passato duro da estirpare, evidenziando come la caratteristica del lavoro contemporaneo è la co-esistenza di diversi modelli lavorativi.

[1] La presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ad esempio, aveva addirittura affermato: “il Governo non faccia il notaio della volontà svedese […] Per il Friuli Venezia Giulia la chiusura di Porcia è una prospettiva che non prendiamo in considerazione”, Il Friuli, 28 gennaio 2014.

[2] G. Merotto, La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nel circuito dell’elettrodomestico, Roma, DeriveApprodi, 2015.

[3] Nei primi anni del 2000, la multinazionale svedese ha delocalizzato in Bassa Slesia. Nel distretto di Wroclaw (città capoluogo) sono state replicate le fabbriche italiane, mantenendo le stesse specializzazioni: a Olawa, lo stabilimento con più dipendenti, si producono lavatrici; a Zarow lavastoviglie; a Swidnica stufe e cucine; a Siewierz asciugatrici. A Jasberény, nel cuore dell’Ungheria, la produzione di frigoriferi.

[4] Dopo il 2009 è stata annunciata la chiusura anche della fabbrica di Kinston (USA), de L ‘Assomption (Canada) e di Revin (Francia) e la riorganizzazione di quelle di Mariestad (Svezia) e Schwanden (Svizzera) entro il 2014. Nel 2010 è stata acquistata una fabbrica di lavatrici a Ivano-Frankivs’k (Ucraina) ed è stata realizzata una nuova linea produttiva per i frigoriferi a Rayong (Tailandia). Nel 2011 Electrolux ha inoltre realizzato due importanti acquisizioni nel settore degli elettrodomestici finalizzate ad aumentare la competitività del gruppo nei Paesi meno industrializzati: il produttore egiziano Olympic Group (con 10 impianti produttivi e una posizione forte nei mercati in espansione del Nord Africa e del Medio Oriente) e l’azienda cilena CTI (con 3 stabilimenti che realizzano apparecchiature per il mercato cileno e argentino).

[5] Affermazione di un’operaia ai cancelli di Susegana in occasione della distribuzione dei questionari.

[6] R. Alquati, Per fare conricerca, Velleità Alternative, Torino, 1993.

[7] I rimanenti (circa 420) sono occupati a Vallenoncello (PN) dove si producono le apparecchiature professionali per la ristorazione e il lavaggio dei tessuti e in altri stabilimenti dove si collocano prevalentemente centri di ricerca.

[8] Nel 2014 i risultati alle elezioni delle Rsu sono a Susegana: FIOM 362, FIM 241, 141 UILM; a Forlì: FIOM373, FIM 64, UILM 224, UGL 54; a Porcia: FIOM 324, FIM 92, UILM 336, FAILMS 116. Complessivamente quindi la FIOM raggiunge circa il 47% contro il 17% della FIM e il 30% della UILM.

[9] Ipazia, Le parole per dirlo, Electrolux-Zanussi, FIM-FIOM-UILM, 1995, p. 9.

[10] L’obiettivo è quello di «creare stabilità attraverso la standardizzazione dei metodi nel manufacturing, migliorando continuamente il nostro modo di operare e contribuendo all’evoluzione culturale per il raggiungimento dell’eccellenza nella qualità, costi e prestazioni di servizio», Manifesto dell’Electrolux Manufacturing System (documentazione interna Electrolux).

[11] Scalcon P., Sistemi di incentivazione e lean manufacturing. Il caso si Electrolux professional, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, 2013.

[12] Altriritmi è il titolo evocativo del giornalino di fabbrica a Forlì, esso è mezzo di comunicazione diretta tra lavoratori, insieme alle bacheche. Viene distribuito ai cancelli al costo di un euro, il ricavato va a finanziare l’attività sindacale della Rsu FIOM. A Susegana le Rsu Fiom pubblicano un giornalino dal titolo Skatenati.

[13] Relazione interna EMS 2013.

[14] Tra gli operai il numero di votanti alle elezioni RSU di luglio 2014: Forlì 620 operai votanti su 739 aventi diritto a Porcia 836 votanti su 900, Susegana 641 votanti su 960 aventi diritto.

[15] La Rappresentanza Sindacale Unitaria è un organismo sindacale costituito da non meno di tre persone elette da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato. Le procedure sono regolate principalmente dall’Accordo Quadro e prevedono la partecipazione al voto di almeno il 50% +1 degli elettori. In caso contrario la RSU non si costituisce.

[16] Lo stesso leader della FIOM, Maurizio Landini, nel corso dell’ultima Assemblea Nazionale di Cervia (24/25 Ottobre 2015) ha dichiarato che l’organizzazione è stata costretta a votare «solo accordi al ribasso negli ultimi dieci anni».

[17] CAE è un organismo rappresentante dei lavoratori, previsto dalla direttiva europea 94/45/CE, al fine dell’informazione e la consultazione transnazionale dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di dimensioni comunitarie.

[18] Silver B. J., Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, Milano, Mondadori, 2008.

[19] Nonostante il gruppo Electrolux sia subentrato nel 1984. Anderlini F., Ristrutturazione aziendale e melanconia operaia. Il caso Zanussi-Electrolux di Susegana, Milano, Franco Angeli, 1993.

[20] In tale quadro va inserita anche la candidatura alle elezioni europee di Paola Morandin, operaia di Susegana, per la lista Tsipras che ha raccolto quasi 20.000 voti. Burello A., Parussini M., Dalla Zanussiall’Electrolux: un secolo di lezioni per il futuro, Bologna, Il Mulino, 2010.