Le molestie sessuali sui luoghi di lavoro sono in aumento: dobbiamo svoltare!

«Vuoi un contratto? Fai sesso con me»

Complice la crisi economica dilagante, le denunce di lavoratrici vittime di ricatti sessuali, presso gli sportelli dei sindacati di tutta Italia, sono aumentate del 40 per cento. A Roma la situazione più tragica. Gli esperti: “La solidarietà fra donne è praticamente assente”

di Arianna Giunti, da l’Espresso dell’8 marzo 2017

Prima i sorrisi, gli ammiccamenti, le carezze sulle guance. Gesti apparentemente inoffensivi, fatti soprattutto in pubblico, davanti agli occhi dei colleghi, come a voler dire “vedete? Lei ci sta”.  Avances che con il passare dei mesi sono diventate sempre più frequenti, subdole, asfissianti. Fino a che una mattina, sulla scrivania di Laura, è comparso un disegno: ritraeva una donna a gambe divaricate e sopra di lei un enorme fallo. Il giorno dopo, sulla fotocopiatrice, è spuntato un post-it: “Occupati di questa pratica. E poi fammi un pompino”.

Episodi come questi, in Italia, si verificano silenziosamente ogni giorno. I numeri sono sconfortanti: con l’impennata della crisi economica, negli ultimi due anni i ricatti sessuali sul posto di lavoro sono aumentati del 40 per cento. Lo conferma il sindacato Uil, che ha attivato sportelli di ascolto in tutta Italia e che ogni giorno si trova a raccogliere richieste di aiuto che arrivano in maniera quasi univoca dalle donne (63% dei casi). Lavoratrici donne che denunciano soprattutto casi di mobbing (67%) e di stalking (10%).

Più in generale, secondo gli ultimi dati Istat, sono oltre 1 milione e 500mila le donne fra i 18 e il 65 anni che hanno subito ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa. In particolare, il 32% di loro ha subito vere e proprie molestie (con tanto di palpeggiamenti e contatti fisici sgraditi) e il restante 68% si è sentito rivolgere richieste di disponibilità sessuale. Le avances, nello specifico, arrivano sia al momento dell’assunzione che – molto più frequentemente – al rinnovo del contratto a tempo determinato o con la promessa di un avanzamento di carriera. Le vittime – contrariamente a quello che si potrebbe pensare – sono quasi sempre donne mature: nell’80% dei casi fra i 41 e 50 anni, italiane e con livello culturale medio alto. Il restante 20%, invece, è composto da giovani straniere fra i 31 e i 40 anni.

Gli abusi di potere da parte dei datori di lavoro – è la triste realtà – quasi sempre centrano il loro squallido obiettivo: sette donne su dieci pur di non perdere il posto di lavoro  chiudono gli occhi e cedono ai ricatti.

AVANCES IN MAGAZZINO

Lo scenario tipico è quello delle piccole medie e imprese, dove la presenza del sindacato è quasi assente, c’è poca solidarietà fra colleghi e si tende a respirare un’atmosfera padronale.

“Le situazioni più tragiche si registrano nelle grandi città, Roma in testa – spiega a l’Espresso Alessandra Menelao, Responsabile nazionale dei centri di ascolto Mobbing e Stalking Uil – perché le regole del mercato del lavoro sempre più competitive e spregiudicate unite alla crisi economica dilagante tendono ad esacerbare questi ricatti”. Difficile la situazione anche a Milano, dove il Centro Donna della Cgil ha raccolto, in soli 12 mesi, 484 segnalazioni. Di queste, 220 hanno riguardato le discriminazioni di genere e 7 le molestie sessuali.

Come è successo a Francesca, nome di fantasia di una commessa di 35 anni impiegata a tempo determinato in un negozio che si trova all’interno di un centro commerciale nella periferia nord della Capitale. Il titolare del negozio – un uomo di 57 anni – inizia a rivolgerle complimenti sempre più insistenti e a invitarla a pranzo fuori. Lei, nonostante sia in imbarazzo, accetta. Davanti alle altre commesse il titolare loda la sua bravura la sua precisione, le accarezza spesso il viso, le lascia intendere che oltre a rinnovarle in contratto le offrirà un ruolo di maggiore responsabilità all’interno del negozio. Un giorno l’uomo le chiede di accompagnarlo a prendere alcuni tessuti in magazzino, lei lo segue. Una volta soli nella stanza lui prova a baciarla, lei si divincola e scappa. Quando tenta di confidarsi con una collega, la donna le lascia intendere che è colpa sua. Che se l’è cercata. E che a questo punto, per tenersi il posto, “ti conviene andarci a letto”.

“Il comportamento di questi datori di lavoro sembra quasi seguire un manuale scritto – spiegano ancora dalla Uil – perché scegliendo la propria vittima ed esponendola in pubblico, si sortisce l’effetto di isolarla dal resto dei colleghi. Che la guarderanno con sospetto, biasimo, invidia per suoi eventuali traguardi lavorativi. E la abbandoneranno in caso di difficoltà”.

DISCESA AGLI INFERI

Per molte di queste lavoratrici si tratta di un iter che inizia con avances più o meno esplicite e poi termina con il mobbing, se la richiesta sessuale non viene esaudita. Una discesa agli inferi dalla quale è difficile risalire. Così è stato per Laura, 30 anni, impiegata in un’azienda di piccole dimensioni con un ruolo amministrativo. Quando la donna comincia a subire le attenzioni del superiore, inizialmente fa finta di nulla. Di fronte all’insistenza dell’uomo, pensando di trovare solidarietà femminile, spiega la situazione alla sorella del suo capo, che lavora anche lei nella stessa azienda con un ruolo di responsabilità. La donna, però, anziché aiutarla, riferisce tutto al fratello. Che trasforma le sue avances in veri e propri atti intimidatori. Sulla sua scrivania, Laura comincia a trovare disegni osceni, insulti a sfondo sessuale e fazzoletti sporchi di escrementi. Chiede aiuto alla Asl e alla polizia giudiziaria. Ma poi, stremata ed esasperata, accetta di dimettersi.

Uno stato di isolamento che a volte, invece, travolge le donne sul posto di lavoro anche quando quelle avances in realtà non sono mai avvenute. Ma diventano “immaginarie” per punire e umiliare una rivale che è riuscita a ottenere il posto lavorativo che si voleva per sé.

Così è successo a Mirela, donna rumena di 50 anni, impiegata come addetta in una mensa. Suo marito era malato e lei aveva chiesto il trasferimento nella sede più vicina a casa. L’azienda gliel’aveva concesso. Quel posto, però, era ambito anche da altre sue colleghe, che hanno cominciato ad alimentare su di lei pesanti calunnie, insinuando che l’avesse avuta vinta solo dopo essersi concessa ai suoi capi. “Quelle maldicenze erano diventate così  feroci e insistenti che a un certo punto mentre servivo in mensa– è la denuncia della donna – gli altri lavoratori hanno cominciato a saltare le pietanze che offrivo per manifestare il loro disprezzo”. E così l’hanno ancora una volta l’hanno avuta vinta loro: Mirela ha dovuto lasciare quella sede.

“TE LA SEI CERCATA”

Già perché la battaglia più dura da vincere non è quella che si consuma in Tribunale. Ma nella testa delle donne stesse. Che devono vincere, loro per prime, retaggi culturali ancora duri a morire. Spiega Pietro Bussotti, psicologo e psicoterapeuta esperto in lavoro, che si occupa quotidianamente di vittime di mobbing a sfondo sessuale: “Il senso di colpa che la donna prova quando è vittima di molestie non è nient’altro che l’interiorizzazione di quel metro morale che valuta le donne, anche sul piano lavorativo, in base alla loro sessualità”. “Questa morale giudicante, ormai fatta propria non solo dagli uomini ma anche dalle stesse donne – prosegue lo psicologo – viene applicata nei giudizi verso le colleghe e persino verso se stesse. E così i sensi di colpa e la vergogna aumentano, rendendo il gioco facile ai molestatori”. L’altro fattore frenante, confermano gli esperti, è la paura. “A livello psicologico la paura ha uno scopo positivo, perché ci mette in guardia e aiuta a salvarci la vita – spiega ancora Bussotti – però quando è troppa ci paralizza, ci impedisce di reagire. Ed è quello che succede a queste donne”. “La lavoratrice deve riconoscere prima di tutto con se stessa che in queste situazioni la strada del compromesso non può essere percorsa – è il consiglio dello psicologo – deve ritrovare la propria lucidità e chiedere aiuto. E trovare la forza per denunciare”.

L’ONERE DELLA PROVA  

Dimostrare queste realtà, però, non è facile. Negli atti persecutori così come nei casi di molestie o di mobbing, per la legge italiana l’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E’ lei a dover eventualmente dimostrare – davanti a un giudice – di aver subito ricatti sessuali. “I datori di lavoro sono quasi sempre abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail o messaggi – spiega ancora Alessandra Menelao – tutto si gioca sul piano del “detto e non detto”, delle frasi allusive diversamente interpretabili e giocate sul fraintendimento”. E così è facile che gli accusati  ribaltino la situazione iniziale, rendendo debole e inefficace la testimonianza dell’accusatore. Che nel frattempo – stremato a livello psicologico e sempre più solo – arriverà ad accettare anche un inadeguato compromesso economico pur di mettere fine a quella situazione logorante.

“La lavoratrice – consiglia dunque la responsabile dei centri di ascolto Mobbing e Stalking – deve diventare una sorta di detective, procurarsi tutte le prove possibili e rivolgersi immediatamente agli sportelli dei sindacati dove sarà indirizzata ad affrontare il percorso legale e psicologico necessario”.

L’altro argomento da non tralasciare è – appunto  – quello della solidarietà, che scarseggia nei posti di lavoro. “In Italia manca un empowerment femminile – spiega ancora Menelao – spesso le prime nemiche delle donne sono le donne stesse”.