da Coniarerivolta del 25 maggio 2018
L’Argentina rappresenta da molto tempo il laboratorio preferenziale delle riforme neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e delle altre istituzioni finanziarie sovranazionali. Essa ha una storia finanziaria turbolenta, avendo sperimentato diversi episodi di default sul debito estero (in seguito ai quali si è proceduto alla cosiddetta “ristrutturazione” del debito, ovvero di una ridiscussione dei termini, temporali ed economici, nei quali il debito verrà ripagato) in epoca recente. Dopo un ciclo politico moderatamente progressista (con le presidenze di Nestor e Cristina Kirchner dal 2003 al 2015), attualmente essa è guidata da un governo, quello di Mauricio Macri, considerato tra i più “promettenti” dalle istituzioni finanziarie sovranazionali. Ciononostante, l’Argentina ha di recente chiesto aiuto al FMI, notizia che ha catturato l’attenzione dei media italiani. Proviamo a capire perché.
Dal 10 dicembre 2015, data della sua entrata in carica, il governo di Macri ha deciso di impiegare tutti gli strumenti istituzionali dello Stato per rafforzare e favorire l’alleanza di classe che ha permesso il suo successo elettorale. Si tratta di uno scambio di favori. Due grandi blocchi di interessi hanno costituito il gruppo di sostegno al nuovo governo sin dal principio: l’oligarchia rurale (la Società Rurale Argentina) e le grandi multinazionali, nelle loro articolazioni reali e finanziarie. I grandi assenti dell’alleanza mono-classista, per ovvi motivi, sono stati e sono i lavoratori, la gran parte del corpo elettorale.
La proposta di “Cambiemos”, il partito del presidente, non è nuova. Lo stesso partito ha governato la città di Buenos Aires, il distretto municipale più grande dell’Argentina, per più di dieci anni.
Secondo le parole dello stesso presidente, ciò che è stato proposto è “molto più di un cambiamento economico: è un cambiamento culturale”; un obiettivo che è in linea con l’esperienza del thatcherismo britannico e, perché no, in versione nazionale, con le intenzioni politiche dell’ultima dittatura militare. Si tratta, essenzialmente, di sostenere i profitti della borghesia nazionale, nonché delle imprese multinazionali, a scapito delle condizioni dei lavoratori. Nulla di nuovo sotto il sole.
Sfruttando il cosiddetto “Periodo de gracia” (che nel gergo politico latinoamericano indica il periodo post-elettorale, durante il quale l’opinione pubblica “concede” al nuovo governo un lasso di tempo di tregua per far sì che esso possa mettere in pratica il suo programma) il nuovo governo ha preso decisioni drastiche con notevole velocità e nel non sorprendente silenzio di tutti i grandi mezzi di informazione, specialmente del Gruppo Clarín e, in particolare, del quotidiano La Nación, voce della borghesia argentina. Alcune delle misure adottate sono state: la svalutazione della moneta nazionale; un aumento delle tariffe dei servizi pubblici, in particolare elettricità, gas, acqua e trasporto pubblico; una deliberata politica di repressione delle proteste sociali con forte aumento dei casi di uccisione di attivisti, tramite uso delle armi da fuoco, da parte della polizia nelle periferie urbane e nelle province interne.
La svalutazione, va detto, a seconda delle caratteristiche istituzionali e produttive dell’economia che adotta tale misura, può essere una benedizione o una iattura per i lavoratori. Nel caso dell’Argentina, essa è sicuramente peggiorativa da questo punto di vista. La svalutazione fa aumentare il costo delle importazioni, che si scarica in gran parte sui prezzi al consumo. Non solo. L’Argentina è un Paese esportatore di beni alimentari caratterizzati dal fatto di essere scambiati in dollari. La svalutazione del peso rende i beni alimentari più convenienti per gli importatori, che hanno bisogno di meno dollari per acquistarli, ma fa anche aumentare il prezzo di tali beni per i lavoratori argentini. Quest’affermazione richiede un esempio numerico.
Immaginiamo di partire da una situazione in cui un peso argentino si scambi con un dollaro statunitense. Assumiamo che il prezzo di un chilo di grano sui mercati internazionali sia pari a 1 dollaro e che venga venduto a 1 peso sul mercato interno. L’importatore di grano argentino dovrà spendere un dollaro per ogni chilo di grano. Immaginiamo che il peso si svaluti rispetto al dollaro, ipotizzando un nuovo tasso di cambio di due pesos per un dollaro. In questa situazione, un chilo di grano argentino costerebbe all’importatore 0,5 dollari, più conveniente rispetto a quello scambiato sui mercati internazionali, fermo a 1 dollaro. L’esportatore argentino di grano troverà quindi conveniente aumentare il prezzo del grano (ad esempio) fino a 1,90 pesos. In questo modo, infatti, l’importatore troverà comunque più conveniente il grano argentino, in quanto gli costerà 0,95$, un prezzo comunque inferiore rispetto a quello prevalente sui mercati internazionali. Questo processo in teoria porterà il prezzo del grano a 2 pesos al chilo, a causa dell’accresciuta domanda di grano argentino, ristabilendo così l’eguaglianza tra il prezzo del grano argentino e quello scambiato sul mercato internazionale. Per l’esportatore argentino, a questo punto, nulla sarà cambiato rispetto a prima della svalutazione, ma il prezzo del grano per il lavoratore argentino sarà raddoppiato.
In definitiva, quindi, si è assistito a una decisa riduzione del salario reale ed un aumento del controllo e della disciplina sociale attraverso la violenza esercitata da parte dello Stato sui movimenti sociali e i sindacati.
Il livello di occupazione, inizialmente addirittura diminuito in seguito alle scelte politiche del governo Macri, ha successivamente fatto registrare un aumento, ma ciò è avvenuto specialmente con l’incremento del numero di lavoratori autonomi e dei contratti di lavoro dipendente di breve periodo, in perfetta linea con una crescente precarizzazione. Le grandi imprese industriali hanno licenziato almeno il 6% della forza lavoro in 3 anni. Il settore pubblico non è rimasto a guardare: dal 10 dicembre 2015 ha lasciato senza lavoro 70mila lavoratori secondo i dati di CEPA (Centro de Economía Política Argentina).
Al contrario di quanto stimavano le previsioni ufficiali, la fine del controllo sul tasso di cambio, che secondo i sostenitori di questa linea avrebbe dovuto liberare le forze produttive (in una prospettiva evidentemente improntata a una cieca e malriposta fiducia nelle virtù del mercato), non ha incrementato a sufficienza le esportazioni. È anche a causa di questa tendenza che l’oligarchia agraria ha ridimensionato il suo peso all’interno dell’alleanza governativa: mentre il potere contrattuale della finanza internazionale cresceva con il crescere della dipendenza dell’economia dai flussi di capitale estero, la borghesia nazionale non riusciva a sfruttare la svalutazione del cambio per aumentare le proprie esportazioni verso l’estero, e dunque vedeva ridursi la propria forza politica. Allo stesso modo, tutte le iniziative orientate alla riduzione del salario reale e del consumo interno, oltre a far peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori, non sono state sufficienti a ridurre in maniera consistente le importazioni. Il deficit commerciale (ovvero la differenza tra importazioni ed esportazioni) è così aumentato in modo esponenziale.
In ambito di politica monetaria, dalla fine del controllo valutario in poi con il nuovo regime di lotta all’inflazione, la Banca centrale Argentina (BCRA) ha fissato tassi di interesse tra il 25% e il 30%. Questa variabile è utilizzata per attirare capitali dall’estero in modo tale da finanziarie il deficit commerciale, che in termini di esportazioni è il più alto degli ultimi venti anni. Con il passare del tempo l’oligarchia finanziaria è andata assumendo il ruolo di protagonista di tutte le decisioni economiche per un motivo evidente: l’apertura commerciale si è tradotta in un deficit del conto commerciale che può essere coperto soltanto con consistenti entrate finanziarie. La gestione del tasso dell’interesse, però, si è mostrata efficace nell’incrementare i flussi di capitale dall’estero soltanto fino a un certo punto, in quanto le autorità monetarie di altri Paesi hanno iniziato ad aumentare i propri tassi d’interesse, vanificando in parte l’effetto degli incrementi del tasso d’interesse argentino.
Per questa ragione, in previsione del possibile esaurimento del ciclo di indebitamento attraverso i mercati finanziari, il governo ha deciso di iniziare le trattative per accedere ad una linea di prestito del Fondo Monetario Internazionale, che, come da tradizione, chiederà al bendisposto governo argentino ulteriori “riforme strutturali” in cambio dei cosiddetti aiuti finanziari. Anche qui non vi è nulla di inedito. Va ricordato, a questo proposito, che questo organismo era stato escluso completamente dall’agenda del governo dal gennaio 2005, quando Nestor Kirchner decise di cancellare il debito di circa 10 miliardi di dollari per evitare qualsiasi tipo di ingerenza esterna sulle decisioni economiche sovrane.
L’FMI riappare nel bel mezzo di una crisi della bilancia dei pagamenti per ripianare il deficit commerciale con prestiti vincolati ad un nuovo probabile ciclo di riforme liberiste. Del resto, tutte le volte che l’Argentina ha sperimentato tassi di crescita elevati per un periodo persistente oppure di fronte a cambiamenti nelle ragioni di scambio, vi è stata una crisi della bilancia dei pagamenti. Ciò è dovuto al fatto che, come molti altri paesi latinoamericani, l’Argentina è fortemente dipendente dalle importazioni, cosicché appena aumentano i tassi di crescita e il reddito pro-capite, si registra un consistente aumento delle importazioni, che genera pressioni sulla bilancia dei pagamenti.
I controlli sui cambi imposti dal precedente governo, anche se lungi dall’essere definiti in modo corretto, avevano una logica storica. L’Argentina è uno dei pochi paesi che ha conosciuto tre ondate di iperinflazione nel secolo passato. All’attuale governo, del resto, non sembra interessare la storia economica del paese, ma sarebbe ingenuo pensare che la storia si stia semplicemente ripetendo per errore. Possiamo forse credere che i protagonisti del neo-liberismo non siano in grado di comprendere le conseguenze della loro agenda economica, che ha già prodotto i suoi frutti amari in passato?
In ogni caso, non si può escludere che una crisi possa giustificare l’adozione di riforme oggi ad alto rischio di opposizione sociale. Si potrebbe pensare, ad esempio, a un processo di “dollarizzazione”. Questo provvedimento consiste nell’adozione, formale o informale, di una valuta estera (in questo caso il dollaro statunitense) in sostituzione di quella nazionale. Si tratterebbe sostanzialmente di una versione estrema del regime di cambi fissi col dollaro statunitense che l’Argentina ha formalmente adottato dal 1992 al 2002. Poiché la svalutazione non ha dato i risultati sperati, è possibile che la borghesia finanziaria argentina voglia ora optare per questa “soluzione”, che consisterebbe nella perdita totale di autonomia nelle decisioni di politica monetaria, che sarebbero assoggettate agli indirizzi imposti dai grandi capitali internazionali.
Va anche detto che per la prima volta in tre anni è possibile dubitare della rielezione dell’alleanza di governo. Supponendo che la candidatura di Mauricio Macri venga scartata, come sembra, il possibile successore, Maria Eugenia Vidal, erediterebbe una drastica riduzione del grado di libertà d’azione dovuta alla fragilissima situazione economica. Fintanto che il Peronismo, il movimento che costruisce le sue basi a partire dal sindacalismo, resta diviso, il cammino sembra, però, segnato: un ciclo di almeno cinque anni di politiche contro lo sviluppo economico e il benessere sociale.
Tuttavia non è affatto scontato che il destino sia questo. Come questa breve ricostruzione ha dimostrato, tra intenzioni e risultati la strada è costellata di incerti, anche quando si tratta delle intenzioni dei blocchi di potere dominanti. Il popolo argentino dal 2003 in poi ha incrementato, anche se entro chiari limiti, il grado di coscienza sociale rispetto a importanti tematiche, tra cui l’ingerenza del FMI. La sua presenza è di nuovo in gioco e l’esplicita restrizione della sovranità economica, che ha già iniziato a materializzarsi, potrebbe avere ripercussioni in termini di conflittualità sociale che il Fondo non ha preso in considerazione o delle quali non si cura.
La posta in gioco è enorme: qualora davvero le classi dominanti decidessero strategicamente di spingere per una “dollarizzazione” dell’economia nazionale, i lavoratori – e le organizzazioni che ne rappresentano gli interessi – si vedrebbero espropriati di un fondamentale strumento di politica economica. Una situazione molto simile a quella che vivono i lavoratori dei paesi dell’Eurozona, a dimostrazione di come la fantasia della borghesia non sia pari alla sua ingordigia.