COP21: ovvero l’impossibilità di un capitalismo verde. Piani climatici in contraddizione con l’obiettivo di restare sotto i 2°C

Salgado-per-lAmazzoniaDaniel Tanuro analizza il testo finale della COP21 e smonta qualsiasi entusiastica affermazione di esserci avviati sul cammino del capitalismo verde. Nel testo le parole o espressioni «combustibili fossili», «industria», «carbone», «petrolio», «gas naturale», «produzione di auto» non appaiono nemmeno una volta… espressioni come «transizione energetica»,«sobrietà energetica», «riciclaggio», «reimpiego», «beni comuni» non sono mai utilizzate…

Per di più c’è un’evidente contraddizione tra l’obiettivo contenuto nel testo di un riscaldamento inferiore a 2°C e gli INDC (ovvero i progetti di «piani climatici» che ciascun paese partecipante alla conferenza ha promesso di adottare dal 2020): secondo le stime che ne sono state fatte, il loro effetto cumulato sarebbe di portarci verso un riscaldamento catastrofico di circa 3°C!

Analisi di Daniel Tanuro da LCR/La Gauche e  Sinistra Anticapitalista

LA COP21 è sfociata, come previsto, in un accordo. Questo entrerà in vigore a partire dal 2020 se sarà ratificato da 55 dei paesi firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, e se questi 55 paesi producono almeno il 55% delle emissioni mondiali di gas serra. Viste le posizioni prese a Parigi, questa doppia condizione non dovrebbe sollevare difficoltà (ma la non ratifica di Kyoto da parte degli Stati Uniti dimostra che sono sempre possibili sorprese … ).

«Ben al di sotto di 2°C»: come?

L’accordo fissa l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura «ben al disotto di 2°C in rapporto ai livelli preindustriali, e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5°C al di sopra di tali livelli, riconoscendo che questo ridurrebbe in misura considerevole i rischi di cambiamento climatico».

Inoltre, il testo afferma la volontà di raggiungere tali obiettivi nel rispetto del principio di responsabilità comuni ma differenziate, dei diritti umani, del diritto alla salute, del diritto allo sviluppo, dei diritti dei popoli indigeni, dei diritti delle persone handicappate e dei bambini, dell’uguaglianza di genere, promuovendo l’«empowerment» delle donne e la solidarietà intergenerazionale, prendendo atto dell’importanza di una «transizione giusta» per il mondo del lavoro e tenendo conto delle capacità rispettive dei paesi …

Evidentemente, non si può che aderire a queste prese di posizione di principio, ma il testo adottato dai 195 paesi rappresentati alla COP non dà alcuna garanzia che saranno seguite da un effetto. In più, e soprattutto, rimane del tutto impreciso rispetto alle scadenze da rispettare affinché gli obiettivi climatici siano raggiunti: si limita a dire che «le parti mirano a raggiungere un picco mondiale delle emissioni il più presto possibile, e a intraprendere in seguito rapide riduzioni delle emissioni in conformità alla migliore scienza disponibile, al fine di raggiungere nella seconda metà del secolo un equilibrio tra le emissioni antropiche dalle fonti e gli assorbimenti da parte dei pozzi di gas serra». Ora, l’anno di picco, il ritmo annuale delle riduzioni globali di emissioni dopo il picco, e il momento preciso tra il 2050 e il 2100 in cui sarà realizzato l’equilibrio globale emissioni/assorbimenti condizionano la stabilizzazione del riscaldamento a questo o quel livello.

 «Conciliare l’inconciliabile»?

Prendendo la parola davanti alla riunione plenaria dei partecipanti, il 12 dicembre, il presidente François Hollande si è rallegrato del fatto che la conferenza sia riuscita a «conciliare quello che (pareva) inconciliabile» adottando un documento «insieme ambizioso e realistico». «L’accordo decisivo per il pianeta è adesso», ha concluso. Esprimendosi prima di lui in qualità di Presidente della COP, il suo ministro degli esteri, Laurent Fabius, si è felicitato di un risultato che rappresenta «il miglior equilibrio possibile».

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici data 1992. Ha prodotto solo un tentativo molto insufficiente: il Protocollo di Kyoto. Sono anni che la sfida climatica contribuisce in misura crescente a minare la legittimità del capitalismo e la credibilità dei suoi gestori politici. E’ evidente che il nostro compito sarà affrontare una vasta controffensiva che vuole diffondere l’idea che il sistema (capitalistico) è capace di arrestare la catastrofe che ha creato e che i governi al suo servizio sono all’altezza della situazione. 

Quelle e quelli che non credono alla possibilità di un capitalismo verde, che non credono in particolare alla possibilità di salvare il clima senza rimettere in discussione la tendenza del sistema alla crescita, hanno dunque un interesse a esaminare l’accordo di Parigi sotto questo angolo di visuale: la COP21 riesce o no a «conciliare l’inconciliabile»? Il presente articolo si concentra principalmente su questo punto. Torneremo successivamente su altri aspetti dell’accordo, come l’adattamento, il sostegno ai paesi del Sud, ecc.

Allora, che dire? Parigi ha dato torto agli orrendi brontoloni pessimisti ed ecosocialisti? La risposta è «no», almeno per l’80%. Perché «per l’80%»? Perché sulla base della stesse valutazioni del segretariato della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (CCNUCC), si può affermare che appena un quinto del cammino per rimanere sotto i 2°C di riscaldamento è stato fatto (e poi: solo sulla carta!). In altri termini, non siamo nel caso del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno: il bicchiere della COP21 è vuoto per almeno quattro quinti. Fondamentalmente, la catastrofe climatica continua, la prova che le cose ritenute inconciliabili possono essere conciliate non è stata portata. Spieghiamoci.

Tra l’accordo e gli INDC

Nel negoziato ci sono due elementi: da un lato il testo adottato a Parigi, e dall’altro i progetti di «piani climatici» che ciascun paese partecipante alla conferenza ha adottato e trasmesso al Segretariato della CCNUCC in vista della COP. Nel gergo dei negoziatori, tali progetti di piani climatici sono designati con l’acronimo inglese INDC (per «Intented Nationally Determined Contributions» – intenzioni nazionalmente determinate di contributo al salvataggio del clima). Il testo adottato a Parigi pone certamente l’obiettivo di un riscaldamento inferiore a 2°C, il più possibile vicino a 1,5°C. Ma gli INDC – che hanno effetto fino alla scadenza del 2025 o 2030 – sono ben lungi dal raggiungere tale obiettivo: secondo le stime che ne sono state fatte, il loro effetto cumulato sarebbe di portarci verso un riscaldamento catastrofico di circa 3°C.

La contraddizione tra le dichiarazioni di intenzione dell’accordo e la realtà dei piani climatici dei paesi firmatari dell’accordo non è un segreto. La mozione adottata a Parigi (assieme all’accordo propriamente detto),«(insiste) con seria preoccupazione sul bisogno urgente di affrontare il significativo fossato tra l’effetto aggregato delle promesse di mitigazione delle Parti in termini di emissioni mondiali annuali di gas serra da oggi al 2020 (da un lato), e le traiettorie di emissioni cumulate conformi agli obiettivi di mantenere l’aumento della temperatura media del globo ben al di sotto di 2°C e di proseguire lo sforzo per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C (dall’altro)».

Il fossato tra l’effetto cumulato degli INDC e l’obiettivo da 1,5 a 2°C adottato a Parigi è stato studiato dal gruppo di lavoro ad hoc istituito alla COP di Durban allo scopo di lavorare sui mezzi per rialzare il livello di ambizione della politica climatica (Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action). Il 30 ottobre 2015, nel quadro della preparazione della COP21, questo gruppo di lavoro ha consegnato un rapporto dettagliato al Segretariato della CCNUCC

Nel testo, la somma delle emissioni INDC alle scadenze 2025 e 2030 è messa a confronto da un lato con le emissioni «business as usual [continuare come adesso]», e dall’altro con (varianti del) la traiettoria di riduzione delle emissioni che dovrebbe essere seguita, secondo il GIEC/IPCC, per avere il 66% di probabilità di mantenere il riscaldamento sotto i 2°C «al minor costo» (queste traiettorie costituiscono quello che l’ultimo rapporto del GIEC/IPCC chiama i «least cost 2°C scenarios [scenari di 2°C al minor costo]»).

Il metodo degli autori dello studio è semplice: prendono le emissioni «business as usual» come scenario di riferimento (0% dell’obiettivo 2°C) e il «least cost 2°C scenario» come obiettivo da conseguire (100% dell’obiettivo 2°C); fatto ciò, esprimono la somma delle riduzioni di emissioni progettate dagli INDC in percentuale dell’obiettivo 2°C. Ecco la loro conclusione: «in questo confronto, si stima che gli INDC ridurranno la differenza tra le emissioni «business as usual» e gli scenari 2°C del 27% nel 2025 e del 22% nel 2030». È per questo che abbiamo affermato sopra che «il bicchiere della COP21 è vuoto per l’80%».

D’altronde non è escluso che la cifra dell’80% sia inferiore alla realtà. In effetti, gli INDC meriterebbero di essere sottoposti a un esame più accurato, allo scopo di verificare se gli Stati non hanno gonfiato le loro cifre allo scopo di darsi l’immagine di primi della classe. Trucchi di questo genere si sono già prodotti più volte nel dossier climatico (si pensi ad esempio al modo in cui gli Stati membri dell’UE hanno sovrastimato le emissioni delle loro industrie inquinanti, affinché queste ricevessero gratis un massimo di diritti di emissioni rivenduti con profitto). Il fatto che un buon numero di INDC puntino fortemente sull’assorbimento della CO2 da parte delle foreste, o sulle riduzioni di emissioni relative, e non sulle riduzioni nette, induce alla diffidenza. Ma lasciamo questo aspetto agli specialisti e vediamo piuttosto come l’accordo di Parigi prevede di colmare il fossato tra gli INDC e l’obiettivo di un riscaldamento mantenuto tra 1,5 e 2°C …

 Colmare il fossato? Una scommessa

Anzitutto, devo confessare che un punto dei rapporti del GIEC/IPCC resta per me inspiegato: mentre la diagnosi sulla gravità del cambiamento climatico è sempre più inquietante, e il fenomeno progredisce molto più velocemente di quanto prospettato dai modelli, com’ è che il picco delle emissioni mondiali di gas serra da rispettare per avere il 66% di probabilità di restare sotto il limite di 2°C, è stato allontanato nel tempo in misura così importante tra il 4° e il 5° rapporto? Secondo il 4° rapporto, per non superare 2°C di aumento bisognava che le emissioni mondiali culminassero al più tardi nel 2015; ora, secondo il 5° rapporto, sarebbe ancora possibile restare sotto i 2°C cominciando a ridurre le emissioni mondiali soltanto nel 2020, nel 2025 e persino nel 2030 – sia pure a prezzo di difficoltà sempre più importanti. Suppongo che gli autori dei rapporti non abbiano semplicemente lo scopo di mantenere la fiamma della speranza, che ci sia una spiegazione scientifica a questo spostamento. Ma io non la conosco.

Comunque sia, ammettiamo che il picco delle emissioni compatibile con 2°C o 1,5°C possa in effetti prodursi solo nel 2025 o 2030 e ritorniamo alla nostra domanda: come l’accordo di Parigi prospetta di colmare il fossato tra gli INDC e l’obiettivo di un riscaldamento «ben inferiore a 2°C»? La risposta è nel testo adottato: rivedendo gli INDC ogni cinque anni allo scopo di aumentarne l’ambizione. Questa revisione si baserà soltanto sulla buona volontà delle parti: l’accordo non è vincolante giuridicamente, non prevede alcuna penalità, ecc. Mentre la casa brucia è comunque incredibile che un impegno tanto leggero sia presentato come una conquista storica.

Una delle questioni importanti qui è quella dei tempi: l’accordo di Parigi entrerà in vigore nel 2020, e la prima revisione ci sarà solo nel … 2023. Teniamo presente che ci sono voluti otto anni per ratificare il Protocollo di Kyoto, che riguardava solo un piccolo numero di parti e attuava solo riduzioni di emissioni ridicole. Pensare che in dieci anni, mentre le tensioni geopolitiche non fanno che crescere, 195 paesi giungeranno rapidamente ad accordarsi sull’80% del cammino che devono ancora percorrere per salvare il clima, è in realtà giocare alla roulette russa con la sorte di centinaia di milioni di esseri umani e con gli ecosistemi. Dire che la COP21 non invalida l’analisi ecosocialista è dire poco, al contrario la conferma: il sistema capitalista, quando si scontra con i limiti ecologici può solo spostare in avanti l’essenziale del problema, rendendolo sempre più complesso e pericoloso.

 Chi ha detto «Combustibili fossili»?

A proposito di pericolosità, appunto, quelle o quelli che si ostinassero a credere che il 12 dicembre a Le Bourget si è prodotto un miracolo, dovrebbero ancora porsi altre due domande:

come mai le parole o espressioni «combustibili fossili», «industria», «carbone», «petrolio», «gas naturale», «produzione di auto» e altre altrettanto cruciali per l’argomento che ci interessa non appaiono nemmeno una volta nel testo di Parigi? Che la parola «energia» è citata due sole volte, in una stessa frase a proposito dell’Africa (e una volta nel nome dell’Agenzia Internazionale dell’Energia)?

come mai le parole o espressioni «transizione energetica»,«sobrietà energetica», «riciclaggio», «reimpiego», «beni comuni», «localizzazione» non sono mai utilizzate?

come mai l’espressione «energia rinnovabile» è impiegata una sola volta, e unicamente a proposito dei paesi «in sviluppo» («l’Africa in particolare»)? Che «biodiversità» è impiegata una sola volta? Che anche il concetto di «giustizia climatica» compare una sola volta come «importante per alcuni» – precisamente nello stesso paragrafo contenitore che menziona la biodiversità e l’importanza (sempre “per alcuni”!) della Terra Madre?

Queste lacune non sono frutto del caso, ma il segno di un progetto preciso, di una strategia capitalista di risposta alla sfida climatica. I negazionisti del clima sembrano in procinto di perdere la partita nella classe dominante, ed è tanto meglio. Tuttavia si avrebbe torto a considerare con sollievo che l’accordo di Parigi è un «segnale forte», «volterebbe la pagina dei combustibili fossili » o segnerebbe la svolta verso una «transizione giusta» come hanno detto alcuni.

I colpevoli del disastro – grosso modo il settore dei fossili e del credito – tengono fermamente il timone.

 Una svolta, ma quale?

C’è una svolta? Senza dubbio. Senza dubbio c’è una presa di coscienza, ai livelli più alti, dell’ enorme, incalcolabile rischio che il riscaldamento globale, se non è bloccato, fa pesare sulla società, la sua coesione, e la sua economia (l’enciclica di papa Francesco è una manifestazione di questo fenomeno). È probabile che alcuni decisori politici non si accontenteranno di utilizzare questa COP come paravento per nascondere la catastrofe che la loro incuria politica prepara, fin dal Vertice della Terra del 1992, che tenteranno di accordarsi per colmare il fossato tra gli INDC e quanto è necessario per contenere il riscaldamento al di sotto dei 2°C. Ma al contrario, è poco probabile che ci riescano (è un eufemismo) … Tra gli altri motivi, perché la svolta è abbozzata troppo tardi, perché il capitale fossile tiene il piede sul freno e che il mondo multipolare è lacerato da feroci rivalità interimperialiste, senza una chiara guida.

Per di più, l’obiettivo non è tutto, c’è anche il modo. Ora, il «least cost 2°C scenario» che ispira gli strateghi, è il ricorso non solo alle «energie dolci», ma anche al nucleare, alla combustione dei fossili con cattura-sequestro del carbonio, all’idroelettricità gigante e alla combustione di biomasse con «recupero del carbonio» (carbon recovery). Il 5° rapporto del GIEC/IPCC è formale: senza questi, rimanere al di sotto dei 2°C è veramente «non economico», i costi esplodono, i profitti sono minacciati! Sacrilegio!

Nella hit parade delle tecnologie da apprendisti stregoni, la combustione di biomasse con recupero del carbonio è la più gettonata. I suoi partigiani fanno il ragionamento che bruciando le biomasse e immagazzinando la CO2 prodotta dalla combustione, e coltivando una biomassa da bruciare che crescendo assorbirà CO2 dall’aria, si potrà non solo ridurre le emissioni, ma anche diminuire la massa di CO2accumulata nell’atmosfera. Il ragionamento non fa una grinza … ma l’enorme consumo di biomassa che il progetto implica non può che distruggere sia gli ecosistemi sia le comunità umane che ci vivono. Ora, è proprio in questa direzione che l’accordo di Parigi pone delle basi, ad esempio annunciando un ampio «meccanismo di sviluppo durevole». A leggere, si capisce che si tratterà semplicemente di amplificare al massimo il «meccanismo di sviluppo pulito» di Kyoto … grazie al quale, gruppi automobilistici europei in particolare, «compensano» le loro emissioni investendo nel Sud in progetti «forestali» sulla pelle dei popoli indigeni.

Questa è «l’ambizione realistica» descritta da Hollande nell’apoteosi mediatica della COP. Questo è il vero volto di quello che alcuni si ostinano a salutare come la marcia verso un «capitalismo verde». Guardiamo in faccia la realtà. Ciò che si sta mettendo in atto in nome dello «sviluppo durevole» è antiecologico, antisociale, non salverà il clima e richiederà sempre più repressione per spezzare le resistenze, fare tacere i dissidenti. Lo stato poliziesco d’urgenza, decretato con il pretesto della lotta al terrorismo, tutto calcolato è molto rivelatore di certe tendenze nascoste di questa COP …

 Traduzione di Gigi Viglino