La lunghissima tormentata vicenda del gruppo siderurgico nazionale pare essere arrivata ad un punto di svolta.
Sono migliaia i lavoratori degli stabilimenti dell’ex Ilva che da settimane si mobilitano contro il piano industriale elaborato dal governo che dispone, pur negandolo, la progressiva chiusura del ciclo integrale dell’acciaio sotto lo slogan, apparentemente green, della decarbonizzazione.
Per ciclo integrale dell’acciaio si intendono tutte le lavorazioni, in un singolo stabilimento, che presiedono alla produzione dell’acciaio, dalle materie prime grezze fino al prodotto finito. I vantaggi del ciclo integrale sono noti: economici grazie alla continuità dei processi, al maggior utilizzo degli impianti ed alla migliore efficienza dei processi e qualità dei prodotti.
La realtà tuttavia è ben diversa da quella sbandierata dal ministro Urso che pretende di dimostrare il grande impegno del governo al rilancio industriale del gruppo e alla sua riconversione in termini di sostenibilità ambientale. Non solo perché avendo deciso nuovamente di cedere a privati il gruppo siderurgico nonostante le indecorose esperienze precedenti con i magnati dell’acciaio, ha costruito un piano industriale sui desiderata imprenditoriali e su misura della loro volontaria limitata disponibilità ad investire in particolare su Taranto, ma anche per il fatto che la conversione avverrebbe tra molti anni sino a rendere poco credibile l’operazione complessiva.
In sostanza il governo, negandolo, ha costruito un piano di dismissione.
Contrastare quel piano è indispensabile, ma per fare cosa?
E’ bene ricostruire in sintesi gli aspetti più salienti della vertenza. La questione è in realtà molto complessa sia dal punto di vista industriale che da quello sociale e soprattutto ambientale.
Il cuore del gruppo siderurgico è Taranto e la sua città sovrastata dall’acciaieria più grande d’Europa. La sua storia è in larga parte la cartina di tornasole del nostro piccolo paese. Una storia di degrado, insipienza e ipocrisia.
E’ ormai dal lontano 2012 che si trascina penosamente il lento e inarrestabile declino del gruppo siderurgico, esattamente sulla questione ambientale, sul diritto alla salute dei cittadini tarantini.
La famiglia Riva, oliando il sistema, era stata capace di spingere la produzione di acciaio a livelli record per il gruppo, ma ovviamente a costi sociali e ambientali altissimi. Come accaduto per Tangentopoli nei primi anni ‘90, tuttavia non sono state le forze sindacali, né quelle politiche, né le istituzioni a denunciare e a far crollare il sistema clientelare e corrotto che garantiva l’impunità alla famiglia Riva per la sua opera di devastazione e saccheggio del territorio, per le sue responsabilità nell’avvelenamento di un’intera città.
Ciò è stato possibile solo grazie alla pressione di cittadini, associazioni e qualche esponente sindacale nella denuncia dei veleni che seminano morte da anni sulla città di Taranto e che hanno trovato una magistratura coraggiosa pronta a subire le fortissime pressioni del sistema corrotto e clientelare che chiedeva di continuare a produrre a prescindere.
E’ bene ricordare che quando la continuità produttiva dello stabilimento tarantino veniva messa in discussione dalle giuste ordinanze dei giudici, la quasi totalità del sindacalismo confederale e delle istituzioni chiedeva a gran voce non solo di non fermare la produzione ma rifiutava persino di rallentarla, ovvero di limitare i miasmi degli impianti in modo da ridurre le emissioni nocive.
Non dimentichiamo che lo sciopero più partecipato degli ultimi 20 anni è stato quello sostenuto direttamente dalla famiglia Riva contro le ordinanze dei giudici. A salvaguardia dell’acciaio mortifero, dichiarato patrimonio inalienabile, intervenne il governo dell’epoca per bloccare con provvedimenti dei consigli dei ministri le ordinanze dei giudici e garantire la prosecuzione delle attività, veleni compresi ovviamente.
Il gruppo, grazie alle sentenze definitive, veniva successivamente espropriato alla banditesca famiglia Riva e consegnato all’amministrazione straordinaria. Da quel momento in poi sono stati circa 18 i cosiddetti decreti salva-Ilva, provvedimenti in deroga alle leggi, alle ordinanze dei tribunali ed al diritto alla salute ad aver garantito la sopravvivenza del gruppo siderurgico.
Tuttavia si accumulavano cause, vertenze, ordinanze, limitazioni e soprattutto gli impianti degradavano pesantemente sotto il peso dell’incuria, dei mancati investimenti e di una gestione di prospettiva.
Mentre Taranto continuava a respirare veleni e a degradare, Genova si era già liberata nel 2002 delle sue tossine con un accordi di programma che avevano sancito la chiusura dell’area a caldo di Cornigliano, con ammortizzatori sociali e ricollocazioni per divenire uno stabilimento che lavora esclusivamente l’acciaio prodotto in Puglia.
Lo stabilimento di Genova, da quell’accordo in poi, è divenuto completamente dipendente dalla produzione tarantina ed è per questa ragione che le organizzazioni sindacali di fabbrica, la Fiom Genovese in particolare, hanno sempre testimoniato un sindacalismo molto di prossimità… per usare un eufemismo. Con spirito assai poco solidale il sindacato di fabbrica dell’ex ilva di Genova ingaggiò una dura lotta contro le ordinanze della magistratura sotto lo slogan: “Veleni o non veleni a Taranto devono fare l’acciaio per noi”.
Il tenore di quella lotta non è cambiato nel nuovo scenario, colpiscono infatti le dichiarazioni del segretario Fiom Grondona “se Taranto affonda noi non vogliamo affondare con Taranto”, ovvero non ci interessa l’unità del gruppo siderurgico e il destino comune di decine di migliaia di lavoratori ma solo la salvezza di Genova.
Salvezza dello stabilimento che, ad onor del vero, appare assai remota, sebbene nelle ultime ore il ministro Urso abbia dichiarato la sua continuità produttiva, per una ragione di fondo: lo stabilimento di Genova è parte del ciclo integrale, senza la produzione a caldo di Taranto che sancisce la realizzazione di quel ciclo , quel sito non ha alcuna appetibilità economica né produttiva ed è destinato molto probabilmente a chiudere.
In questo quadro è immaginabile la sopravvivenza ed il rilancio del gruppo siderurgico con l’attuale distribuzione produttiva dei diversi stabilimenti?
No per diversi fattori.
Tralasciando per un attimo la questione ambientale e volendo affrontare il tema del solo rilancio dello stabilimento tarantino ( che tuttavia è il cuore della vertenza ex Ilva) occorre avere il coraggio di affrontare la realtà. Il pesante invecchiamento degli impianti, il necessario rifacimento di diversi altiforni e la conversione energetica rendono la dimensione dell’investimento economico ben superiore a quello di una costruzione ex novo di una acciaieria, magari posizionata lontano dai centri abitati.
A ciò si aggiungono il groviglio e la caterva di ordinanze, divieti, cause che pesano ( giustamente) sull’ipotesi di un salvataggio dello stabilimento tarantino e che impediscono di trovare un grande gruppo privato che lo rilevi garantendo la continuità occupazionale e produttiva.
Occorre inoltre considerare lo svantaggio competitivo e qualitativo dell’acciaio non prodotto con il coke che resta, purtroppo, il sistema più efficiente per produrre.
La stessa ipotesi di una nazionalizzazione, per le stesse ragioni, non riuscirebbe a garantire il salvataggio e il rilancio del gruppo a meno di un impegno economico inimmaginabile, un provvedimento legislativo tombale su tutti i contenziosi ( anch’esso inimmaginabile) e un sostegno economico pubblico perenne alla sua continuità produttiva.
Il nodo di fondo resta sempre quello ambientale che pare irrisolvibile se non chiudendo l’area a caldo. L’acciaieria è dentro la città, quasi la contiene, la cinge.
L’acciaio serve, è indispensabile, dalle auto alle sale chirurgiche e nessuno può seriamente pensare di risolvere il problema delocalizzando le produzioni laddove nessuno controlla la qualità delle emissioni, in qualche paese povero affamato di investimenti. Sarebbe di un cinismo assoluto.
Tuttavia non è indispensabile farlo a Taranto, non con quei costi, economici, sociali e ambientali.
Per quale ragione Genova può liberarsi dei veleni e Taranto no?
Ed è proprio l’ipocrisia che continua a governare la vertenza. Tutti i soggetti in campo sanno che la situazione dello stabilimento tarantino è ormai compromessa, non più sanabile ma tutti prendono la palla e la tirano avanti spaventati dalla dimensione dei problemi.
In primo luogo quello occupazionale. I dipendenti diretti del gruppo sono circa 10.500 di cui 8200 su Taranto e 950 su Genova. Oltre a loro ci sono ancora 1700 lavoratori in cassa integrazione dal 2018 senza più alcuna speranza di rientro e almeno 5500 lavoratori degli indotti, di cui 4500 su Taranto. Il totale porta a circa 17.700 lavoratori il cui reddito è legato al gruppo siderurgico. In secondo luogo il tema delle bonifiche del territorio resta un interrogativo enorme di fronte alle diverse problematiche che pongono: smaltimento terre contaminate, responsabilità penale ecc.
Per queste ragioni occorrerebbe un piano completamente alternativo rispetto a quello basato sull’impossibile rilancio industriale del gruppo in chiave ambientalmente sostenibile. Anticipare l’ulteriore lenta agonia del gruppo e costruire una vertenza per un nuovo contratto di programma tra tutte le realtà interessate, sociali e istituzionali, per la chiusura dell’area a caldo e di tutte le fonti inquinanti dello stabilimento di Taranto garantendo contestualmente ammortizzatori, ricollocazioni e la realizzazione di una nuova acciaieria a caldo in un’area diversa da quella attuale.
Serve, non solo per la siderurgia, un nuovo intervento dello Stato in economia fondato su una nuova programmazione industriale pubblica. E’ inaccettabile che annualmente si riversino nelle casse delle imprese miliardi di euro per il loro sostegno anche nelle crisi senza che il pubblico possa intervenire e indirizzare lo sviluppo delle attività manufatturiere.
Una scelta difficile e dolorosa ma indispensabile prima che si realizzi una dismissione non governata e a quel punto più disastrosa dal punto di vista dell’impatto sociale.
