Sabrina, una dei 1666 licenziati, racconta la vicenda Almaviva: la lotta contro il ricatto padronalela guerra tra poveri, il ruolo infame del governo e delle burocrazie
di Sabrina, ex matricola 1282 RM
La sera del 27 dicembre sono tornata a casa annientata, annichilita.
Da poco, infatti, nella sede CGIL di Via Buonarroti, aveva prevalso tra i lavoratori romani di Almaviva Contact la volontà di chiedere al Mise e all’azienda di riaprire la trattativa per scongiurare il licenziamento, previsto per il 30 dicembre, di 1666 persone, me compresa.
Riaprire ora la trattativa significava chiedere di estendere anche alla sede di Roma l’accordo capestro che all’alba del 22 dicembre le RSU di Napoli avevano siglato a stragrande maggioranza e quelle di Roma avevano respinto unanimemente.
Questo accordo scellerato contemplava una forte decurtazione dello stipendio (tramite l’azzeramento degli scatti di anzianità e l’abbassamento del livello professionale ) e contestualmente il controllo individuale della produttività che di fatto già c’era ma, mascherato dalla suddivisione degli operatori in vari sottogruppi, non poteva ancora essere utilizzato come arma di ricatto.
E in cambio? Soltanto tre mesi di cassa integrazione straordinaria, nel corso dei quali studiare nuove soluzioni per incrementare la produttività etc etc.
Proprio così! Almaviva con quell’offerta non ritirava la procedura dei licenziamenti, ma la sospendeva soltanto, obbligando i lavoratori a sottoscrivere questi due punti entro e non oltre il 31 marzo 2017, altrimenti avrebbe potuto licenziare nei quindici giorni successivi senza la necessità di riaprire una nuova procedura.
Con quanta convinzione, con quanta compattezza nelle assemblee e nei presidii dei giorni precedenti avevamo dato mandato ai nostri delegati sindacali di respingere queste richieste inaccettabili ed offensive!
Quando, davanti al Mise, alle 22:30 del 21 dicembre, ci hanno comunicato ufficialmente che nessuno di loro avrebbe firmato, è esplosa l’esultanza. I no infatti avrebbero ottenuto comunque la maggioranza, qualsiasi fosse stata la decisione della RSU di Napoli,che erano solo 8 su 21, e c’era la convinzione che durante la notte si sarebbe trovata una soluzione dignitosa per i lavoratori, visto che per la prima volta si erano materializzati al tavolo della trattativa il ministro Calenda e i tre segretari dei Sindacati Confederali.
Auspicavamo ammortizzatori sociali validi, con esodi esclusivamente volontari ed incentivati, percorsi di formazione e riqualificazione professionale, invece…
Invece, la mattina dopo, la doccia fredda: il Governo nel corso della notte aveva scorporato le due vertenze, così Napoli rimaneva dentro la trattativa ancora per tre mesi, prolungando uno stillicidio pagato con i soldi pubblici, e Roma fuori, da subito.
La mossa infame del Governo gli ha permesso di portare a casa un risultato almeno parziale ( 845 persone in standby ) da sottoporre al plauso dei media, visto che tutti i giornali filogovernativi titolavano del “salvataggio di 2500 posti di lavoro” prima ancora che la finta soluzione fosse stata accettata.
So per certo che le dirigenze sindacali hanno esercitato pressioni enormi sulle RSU di Roma affinché anche loro firmassero: Camusso, Furlan e Barbagallo non hanno considerato neppure per un attimo l’ipotesi del “gran rifiuto”, ed alla richiesta dei nostri delegati (dopo aver appreso dello scorporo ) di avere altre 12 ore di tempo per sottoporre la soluzione transitoria al vaglio dei lavoratori hanno risposto che ormai non c’era più tempo, o dentro o fuori.
A quel punto, coerentemente, le nostre RSU hanno ribadito quel NO che più volte avevamo espresso durante le assemblee e i referendum interni all’azienda.
Il 22 dicembre, alla notizia del “salvataggio ” di Napoli si è aperta una fase drammatica, determinata non solo dall’esserci trovati seduta stante fuori da Almaviva, ma anche dal “tradimento” dei colleghi napoletani, che avevano ceduto proprio sul traguardo finale, impedendoci di lanciare all’intero paese un segnale di riscatto sociale e di lotta di classe.
Per giunta abbiamo subito l’affronto di Governo, segreterie nazionali e media, che hanno fatto di tutto per far ricadere la colpa dei licenziamenti sui nostri delegati, tacciandoli di IRRESPONSABILITÀ.
Purtroppo questa chiave di lettura è stata fatta propria da quei colleghi meno informati e meno politicizzati che per loro scelta non hanno seguito da vicino le fasi alterne di una trattativa che andava ormai avanti da marzo 2016, quando Almaviva aveva dichiarato l’esubero di circa 3000 dipendenti tra le sedi di Palermo, Napoli e Roma, guarda caso le stesse nate da maggior tempo, quelle con i dipendenti con più anzianità di servizio e maggiori tutele.
Nel frattempo la vice-ministra Teresa Bellanova, che ha seguito la vertenza dall’inizio, twittava di essere ancora disponibile a riaprire la trattativa per la sede di Roma e CISL e UIL raccoglievano le firme dei lavoratori per rientrare nell’accordo.
Con queste premesse, il 23 dicembre la CGIL ha tenuto nei suoi locali di Via Buonarroti tre assemblee per consentire un confronto tra noi e valutare la possibilità di indire un referendum che stabilisse se tornare al Mise oppure no.
Il dibattito è stato accesissimo e lacerante, i toni molto aspri e in qualche occasione si è arrivati quasi alle mani. Alcuni, piangendo, hanno confessato di voler rientrare per paura del baratro che si era aperto davanti a noi così precipitosamente, altri accusavano i sostenitori del no di essere dei fannulloni e di respingere per questo motivo il controllo individuale o di essere “figli di papà” che possono fare tranquillamente a meno di tre mesi di cassa integrazione straordinaria.
C’era chi urlava di non fare passi indietro, di conservare dignità e coerenza, di non andare “a pregare i nostri aguzzini perché ci lascino accettare la loro offerta inaccettabile”, di non tramutarsi in schiavi pur di avere un lavoro.C’era chi sosteneva di voler rientrare nell’accordo per i propri figli e chi proprio per loro si rifiutava di farlo, per infondergli speranza in un mondo migliore.
Alla fine il referendum si è tenuto il 27 dicembre, quando la mattina stessa molti di noi avevano già ricevuto la lettera di licenziamento. L’esito è quello che ho descritto all’inizio di questo pezzo, mancano solo i numeri: abbiamo votato in 1065 ed il SÌ ha prevalso con circa 120 voti di scarto. Io ho assistito allo spoglio, agli sguardi pieni di terrore o di speranza, alle lacrime di rabbia (comprese le mie) o di gioia per l’ipotesi di salvataggio in extremis.
Il 29 si è tornati al Mise ma l’Azienda, pur avendo risposto alla convocazione, ha dichiarato che ormai i giochi erano chiusi e che la trattativa non poteva essere riaperta, anche per problematiche di carattere legale.
Da parte mia sollievo e nessuno stupore: Almaviva ha già iniziato a delocalizzare in Romania, ha sempre voluto questo licenziamento e da anni usava questa minaccia per intascare soldi e commesse pubbliche.
Marco Tripi è l’avamposto dell’ASSTEL, che avanzerà le sue stesse richieste ( diminuzione del costo del lavoro e controllo individuale ) quando a breve si discuterà del rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti delle telecomunicazioni.
Ed ora, cosa rimane?
Nonostante l’aggressione mediatica che abbiamo subito, rimane il fatto che il 44% di noi ha continuato a dire NO fino alla fine, ed il ripensamento tardivo di chi ha ceduto alla disperazione e alle proprie fragilità (nonché alle lusinghe delle dirigenze sindacali) non può inficiare la portata del messaggio partito da Roma: l’accettazione della riduzione in SCHIAVITÙ NON può essere chiamata RESPONSABILITÀ