Boeri prepara una nuova riforma delle pensioni contro le “iniquità pazzesche ” del sistema retributivo. La sua “equità” è il nostro impoverimento!

boeri 2L’enfasi di  Boeri sull’equità come principio cardine attorno al quale riformare il sistema previdenziale nasconde in realtà un contenuto ideologico e di classe ben preciso volto a rafforzare i principi individualisti del mercato e l’atomizzazione del mondo del lavoro. Dietro la sua apparente neutralità,  mira ad indebolire ulteriormente la solidarietà di classe tra diverse generazioni di lavoratori mediante il rafforzamento della competizione per dividersi la quota di reddito riservata al lavoro (quella destinata al capitale è inviolabile). E come spesso accade, il rafforzamento della competizione tra i vari strati della classe lavoratrice indebolisce la sua forza complessiva rispetto a quella esercitata dalla classe padronale. I sistemi retributivi hanno invece proposto un modello di solidarietà tra generazioni di lavoratori, allineando gli interessi dei pensionati con quelli dei lavoratori attuali poiché l’ammontare della pensione dipende dai livelli occupazionali e dalla crescita della produttività, ossia dalla crescita salariale e dalla forza sindacale. È ciò a rendere il sistema retributivo un esplicito patto inter-generazionale tra lavoratori e pensionati.

La cancellazione degli ultimi residui del sistema retributivo non è altro che il passaggio ad una generalizzata e subitanea riduzione delle pensioni pubbliche. Per Boeri le spese delle pensioni, non essendo coinvolte direttamente nell’accumulazione di capitale, sono un puro costo sociale e perciò devono essere ridotte attraverso l’innalzamento dell’età pensionabile, ma anche e soprattutto attraverso il dirottamento delle risorse previdenziali verso altri settori più produttivi. Per fronteggiare le decurtazioni attuate in nome dell’equità, i pensionati e i lavoratori saranno spinti a integrare immediatamente i loro assegni previdenziali rivolgendosi a fondi pensioni privati, i quali garantiranno cospicui introiti alle imprese finanziarie (in primo luogo, banche, assicurazioni) che ne cureranno gli aspetti gestionali ed operativi. A conti fatti, la privatizzazione del sistema previdenziale è il reale obiettivo delle ‘riforme strutturali’ invocate dal presidente Boeri.

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Articolo di Francesco Macheda, professore aggiunto di Economia Politica presso la Bifröst Università, Islanda.

Pubblicato su Economia e Politica il 23 novembre 2015

Pochi giorni dopo la presentazione della Legge di Stabilità alla fine di ottobre di quest’anno, il presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) Tito Boeri ha tuonato che sarebbe stato ‘importante’ con la manovra per il 2016 “fare l’ultima riforma delle pensioni”. Boeri ha ribadito che la riforma delle pensioni “è davvero molto importante farla, sono riforme che vanno fatte”, auspicando “che il 2016 sia l’anno in cui si andrà a un intervento organico, strutturale e definitivo sulle pensioni”.[i]

Forse i tempi ristretti imposti dalle telecamere hanno impedito a Boeri di illustrare i contenuti della riforma che ha in testa. Boeri non spiega quali meccanismi finanziari e solidaristici desidera vengano ristrutturati, non dice chi dovrebbe pagare chi, chi dovrebbe ricevere cosa, quanto, quando e come.

Fortunatamente, la storia accademica di Boeri, nonché la strategia gestionale adottata fin dal suo insediamento a capo dell’INPS, ci consentono di avanzare qualche considerazione relativa l’organicità dell’intervento strutturale che, nei proposti dell’economista bocconiano, dovrebbe ‘modernizzare’ il sistema pensionistico italiano una volta per tutte. La mia ipotesi è che le ‘strategie riformatrici’ del presidente dell’INPS siano volte all’ulteriore indebolimento del mondo del lavoro al fine di sacrificare i diritti previdenziali dei lavoratori del nostro paese sull’altare del mercato. Ciò è del tutto coerente alla sua impostazione teorica neoclassica-individualista in campo previdenziale.

A tal scopo, intreccerò l’orientamento normativo delle dichiarazioni e documenti redatti da Tito Boeri in qualità di presidente dell’INPS con la sua analisi accademica. In quest’articolo, mi limiterò a evidenziare i risvolti politici e socio-economici di una ristrutturazione dell’INPS centrata interamente sul principio morale dell’‘equità’, tentando di far luce sulla funzione ideologica e di classe che tale principio incorpora. L’enfasi posta dal nuovo presidente dell’INPS sulla necessità di estendere la corrispondenza attuariale tra contributi versati e prestazioni erogate a livello individuale è volta a spezzare ulteriormente la solidarietà del mondo del lavoro.

 L’operazione “Porte Aperte” (al mercato)

La prima iniziativa compiuta dal presidente dell’INSP pochi mesi dopo il suo insediamento è stata l’operazione ‘Porte aperte’,[ii] la quale presenta la situazione economico-finanziaria delle maggiori gestioni pensionistiche amministrate dall’INPS – come il fondo speciale dei ferrovieri, degli addetti del trasporto aereo, del personale addetto al trasporto pubblico, e altri ancora. Tutte le schede sono concluse dal ricalcolo delle prestazioni pensionistiche effettivamente erogate applicando il metodo contributivo, al fine di mostrare come la stragrande maggioranza dei pensionati percepisca un assegno previdenziale più elevato (mediamente nell’ordine del 20-40 percento) di quella che avrebbe ottenuto con il ricalcolo contributivo. Ad esempio, l’istituto presieduto da Boeri punta il dito contro il 99 percento dei pensionati del comparto della telefonia e delle comunicazioni, rei di percepire un assegno più generoso “di quello che si avrebbe avuto utilizzando interamente il metodo contributivo.”[iii]

La permanenza di “forti asimmetrie nei trattamenti previdenziali concessi a diverse categorie di pensionati – differenze non fondate su diversi livelli contributivi” (INPS 2015: 13) – avrebbe portato in negativo la quasi totalità dei patrimoni, e i trend sono in continuo peggioramento. In soldoni, le ‘iniquità pazzesche’, come definite dallo stesso Boeri, legate gli assegni dei pensionati calcolati con il metodo retributivo starebbero conducendo il bilancio dell’INPS verso la bancarotta, prevista inequivocabilmente attorno l’anno 2050.

Per evitare la catastrofe, Boeri ha sottoposto all’attenzione dell’esecutivo una bozza di riforma che permetterà di “non dover più intervenire in futuro”, “dando finalmente stabilità normativa, sicurezze ai contribuenti e ai pensionati”. Le proposte di Boeri “vogliono, nel complesso, rendere il sistema più equo…tanto tra generazioni diverse che all’interno di ciascuna generazione”. (Ibid.: 11)

L’implicazione dell’operazione ‘Porte Aperte’ (volta a diffondere informazioni relative le iniquità prodotte dal sistema retributivo), unita all’accento sull’equità (come principio cardine attorno al quale organizzare il sistema pensionistico italiano) pare essere piuttosto chiara: da un punto di vista normativo, il problema dell’equità può essere risolto immediatamente dalla demolizione completa del sistema a ripartizione e, specularmente, dall’estensione del sistema a contribuzione definita virtuale (NDC) introdotto dalla ‘riforma Dini’ del 1995 a tutta la platea di lavoratori e pensionati – anche coloro non colpiti da tale riforma e dalle misure introdotte dalla Fornero nel 2012.[iv]

Imponendo il criterio di calcolo delle pensioni rispetto al salario medio percepito lungo la vita lavorativa, e non al salario finale come nel metodo retributivo precedente, il sistema contributivo approssima le assicurazioni private. In ambo i casi, la pensione erogata è esplicitamente legata ai contributi effettivamente accumulati dai lavoratori,[v]con la differenza che nel sistema contributivo la restituzione dei contributi una volta terminata la carriera lavorativa è vincolata dalla promessa politica compiuta dallo Stato, anziché dalla capitalizzazione dei titoli posseduti da ciascun lavoratore (Cesaratto 2005). Purtuttavia, anche il sistema contributivo rafforza la relazione fra contributi effettivamente versati e assegno previdenziale, il quale appare come un diritto individuale derivante dalla partecipazione al mercato del lavoro con la quale gli individui contribuiscono alla produzione presente. Solo in conformità a tale contributo, le persone possiedono il diritto di reclamarne una fetta futura.

Posta in questi termini, la questione previdenziale è ridotta a un preciso calcolo attuariale che deve consentire al singolo lavoratore di godere, durante la vecchiaia, dei frutti dei contributi accumulati. E poiché le prestazioni pensionistiche dipendono dalle risorse prodotte nel presente, sebbene i diritti per il loro accesso vengano maturati nel passato, il problema diviene quello di garantire una corrispondenza ‘equa’ tra contributi versati e prestazioni ricevute.

 Equità e previdenza

Il principio dell’equità abbracciato da Boeri e dagli economisti neoclassici in generale pare a prima vista un concetto eticamente neutro, in quanto predica la legittimità e l’‘apoliticità’ di una distribuzione del reddito proporzionale al contributo fornito da ciascun individuo alla sua produzione. In altre parole, la distribuzione delle risorse è governata da leggi naturali, che attribuiscono a ogni agente l’ammontare di ricchezza che egli ha contribuito a produrre.

Da una prospettiva morale, il sistema contributivo è dipinto, sia da Boeri sia dai suoi colleghi neoclassici, come socialmente desiderabile poiché in grado di evitare l’eventualità che generazioni (coorti) più numerose e longeve, o che abbiano goduto di congiunture più favorevoli, ‘esproprino’ le risorse prodotte di quelle meno numerose, e/o che hanno beneficiato di performance economiche più contenute.[vi]

Non da ultimo, nella cornice neoclassica la desiderabilità sociale centrata sul principio dell’equità intergenerazionale va di pari passo con le qualità efficientiste dei sistemi a contribuzione, i quali sono in grado di compensare l’incremento della speranza di vita con la riduzione dell’entità unitaria della prestazione pensionistica, senza causare effetti sulla spesa aggregata, rendendo pertanto immune il sistema dai rischi finanziari correlati all’andamento demografico. Infatti, al pari dei sistemi privati a contribuzione definita (si sa quanto versi, ma non quanto prendi) anche nel sistema contributivo i rischi tendono a essere scaricati sulle spalle dei pensionati futuri: saranno loro a ricevere una pensione ridotta qualora aumentasse l’aspettativa di vita media, oppure se una crisi demografica o economica riducesse la crescita del PIL, l’occupazione e le entrate fiscali.

Il professor Boeri è in totale accordo con quanto esposto poc’anzi. L’enfasi posta sul principio dell’equità (e, di converso, sulle ‘iniquità pazzesche’ del sistema retributivo) è del tutto compatibile a quella delle istituzioni neoliberali come la Banca Mondiale, la quale da oltre un ventennio sostiene come il sistema pensionistico debba riconoscere esplicitamente che le prestazioni pensionistiche siano domande sulla produzione economica futura. Per raggiungere questo scopo, esso deve contribuire a tale produzione. (Holzmann 1998)

Paradossalmente, è lo stesso Boeri a ricordare come i sistemi contributivi, prevendendo una stretta connessione tra contribuzioni passate e prestazioni pensionistiche future, possano indurre un “significativo effetto negativo sulle pensioni dei giovani occupati odierni, poiché questa generazione potrebbe accumulare contribuzioni insufficienti – e quindi pensioni molto basse – per accedere alla pensione.” (Boeri e Galasso 2010: 9) Tuttavia, ciò non lo esime dal decantarne le lodi: “dopo oltre dieci anni [quindici anni] dalla loro introduzione, ci troviamo finalmente nella posizione di poter giudicare la reale efficacia di questi sistemi nello svolgere pienamente i compiti sopra descritti. In effetti, i sistemi nozionali a contribuzione definita hanno adempiuto le loro funzioni in maniera soddisfacente” (Ibid.:4), rafforzando la sostenibilità finanziaria dei sistemi pubblici mediante il taglio delle prestazioni future; innalzando l’età pensionabile; privilegiando l’equità intergenerazionale; e rafforzando il ruolo del mercato nella definizione dell’ammontare della generosità delle pensioni, attraverso l’introduzione di una serie di meccanismi di aggiustamento automatici che non richiedono l’intervento politico del governo.

 Il ruolo ideologico del principio dell’equità

La forza ideologica dell’economia neoclassica risiede nella sua abilità nel presentarsi come una teoria socialmente neutra, ossia impermeabile a considerazione di tipo etico. Tuttavia, nessuna scienza sociale può essere considerata neutrale o ‘oggettiva’. La ricerca sociale, anche e soprattutto in campo economico, è sempre basata su valutazioni morali, politiche e ideologiche, le quali dipendono a loro volta dal contesto economico e politico. Ciò significa che la prospettiva da cui si osserva la realtà sociale, le questioni economiche e la natura dei problemi analizzati dagli economisti è storicamente specifica. Per questa ragione, i concetti utilizzati e le teorie erette su tali concetti non possono essere puramente oggettivi. (Myrdal 1973)

Il potere ideologico della teoria neoclassica deriva non solo dalla sua capacità di offrire spiegazioni plausibili circa l’esperienza quotidiana delle persone, ma anche e soprattutto dalla sua costante riproduzione da parte di alcune persone, il cui obiettivo primario (intenzionale o meno) è la giustificazione, la difesa o il rafforzamento della struttura economica sottostante. (Lawson 2012) Semplicemente, la forza ideologica degli economisti ortodossi sta nella legittimazione degli interessi dominanti di una determinata classe presentandoli come gli interessi di tutti le classi, solitamente negando l’esistenza delle classi sociali. (Carchedi 2011: 42)

Il valore dell’equità incorporato dai sistemi previdenziali contributivi nasconde in realtà un contenuto ideologico e di classe ben preciso volto a rafforzare i principi individualisti del mercato e l’atomizzazione del mondo del lavoro. Dietro la sua apparante neutralità, infatti, il principio dell’equità distributiva tende a stabilire una relazione inversa e conflittuale tra benessere dei giovani lavoratori e degli anziani (Irwin 1996), giacché ogni aumento dei livelli contributivi volto al mantenimento degli standard pensionistici esistenti colpisce ingiustamente gli interessi dei primi. Tale relazione è concettualizzata da un approccio contabile-generazionale ruotante attorno al supposto ‘debito pensionistico futuro’ lasciato in eredità alle giovani generazioni, le quali saranno costrette a farsi carico dei privilegi (o dei diritti, dipende dai punti di vista) strappati dai loro padri. (Kotlikoff 1992; World Bank 1994)

È chiaro come il rapporto generazionale espresso dalla Banca Mondiale e fatto proprio da Boeri ipotizza una chiara visione dei rapporti sociali. Il tratto de-mercificante della pensione, da raggiungere attraverso la solidarietà re-distributiva tra gli appartenenti alla stessa classe, quella lavoratrice, è offuscato dalla visione neoclassica che pone la questione previdenziale in termini di consumo individuale, ossia come un “ciclo di vita” a-storico suddiviso tra lavoro (risparmio) e consumo, da godere durante la pensione (Modigliani e Ando 1954; Modigliani e Brumberg 1963). Il fatto che gli anziani debbano accumulare individualmente le risorse (sebbene virtualmente) con le quali sostenere il loro consumo futuro rispecchia appieno la visione secondo cui i rapporti umani debbano essere mediati dalle relazioni di scambio (di mercato), confinando la solidarietà di classe e il conflitto tra classi inerente la distribuzione del reddito al di fuori dal campo d’analisi.

Tale esclusione risulta essere un’operazione ideologica coerente al nuovo contesto socio-economico di austerità emersa all’inizio degli anni novanta, il quale richiede il rafforzamento della competitività nazionale mediante “incrementi salariali al di sotto di quelli dei maggiori partner commerciali.” (van Waarden 2003: 14). Parallelamente, il rafforzamento della competizione internazionale impone l’implementazione di riforme fiscali volte alla diminuzione delle tasse gravanti sui fattori mobili come i profitti delle imprese e gli alti redditi” (Plihon 2009: 275) al fine non solo di comprimere i costi di produzione, ma anche e soprattutto per sostenere i flussi di capitale finanziario e più in generale di investimenti diretti esteri all’interno dei singoli paesi. Questi elementi strutturali fanno sì che i livelli di profittabilità siano considerati la ‘variabile indipendente’ cosicché il conflitto distributivo tra salari e profitti sia, di fatto, circoscritto all’interno di un’unica classe, quella lavoratrice.

È qui che il valore dell’equità espresso nei sistemi contributivi acquista rilevanza ideologica, tesa a giustificare moralmente il rafforzamento della competizione interna al mondo del lavoro per accaparrarsi le risorse prodotte. Ciò avviene poiché le prestazioni previdenziali non dipendono più da determinate politiche solidaristiche, condensate nello Stato, ma dalle forze impersonali del mercato, il quale restituirà ai pensionati di domani l’ammontare di risorse prodotte oggi come lavoratori. Basandosi su criteri di corrispondenza attuariale fra versamenti e prestazioni erogate, i sistemi contributivi spezzano la solidarietà di classe poiché, a parità di andamento aggregato di economia e trend demografici, la prestazione dipende da quanto individualmente si versa sotto forma di contributi, il cui ammontare è a sua volta legato dal successo nella propria carriera lavorativa.

 Sistema contributivo e conflitto di interessi

La trasformazione di un diritto sociale, consistente in una fetta di reddito prodotto dalla popolazione attiva e redistribuito a quella pensionata, in un diritto da conquistare individualmente sul mercato tende a favorire comportamenti egoistici, i quali poi divengono parte del repertorio comportamentale dell’individuo (Bowles 1998: 80). Il rafforzamento delle pressioni concorrenziali del mercato che impongono il rafforzamento della competizione intra e intergenerazionale sulle risorse prodotte attribuisce ai pensionati una nuova, sprezzante, dimensione sociale. Non più appartamenti a una classe produttiva che ha il diritto di godere un periodo d’indipendenza dalle relazioni di mercato una volta terminata la carriera lavorativa, ma una classe stigmatizzata a causa dei suoi effetti parassitari dovuti alla dipendenza economica dalle risorse prodotte dai lavoratori odierni (Turner 1989). L’attenzione esclusiva della teoria neoclassica sull’offerta di manodopera ha messo sul banco sugli imputati l’accesso stesso alla pensione da parte di quelle persone ancora in buone condizioni psicofisiche. In quest’ottica, il sistema pubblico a ripartizione creerebbe una massa di persone improduttive che, dipendendo e drenando reddito altrui, dovrebbero invece essere utilizzate produttivamente per sorreggere la crescita economica (Bacon e Eltis 1976).

Questa premessa sorregge l’elaborazione teorica di Boeri, secondo cui le spese delle pensioni, non essendo coinvolte direttamente nell’accumulazione di capitale, sono un puro costo sociale. Il nocciolo della sua attività accademica verte attorno l’idea che il mantenimento del benessere dei pensionati sottrae risorse che potrebbero e dovrebbero essere usate più produttivamente, ossia per generare capitale umano con cui sostenere la crescita della produttività necessaria a finanziare le pensioni future. Dati gli imperativi competitivi, le spese non-necessarie devono essere eliminate e dato che le pensioni accrescono i costi, le pensioni devono essere ridotte. A tal scopo, suggerisce non solo l’innalzamento dell’età pensionabile, ma anche e soprattutto il dirottamento delle risorse previdenziali verso altri settori della società, al fine di evitare distorsioni sul mercato del lavoro che potrebbero rallentare la competitività del paese. (Boeri e Perotti 2002; Boeri, et al. 2001; 2014; 2015)

Ciò si pone in antitesi con il valore della solidarietà di classe espresso dai sistemi retributivi. In questi ultimi, infatti, gli interessi dei pensionati sono allineati con quelli dei lavoratori attuali poiché l’ammontare della pensione dipende dai livelli occupazionali e dalla crescita della produttività, ossia dalla crescita salariale e dalla forza sindacale. È ciò a rendere il sistema retributivo un esplicito patto inter-generazionale tra lavoratori e pensionati. A sua volta, la solidarietà insita al sistema lo inclina a scelte politiche, sia da parte degli attori collettivi, sia da parte dello Stato – quest’ultimo “in grado di cambiare le regole del gioco, in conformità con la solidarietà che la società vuole esprimere verso la popolazione anziana.” (Ferreiro e Serrano 2011: 162)

Le ‘virtù politiche’ del sistema a capitalizzazione e di quello contributivo che ne mima la logica, risiedono invece nella loro capacità di spezzare il nesso solidale interno alla classe lavoratrice. Come francamente illustrato da uno dei più influenti tra i Chicago Boys, José Piñera (1981), già ministro del Lavoro durante la dittatura instaurata da Augusto Pinochet in Cile:

“Il nuovo sistema stabilisce una stretta connessione tra sforzi [lavorativi] e benefici [pensionistici]. Non nutriamo alcun dubbio che questo sistema a capitalizzazione favorirà le maggioranze silenziose, le stesse che erano costantemente prese in giro dal sistema PAYGO. La riforma avrà anche profonde conseguenze politiche: una sostanziale crescita della libertà individuale che, assieme alla partecipazione nella vita sociale e al progresso economico, costituirà una barriera insormontabile verso il comunismo, stabilendo una proporzionalità tra sforzi e prestazioni, scomparirà una gigantesca fonte di potere e discrezione statale […]. Abbiamo la certezza di infliggere un altro colpo mortale alla politicizzazione della vita sociale e al Marxismo.”

Libero da preoccupazioni di legittimazione sociale (il suo colonnello sapeva convincere gli indecisi o i critici in maniera piuttosto efficiente) Piñera riassume chiaramente la funzione ‘ideologica’ del principio dell’equità nella lotta di classe. La sua virtù principale consiste nella smobilitazione politica della società. Ciò avviene perché considerazioni astratte circa l’equità tra contributi e prestazioni, tanto a livello intra che intergenerazionali, escludono le ineguaglianze di classe che si celano dietro le disuguaglianze distributive. L’enfasi di Piñera e dei suoi colleghi neoclassici, tra cui Boeri, sull’equità come principio cardine attorno al quale riformare il sistema previdenziale è volta a focalizzare esclusivamente le manifestazioni della distribuzione del reddito, sottacendo i rapporti sociali che producono tale distribuzione.

Questi ultimi possono essere comprese solo spostando lo sguardo dalla sfera distributiva a quella produttiva, e le relazioni di classe che la caratterizzano. (Foley 1975: 233) Così facendo ci accorgeremmo immediatamente che il lavoro è più o meno produttivo secondo le condizioni nelle quali si svolge. Nel momento in cui, oggi, un lavoratore contribuisce all’attività produttiva, lo fa sulla base delle forze produttive create dalle generazioni precedenti, che non sono più in grado di partecipare al processo produttivo. La produzione e i livelli di produttività dei giovani dipendono dal lavoro svolto da coloro che nel frattempo sono divenuti anziani. Senza quella base, essi non saprebbero e non potrebbero produrre come producono e, cioè, non potrebbero creare la ricchezza che concretamente creano. È questo processo sequenziale-progressivo a costituire la base della solidarietà e reciprocità intergenerazionale che sottende la logica del sistemi retributivo, le cui prestazioni trascendono dalla contribuzione monetaria individuale, per andare invece a dipendere dal reddito creato correntemente dall’individuo odierno. Quest’ultimo dona una parte dei frutti del suo lavoro ai suoi padri e nonni che, sebbene non più in grado di partecipare al processo produttivo, ne hanno permesso la realizzazione.

Al contrario, il sistema contributivo che il presidente dell’INPS vuole estendere a tutta la forza lavoro, attiva e inattiva, in nome dell’equità confligge con il senso della dipendenza inter-generazionale in quanto spezza la catena causale del progresso tecnico su cui poggia la solidarietà tra lavoratori operanti nel passato, presente e futuro.

 Conclusioni

Non pare un caso che la distribuzione delle risorse tra giovani e anziani sia stata dibattuta in termini di equità generazionale proprio dalla fine degli anni ottanta, quando in piena epoca Reaganiana-liberista si avviavano i primi emendamenti al programma pubblico statunitense di Social Security e ampiamente ripresi da un articolo pubblicato dalla rivista Forbes dal titolo “Consuming Our Children?” (Chakravarty e Weisman 1988).

Il salvataggio ‘dei nostri figli’ da raggiungersi mediante il rispetto del principio dell’equità era funzionale alla creazione di un messaggio più unificante rispetto a quello della privatizzazione dei sistemi pubblici – vero obiettivo della campagna inquisitoria contro i diritti previdenziali conquistati durante gli anni sessanta e settanta. (Quadagno 1999) Tant’è che il discorso pubblico attinente l’equità previdenziale è divenendo uno dei più efficaci strumenti nell’indirizzare l’agenda pubblica a favore della riduzione del welfare dapprima negli Stati Uniti, ed in seguito in Gran Bretagna e nel resto d’Europa. (Kohli 2006; Higgs e Gilleard: 2010)

Ma come disse qualcuno, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. È facilmente intuibile come l’obiettivo principale dell’operazione ‘Porte Aperte’ sia la creazione di un clima di sdegno e condanna morale verso quei pensionati che ‘ricevono pensione più alte dei loro contributi’. I costi dei loro ‘privilegi’ (quelli che una volta si chiamavano diritti) oltreché essere pagati ingiustamente dai giovani, causeranno il collasso del sistema pensionistico italiano. Pertanto, il tentativo di riorganizzare l’INPS esclusivamente secondo i principio dell’equità appare conciliare desiderabilità morale e sostenibilità finanziaria.

In quest’articolo abbiamo tentato di mostrare come, in realtà, l’enfasi posta sull’equità mira a indebolire ulteriormente la solidarietà di classe tra diverse generazioni di lavoratori mediante il rafforzamento della competizione per dividersi la quota di reddito riservata al lavoro (quella destinata al capitale è inviolabile). E come spesso accade, il rafforzamento della competizione tra i vari strati della classe lavoratrice indebolisce la sua forza complessiva rispetto a quella esercitata dalla classe padronale.

In quest’ottica, la cancellazione degli ultimi residui del sistema retributivo non è altro che il passaggio necessario a una generalizzata e subitanea riduzione delle pensioni offerte dagli schemi pubblici. Per fronteggiare le decurtazioni attuate in nome dell’equità, i pensionati e i lavoratori saranno spinti a integrare immediatamente i loro assegni previdenziali rivolgendosi a fondi pensioni privati, i quali garantiranno cospicui introiti alle imprese finanziarie (in primo luogo, banche, assicurazioni)  che ne cureranno gli aspetti gestionali ed operativi.

A conti fatti, la privatizzazione degli schemi previdenziali è il reale obiettivo delle ‘riforme strutturali’ invocate dal presidente Boeri.