Nella notte tra il 14 e 15 ottobre di 35 anni fa a Roma nella sede del ministero del lavoro (titolare il democristiano Foschi) il capo della Fiat, Romiti, scriveva di suo pugno, su richiesta dei segretari di CGIL (Lama) CISL (Carniti) e UIL (Benvenuto), l’accordo capestro che stroncava la lunga lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della più grande azienda italiana per difendere il posto di lavoro: 35 giorni interrotti di assemblee, di cortei, di blocco di tutti i cancelli, di manifestazioni di massa dei metalmeccanici, degli studenti, delle altre categorie, della solidarietà di un’intera città.
dal sito di Sinistra Anticapitalista
Una lotta che aveva coinvolto i lavoratori di tutte le decine di stabilimenti della Fiat presenti nel paese; una lotta di classe durissima con una valenza politica nazionale ed anche storica. Nella sola regione piemontese i lavoratori dell’auto erano oltre 100.000; 150.000 o più nel complesso del paese.
Quell’accordo espelleva dalla Fiat 23 mila lavoratrici e lavoratori, modificando in profondità i rapporti di forza tra le classi e chiudendo la lunga stagione delle lotte e delle conquiste operaie apertosi con le mobilitazioni del ’68 e l’autunno caldo del ’69.
Nel pomeriggio del 15 ottobre il Consiglione (cioè l’assemblea dei delegati di tutte le fabbriche Fiat di Torino), respingeva con forza quell’accordo. Il giorno successivo anche le assemblee dei lavoratori “bagnati dalla pioggia e dalle lacrime” come ha scritto Raffaello Renzacci, un compagno che ancora rimpiangiamo, respingevano l’accordo e così si pronunciavano le assemblee degli insediamenti Fiat nelle altre città; ma i dirigenti confederali controfirmavano il testo preparato da Romiti e si apriva il lungo e lento declino del movimento di classe e l’involuzione del sindacalismo in Italia che ci ha portato alle difficoltà di oggi e alle nuove offensive antioperaie e antisindacali di Renzi e Squinzi.
Per ricordare quei giorni e quella grande lotta pubblichiamo un lungo articolo inedito di Dino De Amicis e Diego Giachetti che ricostruisce non solo la lotta dell’autunno ’80, ma anche il quadro delle precedenti mobilitazioni operaie per spiegare le dinamiche complessive dello scontro finale.
La ricostruzione di Raffaello Renzacci può essere scaricata dal sito: è contenuta nel libro Cento… e uno annidi FIAT, in particolare nei capitoli 4 e 5.
I 35 giorni che sconvolsero Torino e l’Italia
di Nino De Amicis e Diego Giachetti
La storia che si consumò a Torino nell’autunno del 1980 merita di non essere ridotta a un evento puramente locale, perché si proiettava dentro un percorso più lungo e complessivo sia per le sue origini, sia per gli esiti e le ricadute che essa ebbe nei decenni che seguirono. Pertanto, per cogliere appieno la rappresentazione che sta al centro del quadro narrato, occorre anche vedere la cornice che lo contiene.
Durante l’onda lunga espansiva dell’“età dell’oro” del capitalismo, principalmente i due decenni e poco più che seguirono alla fine del secondo conflitto mondiale, si verificò quella che fu considerata la terza rivoluzione industriale, scientifica e tecnologica, con l’introduzione dell’elettronica, dell’automazione e con l’uso graduale dell’energia nucleare. Le nuove scoperte scientifiche e tecniche, le nuove macchine applicate al processo produttivo, la nuova organizzazione tayloristica del lavoro, consentirono al modo di produzione di aumentare la capacità produttiva dei suoi impianti industriali e quindi il volume complessivo della produzione. Le società occidentali, quelle dei paesi che allora erano chiamati socialisti e dei paesi neocoloniali emergenti, conobbero un processo di industrializzazione che trasformò la struttura produttiva e di classe, determinando un aumento dei lavoratori salariati in quel settore rispetto alla popolazione attiva, che vide diminuire il numero degli addetti all’agricoltura e aumentare quello degli addetti ai servizi e dell’industria.
L’industria, quella automobilistica, degli elettrodomestici, degli armamenti, era in Occidente il settore trainante di quella fase di sviluppo, come lo fu poi quando la recessione colpì quel mercato, trascinando nella caduta gli altri settori produttivi che erano cresciuti attorno ad esso. In Europa Occidentale, ad esempio, l’industria automobilistica ebbe un ruolo economico predominante: circa un milione di addetti alle soglie del 1970: 300mila in Francia, 500 mila in Germania Occidentale, 150.000 in Italia, 200.000 in Gran Bretagna; essa aveva conosciuto nel decennio dal 1960 al 1970 una rapida espansione passando da 5.100.000 auto prodotte a 10.000.000[1]. Le imprese travalicarono sempre più i limiti rappresentati dagli Stati nazionali. Sorsero imprese multinazionali, ciascuna delle quali era in grado di ottenere produzione di profitto contemporaneamente e in più paesi, i cicli economici relativi alle singole economie nazionali tesero a sincronizzarsi, ad essere sempre più interdipendenti l’uno dall’altro.
Quell’onda espansiva si proteggeva dal rischio di crisi di sovrapproduzione disastrose, come quella del 1929, con sistemi di programmazione, pianificazione, interventi statali tesi a potenziare la spesa pubblica e la domanda, favorendo l’aumento dei consumi della popolazione. Tutte misure che prevedevano deliberatamente una certa crescita dell’inflazione, stimolata e sovvenzionata da una forte spesa pubblica statale e facevano aumentare la massa monetaria in circolazione mettendo però in crisi il sistema di conversione del dollaro in oro. La spesa pubblica, il credito monetario, l’inflazione, diventarono progressivamente elementi di freno e di crisi. L’inflazione aggravava la concorrenza intercapitalistica e le tecniche keynesiane anticrisi alla lunga davano vita ad un’inflazione universale che corrodeva il potere d’acquisto della moneta. L’internazionalizzazione della produzione contrastava in misura crescente con i tentativi degli Stati nazionali di applicare con successo una politica anticiclica, la cui portata restava sostanzialmente limitata ai confini nazionali.
Il cuore dell’Occidente capitalistico, all’inizio degli anni Settanta, risultò ferito e destabilizzato dalle lotte operaie, soprattutto nelle grandi industrie metalmeccaniche, dall’ondata dei movimenti sociali che si svilupparono a partire dal 1968 e dalla recessione economica generalizzata del 1974. Contemporaneamente la sconfitta che gli Stati Uniti subivano in Vietnam, nel 1975, rappresentò un momento di crisi profonda dell’imperialismo americano che si trasformò in crisi di direzione e declino relativo della sua egemonia nel mondo.
Nel 1974 l’economia capitalistica internazionale conosceva la sua prima recessione generalizzata dopo la seconda guerra mondiale. Era la prima recessione che colpiva simultaneamente tutte le grandi potenze economiche capitalistiche, mettendo in discussione e in crisi gli strumenti di regolazione e controllo dei cicli economici fin lì messi in campo dal neocapitalismo nel secondo dopoguerra. La recessione del 1974 fu la più grave perché generalizzata, sviluppandosi in modo sincronizzato nei maggiori paesi capitalisti. Precedentemente, la desincronizzazione dei cicli industriali aveva ridotto l’ampiezza delle recessioni in quanto una caduta di produzione e di domanda interna dei paesi coinvolti in un processo di crisi recessiva (per esempio negli Stati uniti nel 1960, in Giappone nel 1965 o in Germania Occidentale nel 1966-67) erano stati compensati da una espansione delle esportazioni verso i paesi non interessati dalla crisi. Questa volta, invece, il presentarsi contemporaneo a livello internazionale delle congiunture nei singoli paesi capitalisti amplificava la crisi e la recessione economica. La sincronizzazione, che non era un fattore accidentale, dipendendo dalla crescente internazionalizzazione della produzione, inficiava i tentativi degli stati capitalisti nazionali di applicare una politica anticiclica limitata alle sue frontiere nazionali.
La recessione si presentò come una classica crisi di sovrapproduzione; essa giungeva dopo una lunga fase di caduta dei tassi di profitto. La caduta del tasso di profitto era nettamente anteriore ai rincari dei prezzi dei prodotti petroliferi, avvenuti dopo la guerra del Kippur del 1973, il cui aumento se mai aveva accentuato il processo, ma non lo aveva provocato. La recessione era segnata da una sotto utilizzazione delle capacità produttive dei principali paesi capitalisti. Si trattava tuttavia di una crisi di sovrapproduzione che si manifestava con alcune peculiarità, date soprattutto dalla presenza di un’inflazione crescente, per l’effetto cumulativo di più di tre decenni di politiche inflazionistiche, a cui si aggiungeva il mare di debiti sui quali si era basato lo sviluppo economico.
Ad aggravare la situazione per le classi dirigenti era la combinazione della recessione economica generalizzata con il livello elevato d’organizzazione e di combattività del proletariato, unitamente alla debolezza del sistema politico borghese in alcuni paesi. Questa combinazione non era casuale, era stata prodotta dallo stesso lungo ciclo di sviluppo economico del dopoguerra che aveva posto le basi strutturali per un rafforzamento quantitativo e qualitativo del proletariato nei paesi capitalisti
Per due anni (1974-1975) la recessione imperversò e provocò una riduzione della produzione che colpì in particolar modo il settore industriale dei paesi capitalisti occidentali. Conseguentemente aumentarono visibilmente il numero dei disoccupati, i prezzi al consumo e il tasso d’inflazione. Già alla fine del 1975 si segnalavano i primi sintomi di ripresa e la fase più acuta della recessione era superata nel 1976, anno in cui la ripresa economica si faceva sentire nella maggior parte dei paesi.
Questa ripresa aveva alcune caratteristiche che ne limitavano la portata. Innanzi tutto essa non era sufficiente a riassorbire la disoccupazione creatasi negli anni della recessione: l’incremento della produttivitàavveniva senza un aumento numerico della manodopera, mediante un più intenso e razionale sfruttamentodelle macchine e della manodopera occupata. Inoltre, la ripresa non arrestava la crescita del processo inflazionistico, quindi appariva incerta e limitata nei suoi presupposti di fondo e si manifestava nei vari paesi in modo diseguale dal punto di vista dei tassi di crescita; pertanto quella recessione aveva segnato una vera e propria inversione di tendenza rispetto ai decenni precedenti, inaugurando una nuova fase dell’economia mondiale caratterizzata da quella che gli economisti definirono un’onda lunga di crescita rallentata, o addirittura di prevalente ristagno.
Contemporaneamente la recessione, che aveva posto fine all’“età dell’oro”, del neocapitalismo keynesiano, reindirizzò gli orientamenti politici ed economici delle classi dirigenti. Iniziarono processi di ristrutturazione economica che intaccarono il mercato del lavoro e il mercato finanziario, furono abbandonati gli «orientamenti definiti sommariamente keynesiani e di welfare state (o stato sociale). Per rilanciare i saggidel profitto e aumentare i tassi di sfruttamento l’austerità diveniva il leit motiv, ancor prima che venissero piùesplicitamente proclamati gli imperativi della restaurazione neo-liberista»[2]. L’inversione di tendenza si scontrò con la resistenza delle classi subalterne e la seconda metà degli anni Settanta fu caratterizzata da aspri conflitti che coinvolsero i movimenti operai dei vari paesi, i quali, di fronte alla crisi e ai processi di ristrutturazione, si mossero in tre direzioni: lotte per la difesa del salario, contro i licenziamenti e la chiusura delle fabbriche e imponendo una forte pressione della base sui loro rispettivi sindacati perché opponessero una resistenza. La politica neoliberista iniziò ad affermasi sul finire del decennio e l’inizio di quello seguente. Con l’elezione di Margaret Thatcher nel 1979 e di Ronald Reagan nel 1980, infatti, iniziò la liberalizzazione del mercato del lavoro e la privatizzazione dei settori economici a conduzione pubblica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La rivoluzione conservatrice iniziò con un attacco diretto al mondo del lavoro: licenziamento degli scioperanti del controllo aereo negli Stati Uniti e intransigenza totale verso i minatori in sciopero in Gran Bretagna e proseguì con la messa in discussione della protezione sociale e la limitazione dei diritti sindacali.
In Europa occidentale si posero le premesse per una politica tesa a ridimensionare il ruolo dei sindacati, per imporre moderazione salariale, flessibilità, e introduzione di forme di lavoro a tempo parziale. Infine, sul finiredegli anni Settanta, si rimodellarono gli stessi assetti del sistema capitalistico, dando inizio al «nuovo regimedi accumulazione mondializzato a dominazione finanziaria»[3].
Gli anni Settanta chiudevano il loro ciclo, mentre una nuova recessione economica si profilava all’orizzonte. Nel 1980-1982 infatti una recessione generalizzata investiva l’economia capitalista internazionale. Come nel1974-1975, essa colpiva soprattutto l’industria automobilistica, siderurgica, petrolchimica e il settore delle costruzioni e si manifestava con una sotto utilizzazione delle capacità produttive di quei settori, accentuata dalla comparsa di nuovi centri di produzione e di esportazione sul mercato mondiale. La recessione era provocata e si prolungava sotto l’effetto di un basso tasso del profitto medio combinato con una caduta degli investimenti produttivi.
L’ora dei 61
Alla luce dei fatti del 1980, quando la Fiat si liberò di migliaia e migliaia di operai, col ricorso alla cassa integrazione a zero ore e alla mobilità, si potrebbe dire che nei 61 licenziati del 1979 si celava, per riprendere una figura della mitologia greca, il gesto premonitore di successive sventure. Più che figure prometeiche però,portatrici di fuoco che rivolta e illumina un mondo oscuro, i 61 furono, in gran parte loro malgrado, Cassandre[4].
Il punto d’inizio della narrazione è il 9 ottobre del 1979, quando le direzioni degli stabilimenti Fiat consegnarono a 61 dipendenti la lettera di licenziamento. La motivazione era generica e uguale per tutti,contestava «un comportamento consistente nell’aver fornito prestazioni di lavoro non rispondenti ai principidella diligenza, correttezza e buona fede e nell’aver costantemente manifestato comportamenti non consoniai principi della civile convivenza nei luoghi di lavoro». Generica e quindi giuridicamente inconsistente, comestabilì subito la magistratura del lavoro, alla quale i 61 fecero ricorso, stabilendo la loro riassunzione.Riassunzione che non ci fu, perché questa volta, con una seconda lettera di licenziamento la direzione Fiatentrava nello specifico delle accuse per ognuno dei licenziati, attribuendo loro contestazioni circostanziate eparticolari. A questo punto i ricorsi divennero individuali. Il sindacato offrì, previa la sottoscrizione di una dichiarazione contro la violenza, il servizio del collegio dei suoi avvocati; la maggioranza dei 61 scelse questa via, mentre altri, una decina, contestarono il provvedimento ricorrendo senza il patrocinio sindacale.
Contestualmente ai licenziamenti la Fiat dichiarava il blocco delle assunzioni in quanto, come diceva Cesare Annibaldi, direttore delle relazioni industriali, «l’inserimento di nuovo personale in un clima come quello attuale rischierebbe di compromettere l’indispensabile momento di riflessione connesso all’esigenza di ripristinare in fabbrica un minimo di governo [perché] il disordine all’interno delle officine è tale da rasentare il collasso»[5]. La direzione Fiat intendeva riportare l’ordine aziendale e produttivo in fabbrica e descriveva i suoi reparti in preda ad un caos che durava da quando, con l’autunno caldo del 1969, era iniziata la «grande sarabanda», per dirla con le parole dell’avvocato Agnelli intervistato da «La Stampa» il 1° luglio 1999. Quellastagione di lotte aveva segnato la fine dei precedenti «anni duri alla Fiat», secondo la bella frase che dava iltitolo ad un libro scritto da Emilio Pugno e Sergio Garavini per i tipi dell’Einaudi nel 1974. Anni duri per ilavoratori e i sindacalisti torinesi s’intendeva, perché, invece, per l’azienda i decenni Cinquanta e Sessantafurono anni di espansione, produttività, profitti e nuovi investimenti. Per l’azienda Fiat gli “anni duri” vennero dopo le lotte del ’68-’69 che ridefinirono, modificandoli a favore degli operai, i rapporti di forza all’interno delle officine, destrutturando il vecchio organigramma di comando che governava la produzione e inserendovi elementi di controllo operaio sulla produzione espressi dai delegati e da quello che negli anni Settanta si chiamava il sindacato dei consigli.
Alla fine di quel decennio la direzione aziendale cominciò a muoversi per riportare ordine nei reparti: manovra che, sostanzialmente, voleva dire spezzare la forza di contrattazione e di controllo su ritmi, tempi e produzione messa in campo dai lavoratori mediante i consigli di fabbrica. Perché voleva modificarequei rapporti di forza? Forse perché essi erano d’impedimento all’aumento della produzione e la Fiat voleva incrementare la costruzione di automobili? Non era proprio così. Più che sfruttare la forza lavoro alle sue dipendenze, la Fiat aveva bisogno in primo luogo di ridurre il loro numero, per adeguarlo al calo della produzione causato dalla crisi del mercato automobilistico che stava investendo l’Europa e il mondo e,successivamente, aumentare la produttività di quelli che rimanevano. Ma tutto questo al tempo della vicendadei 61 licenziati rimase sullo sfondo. Abilmente tutto sembrò giocarsi sull’equazione, tratteggiata dai maggiori organi d’informazione, conflitto = violenza = terrorismo. Equazione in gran parte smentita dall’esito stesso delle indagini della magistratura, la quale accertò, negli anni successivi che dei 61 licenziati solo quattro erano in collegamento, o lo erano stati, con gruppi terroristi[6]. Un esponente storico e schietto del PCI, Giorgio Amendola la sposò con entusiasmo e durezza espositiva: «Chi può negare che vi sia un rapporto diretto tra la violenza in fabbrica e il terrore? E perché il sindacato, i comunisti non hanno parlato, denunciato in tempo quello che oggi viene rivelato?»; puntò poi il dito contro determinati metodi di lotta, giudicati troppo violenti: «occupazioni stradali, cortei intimidatori, distruzioni vandaliche di macchine e negozi, stazioni occupate, autostrade ostruite, blocco degli aeroporti»[7]. In realtà il padre spirituale di quella componente del Pci, che si sarebbe poi detta destra migliorista, prendeva di mira l’intero sindacato dei consigli e le sue battaglie, verso cui era stato da sempre contrario: con una veemenza che, in quella occasione, suscitarono non solo la sua difesa da parte di Pio Galli, allora segretario Flm e Fiom, ma quella dello stesso LucianoLama, per cui l’accusa che l’impegno a favore degli investimenti per il sud fosse «una semplice copertura di una politica tesa a difendere e a migliorare le condizioni delle categorie occupate ed organizzate, a spese dei giovani e dei disoccupati meridionali» era davvero troppo.
Così il discorso si spostò dalla crisi Fiat e dalla ristrutturazione che stava mettendo in atto, al dibattito sulle forme di lotta, lecite, illecite, violente, e al legame tra lotta sindacale, contrattazione e terrorismo.Scrisse all’epoca Loris Campetti sul «Manifesto» del 16 ottobre 1979: «Tra le forze di sinistra e dentro il sindacato, si fa più attenzione a come denunciare le forme di violenza in fabbrica che non a respingere i licenziamenti. Troppi hanno paura di sporcarsi le mani con i licenziati: si fanno i distinguo, si parla solo di difesa legale da parte di un collegio di avvocati del sindacato. Il PCI accusa il sindacato di porre resistenze nelle iniziative contro il terrorismo e richiama i suoi quadri a rientrare nei ranghi»: soprattutto quelli che erano impegnati nelle strutture della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici)[8].
Nei fatti, di fronte al licenziamento dei 61 il sindacato e la sinistra manifestarono esplicitamente divisioni e polemiche che già serpeggiavano da alcuni anni: la FLM e i sindacati torinesi organizzarono scioperi e manifestazioni pubbliche, mentre le confederazioni e il PCI -avvisati personalmente da CesareRomiti prima dell’avvio dei provvedimenti e invitati dalla Fiat a tenere «un atteggiamento responsabile»-,preferirono defilarsi, accusando i sindacalisti torinesi e la FLM di essere «renitenti” nella lotta contro il terrorismo e la violenza»[9].
Che i vertici dei sindacati confederali e dei maggiori partiti politici fossero stati preavvertiti dalla direzione Fiat, circa l’intenzione di procedere con decine e decine di licenziamenti, era una voce diffusasi immediatamente nei giorni seguenti le lettere di licenziamento. Più tardi si sarebbe saputo, per ammissione dei protagonisti, che la direzione Fiat aveva preparato da tempo la sua mossa e aveva avvisato i sindacati: «prima di dare il via a quel provvedimento avvertimmo i capi dei sindacati», ricorda Cesare Romiti, e le segreterie dei principali partiti. Durante quella riunione Umberto Agnelli avvertì «che le condizioni dell’azienda[rendevano] imperativa una risposta energica», gli interlocutori ne presero atto, non opposero alcuna obiezione se non la «preoccupazione per la reazione che un provvedimento sensazionale» poteva provocare e consigliarono la «Fiat di presentare circostanziate denunce alla magistratura». Prima della consegna delle lettere di licenziamento, in tutti gli stabilimenti i responsabili del personale convocarono membri degli esecutivi dei consigli di fabbrica, ai quali «la direzione di stabilimento chiese di tenere rispetto ai licenziamenti una posizione “responsabile” anche perché, fece loro credere, che l’operazione era stata concordata con importanti dirigenti nazionali e locali sia del sindacato che del PCI»[10].
La FLM, invece, reagì. «Siamo al 7 aprile della classe operaia – dichiarava il 12 ottobre 1979 a «LaStampa», Silvano Veronese, segretario nazionale – la Fiat coglie l’occasione del riferimento alla battaglia contro il terrorismo per colpire i lavoratori e recuperare spazi di libertà e arbitrio che aveva perso,strumentalizza il discorso sul terrorismo per colpire un altro bersaglio, le lotte, il sindacato, l’organizzazione operaia in fabbrica».
Contro i licenziamenti la FLM organizzò il 16 ottobre del 1979 al Palazzetto dello Sport un’assemblea di tremila delegati con la presenza dei segretari nazionali delle confederazioni, Lama, Carniti e Benvenuto,durante la quale venne dichiarato per il 23 ottobre uno sciopero nazionale dei metalmeccanici e a Torino d itutta l’industria. In quell’occasione, a nome dei 61, prese la parola Angelo Caforio: «Dieci anni fa, proprio in questa stagione, in questo palazzetto c’era un’assemblea simile a questa, era intitolata però “Processo allaFiat”, il processo alla direzione che aveva sospeso novanta operai. Era l’autunno caldo», ricordò, e proseguì: «tra i 61 licenziati molti rappresentano anche personalmente, fisicamente, la continuità con quell’autunno caldo, hanno più di dieci anni di anzianità Fiat, altri sono entrati invece negli ultimi due anni […]. Crede davvero la Fiat di aver colpito il terrorismo? –si chiese avviandosi alla conclusione- No, non lo crede, non ci pensa neppure. Sa però che la posta in gioco sono gli anni ’80, in fabbrica, a Torino, in Italia»[11].
Il confronto tra l’autunno caldo del 1969 e, dieci anni dopo, “l’autunno freddo” dei 61 licenziati, delterrorismo, della crisi, del compromesso storico, dell’EUR, era facile e utile da farsi, anche per segnalare lanuova composizione di classe, dopo l’ultima ondata di assunzioni. I giovani che erano entrati alla Fiat inquegli anni – scrisse Pino Ferraris sul «Manifesto» del 16 novembre 1979- «esprimevano soggettività, culture,bisogni, comportamenti che si erano strutturati nella lunga adolescenza e giovinezza “irregolari” dentro lescuole di massa e nelle periferie urbane, tra gli stimoli dei mass media e il nomadismo delle esperienze e chenon conoscevano quasi altra trama di socializzazione che non sia quella degli affetti e della vita emotivadentro la nuova famiglia estesa, i piccoli gruppi, le amicizie. Irrompe l’irregolarità del bisogno di vita».
Erano quelli che Adalberto Minucci, della segreteria del PCI, con un’espressione infelice, ma destinata adiventare categoria storica e sociologica, definì «il fondo del barile» in un’intervista rilasciata a LiettaTornabuoni a «La Stampa» del 13 ottobre 1979 nella quale diceva: «In quest’ultima ondata a Mirafiori èentrato un po’ di tutto, dallo studente al disadattato, s’è proprio raschiato il fondo del barile»[12].
I 61 licenziamenti fecero divampare la discussione attorno a questi temi e, in particolare a quello delsindacato dei consigli e alle sue lotte in quel decennio operaio; essi si ripresentarono tali e quali, ma conmaggiore intensità e drammaticità, nel corso della lotta dei trentacinque giorno del 1980.
Crisi del mercato mondiale dell’auto
Fin dai primi mesi del 1980 i fari dell’attenzione si accesero sull’industria automobilistica torinese. Era lastessa FIAT a farlo. Subito dopo la conclusione del contratto del 1979, che aveva visto ancora una classeoperaia combattiva e capace di difendere le proprio richieste, la direzione dell’azienda lamentava la perdita diquote di mercato, legata soprattutto – diceva – alla mancanza di prodotto. Le richieste d’acquisto dei modelliFIAT non erano state tutte esaudite, perché quelle vetture non erano state prodotte per un insieme di fattoritutti attribuibili al tipo di forza lavoro presente nei reparti. Elencava nell’ordine: l’assenteismo elevato, lamancanza di mobilità della forza lavoro, le ore perse per scioperi, l’impossibilità di richiedere ore di lavorostraordinario, le troppe pause lavorative strappate nel corso delle contrattazioni in quegli anni, la produttivitàlavorativa giornaliera bassa, l’aumento dei salari e quindi del costo della forza lavoro.
Poneva innanzi tutto l’esigenza di poter usare in modo più razionale, dal suo punto di vista, la manodopera,eliminando sprechi, migliorando l’uso della forza lavoro, la sua organizzazione, tutto al fine di aumentarne laproduttività, così da poter competere con i costi di produzione delle altre aziende automobilistiche cherisultavano inferiori. L’allora responsabile delle relazioni industriali del gruppo ebbe a dichiarare: «Il nostropunto debole sui mercati esteri è quello del costo. Se il sindacato assumerà un atteggiamento non negativoed agevolerà i provvedimenti che l’azienda sta prendendo per abbassare i costi sarà positivo per tutti»[13].
La strategia che la FIAT stava mettendo in campo era fortemente influenzata da quanto stava accadendo inquegli anni nel mercato mondiale dell’auto. Le cronache dei giornali posero con enfasi ripetuta il tema del «pericolo giallo», che all’epoca era riferito al Giappone e alla sua industria automobilistica in pienaespansione che stava invadendo i mercati internazionali, corrodendo le tradizionali zone di influenza dellecase produttrici americane, francesi, italiane, tedesche e inglesi, non più in grado di difendere le proprie areedi mercato imponendo quote alle aziende giapponesi come erano riuscite a fare fino a a quel momento. L’esportazione delle automobili nipponiche era passata dal 10% del 1965 al 50% della fine degli anniSettanta. Dopo aver dilagato sul mercato americano, i giapponesi stavano per varcare le soglie di quelloeuropeo. Quali le cause? La risposta, non disinteressata, era semplice, quanto palesemente mal costruita: dipendeva dal costo del lavoro, troppo alto in Italia, molto minore in Giappone. Così cominciò a tenere banco l’argomento che la Toyota con 45 mila dipendenti produceva circa 2.500.000 vetture, mentre la Fiat nel 1979 ne aveva prodotte 1.323.000 con 175 mila dipendenti; tradotto in produzione questo significava «che ogni dipendente giapponese costrui[va]in un anno da 32 a 38 automobili, contro le 10-13 del collega europeo»[14]. Questo argomento fece notizia, a tal punto che passò inosservato il paradosso che essa nascondeva e che gli stessi apologeti svelavano esplicitamente al lettore che avesse avuto la pazienza di non fermarsi ai titoli sensazionalistici. Infatti, tra le righe, si ammetteva che i conti erano mal fatti e le comparazioni mal poste: «L’industria nipponica, a differenza di quella europea e americana effettua[va] soltanto una piccola parte delle lavorazioni nei propri impianti, poiché compra[va] la maggior parte dei componenti dai fornitori esterni»[15]. Mentre le suddette industrie producevano loro stesse la quasi totalità delle componenti dell’automobile, quelle giapponesi si presentavano prevalentemente come impianti di assemblaggio dei vari “pezzi” dell’automobile, che erano costruiti altrove. Era quindi evidente che nella fabbrica di assemblaggio il numero dei dipendenti fosse minore di quello della FIAT. Ciò precisato si poneva esplicitamente l’accento sui fattori per i quali la produttività dell’operaio giapponese era maggiore: l’ultimo sciopero alla Toyota risaliva alla fine degli anni Quaranta, lì si era affermato un “sistema fabbrica” che garantiva un maggior tasso di sfruttamento della manodopera, i prezzi e i costi erano contenuti perché «costruiti da piccoli artigiani e piccoli imprenditori che non sempre rispetta[va]no le norme contrattuali»[16].
La maggior competitività dell’industria automobilistica giapponese, che era reale ed esacerbava ulteriormente la crisi stessa[17], andava anche inserita nel contesto delle trasformazioni in atto nel mercato automobilistico internazionale. Nell’insieme questo mercato manifestava chiari segni di rallentamento, dopo una lunga fase espansiva all’interno della quale l’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi, avvenuto nel 1974, giocava un suo ruolo, ma non poteva essere additato come l’unica causa della crisi[18], così come non lo era la nuova virulenta concorrenza delle industrie giapponesi. Come mai, infatti, il rincaro dei prezzi petroliferi incideva scarsamente sulla produzione giapponese, malgrado quel paese fosse uno dei maggiori paesi importatori di petrolio, mentre invece lo si voleva far pesare nella spiegazione per gli altri paesi capitalistici?
Se mai esso diventava un motivo di aggravamento della crisi, che era data dalla tendenza alla saturazione del mercato, quindi un prodotto della concorrenza fra capitalisti, dell’accrescimento delle capacità produttive degli impianti, della non corrispondenza tra domanda potenziale e reale. L’aumento del prezzo del petrolio risultò un’aggravante perché si collocò all’interno di una fase recessiva che era precedente e si manifestava con la crescente sottoutilizzazione degli impianti e l’aumento dell’inflazione per cui esso non era «la causa, né il detonatore immediato della recessione, ma al massimo un fattore addizionale che acuiva la gravità della crisi»[19].
Se nei decenni precedenti la concorrenza tra le industrie automobilistiche si era giocata nel campo della conquista di nuovi mercati, ora tendeva a trasformarsi in guerra sui mercati esistenti per strapparli ai concorrenti. Lo scontro multinazionale si giocò anche sul piano degli investimenti, poiché sarebbe sopravvissuto chi più efficacemente avesse saputo avviare processi di ristrutturazione e razionalizzazione del processo produttivo. In tal senso trovava una spiegazione la momentanea «superiorità dell’industria giapponese, dovuta al fatto che su questo terreno si è trovata più avanti dei propri concorrenti»[20]. Questo scontro tra colossi, per la conquista di mercati esistenti, metteva a rischio di scomparsa produttori più deboli, ridimensionava alcune industrie con ricadute sui dipendenti: fallimenti, licenziamenti, cassa integrazione. Per sopravvivere ed essere concorrenti, oltre che investire nella ricerca, occorreva ridurre il costo del lavoro e aumentarne la produttività, intensificare i ritmi, avere una maggiore elasticità nell’uso della forza lavoro, la famosa mobilità interna ed esterna, ridurre la conflittualità, diminuire drasticamente il numero di operai occorrenti alla produzione.
Ecco il contesto nel quale si muoveva, in modo apparentemente contraddittorio, la Fiat, la quale, mentre denunciava la mancanza di una produzione adeguata alla domanda, pochi mesi dopo rivelava una eccedenza di personale, avviava la cassa integrazione per migliaia di dipendenti e “scopriva” di avere un’eccedenza di migliaia di auto invendute nei magazzini. Qui la variabile aumento del prezzo dei prodotti petroliferi aveva avuto un suo peso traducendosi in un mutamento nella domanda di automobili, che inizialmente avvantaggiò le industrie europee e giapponesi (in grado di produrre anche auto di media cilindrata), danneggiando quelle statunitensi più attrezzate storicamente a produrre auto di grossa cilindrata ad alto livello di consumo di carburante[21]. All’interno di un mercato automobilistico che non si espandeva più, anzi tendeva a restringersi, in alcuni settori si manifestavano processi di sovrapproduzione con auto invendute, mentre in altri la domanda cresceva. Di qui la doppia, e apparentemente contraddittoria, verità della Fiat, la quale denunciava contemporaneamente sia l’invenduto sul mercato sia l’impossibilità di far fronte alla domanda di auto.
Non era però il normale manifestarsi di una congiunturale smagliatura, tipica dell’andamento del mercato, così come si era andato costituendo nel decennio che stava trascorrendo, riassorbibile cioè dopo un breve periodo di cassa integrazione. Questa volta non era così, si stava andando incontro a un periodo «in cui lo stato strutturale di crisi dell’industria dell’auto in Italia si incrocia[va] con una crisi del settore che colpi[va] tutto il mercato mondiale»[22], il quale registrava una notevole flessione in quei mesi: meno 40% negli Stati Uniti, meno 24% in Francia, meno 16% in Germania, meno 33% in Gran Bretagna; ovunque le statistiche della recessione, segnalava Mario Pirani, si accompagnavano «all’uscita dalle fabbriche di decine e decine di migliaia di lavoratori»[23].
Ecco perché Umberto Agnelli, amministratore delegato della Fiat, in un’intervista comparsa su «La Repubblica» del 21 giugno 1980, poneva due condizioni per la ripresa produttiva: la riduzione del numero dei dipendenti e la svalutazione della lira: «Oggi la Fiat ha impianti e uomini per produrre 1.800.000, forse 2 milioni di vetture. Ne facciamo un milione e mezzo. E l’anno prossimo riusciremo a collocarne sul mercato ancora meno. In tutta Europa le vendite sono sotto il 10% rispetto a quelle del 1979. Se non potremo ridurre l’occupazione in modo sostanziale non avremo mai i bilanci in pareggio». Di rincalzo il fratello, nella veste di Presidente del gruppo, alcuni giorni dopo affermava: «Non credo sia irrazionale procedere a licenziamenti, quando vi è una riduzione di lavoro, dovuta a una riduzione di mercato»[24], sintetizzando così la strategia aziendale dei mesi seguenti: al restringimento dei mercati reagire col restringimento della produzione, diminuendo il numero dei dipendenti; contemporaneamente aumentare la produttività di quelli che restavano, così che si potesse vendere sui mercati ancora aperti, con costi inferiori di produzione. A questo obiettivo si univa una strategia più ampia del gruppo Fiat, tesa a trovare accordi con altre industrie europee. Proprio in quel periodo fu infatti sottoscritto con la Peugeot un accordo, volto a fronteggiare la concorrenza giapponese ed eventualmente statunitense sul mercato europeo[25]. Poi, si premeva sul governo per ottenere la svalutazione della lira, – per ridare competitività alle auto prodotte in Italia sul mercato estero – e per impedire l’accordo Alfa-Nissan, al fine di evitare che esso costituisse una testa di ponte dell’industria giapponese per accedere al mercato italiano ancora difeso da misure protezionistiche. E, infine, si puntava come in passato ad ottenere finanziamenti dallo Stato per affrontare i costi di ristrutturazione, ricerca e programmazione.
Di fronte a tanta chiarezza la reazione delle forze del movimento operaio furono inizialmente di stupore e in parte vaghe. Si sottolinearono gli errori di stile delle dichiarazione, ciò la brutale franchezza, come se il problema fosse la forma e non la sostanza. Si affermò che per quella via non si risolvevano i problemi del Paese. Ma per Agnelli i problemi della Fiat erano i problemi del Paese. Altri chiosarono dicendo che quello non era il modo migliore per risolverli, proponendosi quali “consulenti” e “suggeritori” per una strategia migliore della direzione Fiat, imputando all’incapacità imprenditoriale dell’azienda e alla linea politica governativa le difficoltà del gruppo torinese. Vi fu chi liquidò il tutto come una manovra Fiat tutta politica, tesa solo a impedire l’accordo Alfa-Nissan e far scucire soldi dallo Stato, negando quindi che si fosse in presenza di una crisi strutturale. Chi sottolineò, a ragione, ma in modo unidirezionale, la teoria di un complotto del capitale per ricattare e piegare il movimento operaio. Elemento di per sé presente, che non era però più condivisibile quando sfociava in una interpretazione della crisi unicamente come manovra propagandistica del padronato per giustificare l’attacco alle conquiste consolidate del movimento operaio. Era vero che le borghesie imprenditoriali di fronte alla crisi cercavano di uscirne, difendendo i propri interessi e spezzando, per quanto potevano, la forza della classe operaia, ma tutte queste iniziative erano appunto determinate dalla presenza reale di una crisi che interessava l’industria automobilistica nel suo insieme, a livello internazionale. Quando il PCI riconobbe che si trattava di una crisi di mercato che aveva ragioni strutturali, trasse la conclusione che era necessario sostenere la ristrutturazione, riorganizzare e aumentare la produttività e ridurre nella maniera più indolore possibile la forza lavoro.
Le dirigenze sindacali dei vari paesi interessati reagirono separatamente a livello di singolo paese, adeguandosi alla concorrenza intercapitalistica. Lanciarono appelli all’aumento della produttività, alcune chiesero l’abbattimento delle misure protezionistiche per consentire alle industrie dell’auto il libero gioco della concorrenza sui mercati esteri, nella speranza di risolvere così la questione della sovrapproduzione del proprio paese, aumentando la competitività dei prodotti nazionali e strappando fette di mercato agli altri. Ma collaborare con le industrie del proprio paese, al fine di renderle competitive, significava partecipare al gioco della concorrenza intercapitalistica, provando a scaricare sul movimento operaio di altri paesi licenziamenti e disoccupazione.
I 35 giorni
Se i soggetti e le classi sociali che essi rappresentavano, avessero potuto prendere le loro decisioni e dar corso immediato alle loro iniziative indipendentemente dai rapporti di forza tra le classi sociali, gli Agnelli non avrebbero mai fatto le dichiarazioni che invece fecero. Se avessero potuto rimandare la crisi del mercato e del profitto, che incombeva sull’industria, ad una data in cui i rapporti di forza fossero a loro più favorevoli, l’avrebbero fatto volentieri, perché più facile sarebbe stato gestire e vincere lo scontro. Purtroppo le leggi della produzione capitalistica avevano e hanno una loro autonomia, anche nei confronti di chi, da tale sistema, trae profitti. La Fiat si trovò ad affrontare i suoi problemi, mentre l’assetto complessivo del dominio politico borghese non era del tutto consolidato. Malgrado alcuni successi tattici da esso riportati, non era ancora intaccata a fondo la forza accumulata dal movimento operaio negli anni precedenti. Il governo, guidato da Francesco Cossiga, si rivelava debole. Non ebbe ancora il coraggio, ad esempio, di portare avanti la richiesta di revisione del meccanismo della scala mobile, invocata da parte padronale, nel timore di doversi confrontare frontalmente col sindacato e col PCI e con un movimento operaio che, seppure frastornato dalle politiche di austerità dei governi di solidarietà nazionale del periodo 1976-1979, e dalle scelte della svolta della politica sindacale dell’Eur del 1978, conservava pressoché la sua forza strutturale, il suo radicamento e la sua presenza viva e attiva nella rete dei consigli di fabbrica.
Infatti, la stessa politica dei sacrifici e la svolta sindacale non riuscirono seriamente a passare nelle fabbriche, come si lamentava il segretario generale della CGIL Luciano Lama. Per tutta la metà degli anni Settanta le divisioni all’interno del sindacato erano cresciute. Le due linee, quella “collaborativa”, rispettosa delle compatibilità del sistema, disposta ai sacrifici, e quella “antagonista” erano presenti nella CGIL e nella CISL. La FLM, in particolare, diventò la portavoce delle critiche e dell’opposizione alle politiche dei governi di solidarietà nazionale, malgrado il PCI premesse in tutt’altra direzione. Scriveva nel 1977 Antonio Lettieri, un esponente della sinistra sindacale: «Il rapporto di autonomia sindacato – partito non è incrinato solo sul piano dei fatti, ma è messo in causa sul piano politico, culturale, ideologico. Si profila una trasformazione del sindacato: per alcuni si tratta di un suo ammodernamento, di un’europeizzazione che lo condurranno agli approdi della partecipazione, della democrazia industriale o cogestione; per noi invece di uno snaturamento strisciante che colpisce al cuore il sindacato dei consigli, dell’autonomia e della democrazia»[26].
Questa era grosso modo la cornice nella quale stavano per essere dipinti i fatti. Una cosa era chiara, il pennello lo teneva in mano la Fiat, ma l’esito della pittura non era scontato in partenza. Dipendeva da variabili quali: gli oggettivi rapporti di forza tra le classi, il livello di organizzazione e di coscienza di classe degli operai, la reazione e l’impostazione delle organizzazioni di massa del movimento operaio (sindacati e tradizionali partiti politici), i rapporti di forza all’interno del movimento operaio tra apparati burocratici e l’avanguardia più cosciente della classe, quella che si era formata nell’ultimo decennio delle lotte e, infine, la possibilità o meno di avviare un processo di costruzione di una direzione alternativa a quelle esistenti.
Il 5 settembre del 1980 il responsabile delle relazioni industriali Fiat, Cesare Annibaldi, dichiarava: «Adottando i sistemi praticati in queste settimane dai nostri concorrenti, la Fiat auto, per adeguare il personale alla diminuita produzione, dovrebbe licenziare 24 mila persone, di cui poco più di duemila impiegati»[27]. Subito la FLM affermò la sua contrarietà ai licenziamenti e anche a qualsiasi forma di mobilità esterna agli stabilimenti, perché nelle difficili condizioni del mercato del lavoro piemontese, questa poteva solo significare il mascheramento dei licenziamenti. In alternativa propose la mobilità interna, il blocco del turnover e il ricorso ai prepensionamenti, la cassa integrazione a rotazione e non a zero ore. Scarse le possibilità di trattativa, che difatti si interruppero subito e la Fiat decise unilateralmente il licenziamento di 14.469 dipendenti. L’indomani, 12 settembre 1980, cosi titolava «Il manifesto»: Fiat: scatta la procedura per 14.469 nomi di licenziati. Mirafiori diventa “il centro del mondo”. Ai cancelli il ritratto del vecchio Marx. Nella noia romana consultazioni tra sindacato, sinistre e governo.
Ritornò in scena la classe, quella concreta, fatta di relazioni, soggettività singole e collettive, rapporti di amicizia e di stima consolidati in anni di lotte. Gli stabilimenti Fiat tornarono ad essere com’erano stati nel corso dell’autunno caldo del 1969. Le modalità di lotta e di partecipazione, le rivendicazioni, il tipo di organizzazione della classe, si riproposero poggiando sull’esperienza consolidata nelle lotte operaie del 1969 e degli anni immediatamente seguenti. Lo raccontavano bene le cronache quotidiane dei giornali di quel periodo e anche i libri pubblicati in seguito[28]. Un accavallarsi di scioperi, cortei, manifestazioni. La fiumana dei turni che si ammassava ai cancelli e discuteva in assemblee improvvisate con lo sfondo coperto dai rossi striscioni dei consigli di fabbrica. Netto il rifiuto dei licenziamenti, accesa la discussione sulle forme più adeguate di lotta da adottare. Forte la presenza dei sindacalisti FLM e dei delegati, accanto a quella dei partiti di sinistra, in particolare il PCI, poi Pdup, Lega comunista rivoluzionaria, Democrazia proletaria, collettivi operai. Vivo l’interesse e il riferimento alla lotta in corso a Danzica degli operai polacchi. Alcune richieste e rappresentazioni simboliche, emerse in quei giorni, traevano spunto da essa. Così subito s’invocava che le trattative tra sindacati, governo e padronato, si svolgessero a Torino e fossero pubbliche. A differenza di Danzica sui cancelli di Mirafiori venne posta non l’immagine della madonna, ma il ritratto di Marx stilizzato dall’operaio Pietro Perotti, lì portato e affisso da un corteo proveniente dalle Presse. Suoni di tamburi di latta annunciavano i cortei operai. Era tutto un brulicare di tute blu. Alcune di loro, appollaiate in alto sui cancelli, innalzavano una bandiera con sopra scritto qualcosa di inaudito, almeno nei paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale: «Proletari di tutto il mondo unitevi». Le assemblee si scioglievano e si ricomponevano, gli scioperi di poche ore proclamati dalla FLM erano prolungati dai lavoratori. Erano nella maggior parte azioni partite spontaneamente, che trovavano consenso in stati d’animo esasperati, tali che quasi nessuno si tirava indietro. Cortei improvvisati percorrevano le vie attorno agli stabilimenti, s’incrociavano e si univano con quelli, altrettanto improvvisati, di lavoratori che uscivano dai loro reparti o che raggiungevano Mirafiori provenienti da altri stabilimenti. Poi cominciarono a spingersi verso il centro della città con striscioni e stendardi, accompagnati dal rullare dei tamburi, l’effige di Marx sempre più riprodotta e diffusa. Raggiunsero le sedi istituzionali, la Regione, la Prefettura, si diressero verso la sede della RAI per chiedere un’informazione corretta ai redattori dei telegiornali.
In questo processo di avvio tumultuoso e spontaneo della classe emerse una novità: la partecipazione e il ruolo delle donne. In una fabbrica che fino allora era stata soprattutto un universo a stragrande maggioranza maschile, le ultime assunzioni avevano portato negli stabilimenti un 65% di forza lavoro femminile. Erano potute entrare in fabbrica grazie alla parificazione tra uomini e donne conquistata con la legge 906, alla democratizzazione del collocamento e alla chiamata numerica al lavoro. Furono in prima fila negli scioperi e nei cortei, nelle assemblee ma erano scarsamente rappresentate «negli organismi di fabbrica, gestiti solo dai delegati maschi, come maschi erano i gruppi dirigenti sindacali»[29].
La mobilitazione cominciò a coordinarsi attorno ai delegati dei vari reparti, al consiglio, detto “consiglione”, di tutti i delegati, alla FLM, mentre le delegazioni dei sindacati confederali e della FLM trattavano a Roma col governo e la direzione Fiat. Una trattativa che non trovava occasioni per iniziare, a causa della determinazione con la quale i dirigenti dell’industria automobilistica mantenevano ferme tutte le loro richieste, senza concedere nulla. Un volere tutto e subito che lasciava poco spazio anche a chi era disposto a riconoscere la necessità di una ristrutturazione dell’azienda e di eventuali e graduati “sacrifici” dei lavoratori, come disse esplicitamente Giorgio Amendola: «Non si può pensare alla meccanizzazione, all’automazione senza accettare la riduzione del numero degli operai occupati per giungere ad una determinata produzione – riduzione certo concordata, non imposta dal padrone, ma non rifiutata a priori dal sindacato»[30]. Così le stesse proposte di “un piano per l’auto”, che il sindacato, all’avvicinarsi della tempesta, andava proponendo per far fronte alla crisi e che, in previsione della vertenza integrativa del gruppo venivano a fatica elaborate, nel febbraio del 1980, dal Coordinamento nazionale Fiat, erano ora presto accantonate per mancanza di interlocutori. Si trattava in sostanza di un disegno di politica industriale che prevedeva l’intervento dello stato a sostegno di un settore come quello automobilistico, che attraversava una crisi mondiale perché il mercato internazionale, ormai saturo, funzionava soltanto più come mercato di sostituzione. Nello stesso modo la richiesta di licenziamenti di massa spiazzava un’ analoga richiesta del Pci di un piano nazionale per il settore, che vedeva la luce paradossalmente nel momento in cui i comunisti uscivano dall’area di governo[31].
La linea della FLM finì così per attestarsi sul rifiuto dei licenziamenti e della mobilità esterna, contro i quali si proponeva in alternativa la cassa integrazione a rotazione dei dipendenti in esubero. Cesare Del Piano, segretario della Cisl, in una dichiarazione pubblica di quei giorni, fu l’unico ad adombrare la possibilità della riduzione dell’orario di lavoro nella soluzione del caso Fiat, Nessun altro settore significativo del mondo sindacale o della sinistra riprese tale proposta. L’unica eccezione fu rappresentata dai trotskisti che continuarono ad agitare la proposta della settimana lavorativa di 35 ore. Una iniziativa che, per la verità, condussero più sul terreno della propaganda, preferendo, nel concreto della lotta sindacale, schierarsi a sostegno delle proposte difensive più avanzate del movimento, in particolare sull’obiettivo della rotazione della cassa integrazione. La risposta rimase sulla difensiva e la forte radicalità espressa dalla lotta tendeva ad esprimersi più nelle forme che non sul piano dei contenuti[32].
Il 27 settembre cadde il governo Cossiga; subito la Fiat bloccò la procedura dei licenziamenti e Cesare Romiti, amministratore delegato, annunciò la messa in cassa integrazione per 23.000 lavoratori a partire dal 6 ottobre. Appena furono pubblicati i primi elenchi dei nominativi per la messa in cassa integrazione a zero ore si ebbe la percezione che, nel colpire i cosiddetti “esuberi”, si volesse anche decapitare una generazione operaia, quella dei consigli, quella più attenta al controllo operaio in fabbrica. Come risposta alle liste di “proscrizione”, il Consiglio di fabbrica di Mirafiori approvò una mozione che diede il via al presidio di tutti i cancelli e chiese alle confederazioni di proclamare uno sciopero generale.
Dai primi giorni di ottobre davanti agli stabilimenti FIAT, si animò una nuova realtà sociale: il “popolo dei cancelli”, gruppi folti di operai che sorvegliavano tutte le porte d’entrata giorno e notte. Fu questa secondo molti un’opzione inevitabile, assieme a quella dell’occupazione degli stabilimenti, più volte discussa, ma poi presto abbandonata, perché continuare con gli scioperi articolati, senza bloccare del tutto la produzione, significava accettare di fatto l’allontanamento dei 23 mila e indebolire la lotta e di conseguenza le trattative che proseguivano a Roma, visto che tra quelli vi era il fior fiore dei delegati e delle avanguardie più combattive. Su questo punto emersero anche valutazioni contrastanti nel PCI. Mentre Enrico Berlinguer in un comizio davanti alla porta principale di Mirafiori, alla precisa domanda di un delegato, Liberato Norcia, se il partito comunista avrebbe appoggiato l’eventuale occupazione della fabbrica, rispose che se questo fosse accaduto il partito si sarebbe schierato coi lavoratori, la federazione torinese e la parte moderata del partito guardava invece con interesse a una soluzione del problema che, nei fatti, accettava la messa in cassa integrazione dei 23 mila.
Quanti, e soprattutto, chi erano i 40.000
Il punto di svolta di questa lunghissima vicenda veniva così messo in scena il 14 ottobre. Per quel giorno, il trentacinquesimo di quella lotta, era stata organizzata un’assemblea in un teatro torinese da parte di un’associazione di quadri intermedi dell’azienda, guidata da Luigi Arisio e fortemente sponsorizzata dall’azienda[33], come ha raccontato di recente Carlo Callieri, all’epoca dei fatti ai vertici del managementdella Fiat, a cui si deve l’idea di trasformare la manifestazione al chiuso in un corteo nelle vie del centro della città[34]. L’intenzione assumeva un valore altamente simbolico perché in quel modo si voleva “conquistare”, anche su un terreno mediatico, quel teatro che fino a qualche giorno prima era stato per le lotte operaie lo spazio urbano, il centro, verso cui convergevano tradizionalmente dalle periferie cittadine i cortei, in una onda lunga che partiva dall’autunno caldo e che per molti aspetti sembrava rivivere durante quelle settimane. La marcia dei capi assunse pertanto anche sul piano visivo un carattere di aperta contrapposizione con le manifestazioni operaie: il colore e la ritualità del corteo operaio, fatto di tamburi battuti, di slogan gridati a viva voce, di cartelli improvvisati, si ribaltava nel silenzio grigio di chi sfilava dietro la parola d’ordine “Flm non ci rappresenti”, con in mano cartelli antisindacali fatti in serie.
L’inversione dei ruoli tra il protagonismo operaio che aveva attraversato il lungo decennio operaio ed il mutismo di chi, in prevalenza capi ed intermedi, lo aveva da sempre mal sopportato, risultava ancora più plateale perché cinque giorni prima, il 10 ottobre, una manifestazione convocata nella centrale piazza San Carlo in occasione dello sciopero generale era stata frettolosamente spostata a Mirafiori, davanti alla palazzina degli impiegati, per timore che si ripetesse il tentativo minaccioso della sfilata organizzata da capi ed intermedi il giorno precedente davanti allo stabilimento di Rivalta. Il rovesciamento simbolico era tale che i presidi, che resistevano dall’inizio della vertenza davanti ai cancelli, finivano per assumere il volto dell’ultima trincea, in un arroccamento a difesa delle casematte della propria cittadella, la fabbrica del conflitto, essendosi trasformata la lotta di movimento in una guerra di posizione.
Al di là della battaglia delle cifre – quanti erano in realtà i “40 mila” – che vennero subito accresciute ed amplificate dai grandi media e che, si spera, l’apertura prossima degli archivi potrà definitivamente dirimere, più interessante è provare a riflettere sulla composizione sociale di quella marcia, i cui protagonisti erano capi ed intermedi, tecnici ed impiegati, ma anche esponenti di quel “ventre molle” della stratificata classe operaia Fiat, il cui legame anche ideologico con l’azienda le lotte operaie del decennio avevano messo in crisi, ma non reciso definitivamente e che ora trovavano in quell’occasione la loro rivalsa. Se da un lato la direzione della marcia (le parole d’ordine su cui essa raggrumò in un fronte unico antisindacale i diversi scontenti delle politiche sindacali nell’universo di fabbrica), era saldamente nelle mani dei capi attraverso il Coordinamento quadri Fiat di Arisio, come pure la sua struttura organizzativa, è innegabile che a quel corteo parteciparono, determinandone in qualche modo il successo, anche lavoratori subalterni, rappresentanti di quella sezione “collaborativa” individuata di lì a poco dalla famosa inchiesta Cespe sulla classe operaia della Fiat.
Quanto ai capi, la loro condizione di vita in fabbrica, da tempo logorata dalla contestazione operaia che ne aveva ridimensionato il ruolo di controllo della forza-lavoro – prerogativa che, nella fabbrica fordista, costituiva l’aspetto fondamentale della loro funzione nell’organizzazione del lavoro- negli ultimi anni del decennio veniva ulteriormente provata dalle ristrutturazioni tecnologiche che riducevano quel che rimaneva delle loro mansioni tecnico-produttive ed i loro compiti amministrativi ad una prestazione soltanto più burocratica. A queste ragioni, più che all’appiattimento determinato dall’egualitarismo delle politiche salariali, va fatta risalire la condizione di frustrazione della “vita da capi”, da molti individuata come molla scatenante della marcia.
Più in generale la questione dei quadri intermedi rappresentava un nodo irrisolto nella strategia del sindacato, sebbene esso avesse negli ultimi anni tentato un recupero verso questi strati, dedicando al tema più di un convegno di studi. Di queste difficoltà ci parla un episodio emblematico, nel 1979 durante un’assemblea di delegati al Palazzetto dello sport di Torino contro il licenziamento dei 61, quando l’affermazione di Luciano Lama, «Anche i capi sono lavoratori», venne contestata da molti dei presenti con fischi e brusii. Diversamente da altri momenti della sua storia, il sindacato dei consigli non era riuscito a stabilire un rapporto con questi settori della fabbrica, che la sua spina dorsale, costituita dagli operai comuni delle linee di montaggio, percepiva immediatamente come la prima controparte del potere padronale in fabbrica: e del resto cercare di unificare nella fabbrica fordista le ragioni dell’operaio della catena, inchiodato ad un ruolo meramente esecutivo, con quelle del tecnico, dell’impiegato o del capo era davvero un’impresa di Sisifo.
La questione dei quadri intermedi assumeva anche per alcuni versi un rilievo “etnico”, perché, mentre la stragrande maggioranza degli operai addetti alle linee era costituita da immigrati, per lo più meridionali, il ruolo dei quadri intermedi era quasi sempre rivestito da piemontesi e più in generale da settentrionali, per via delle modalità stesse con cui si era andata costituendo, attraverso le diverse ondate migratorie degli anni ’50 e ’60, la popolazione di fabbrica[35].
Se in quest’area di problemi vanno indagate le cause del processo che, acuite da 35 giorni di blocco dei cancelli, precipitarono nella marcia, condensando diverse forme di risentimento contro il controllo operaio conquistato nel decennio dalle lotte dei lavoratori, colpisce la generale sottovalutazione dell’iniziativa dei quadri da parte sindacale. All’annuncio dell’iniziativa la Flm chiese di poter intervenire all’assemblea, ricevendo uno scontato diniego, dopo il quale il sindacato rimase fermo aspettando gli eventi. Né dopo la marcia pensò ad iniziative di risposta, in un vuoto d’azione non giustificabile con il problema reale di non drammatizzare ulteriormente lo scontro. Lo sbotto velleitario di Carniti alla notizia che arrivava da Torino: «Domani vi porto in piazza cinquecentomila persone» rimase tale; Lama non ebbe altro pensiero che quello di chiudere al più presto la vertenza, chiedendo alla controparte, nella persona di Romiti, di stilare il testo dell’accordo, come se quella marcia – glielo rimproverò un delegato di Mirafiori presente nella delegazione delle trattative – contasse più dei 35 giorni di resistenza operaia. Non è difficile credere che, pur di fronte alla novità clamorosa dell’iniziativa dei capi, vi potessero essere altre vie per chiudere quel confronto, impedendo almeno che fosse la marcia a suggellare il decennio e non le sue straordinarie conquiste.
Epilogo
La Fiat aveva chiaro cosa il suo obiettivo, intendendo andare fino in fondo per espellere la stragrande maggioranza delle avanguardie della fabbrica. Lo scontro era stato lungo. Secondo Rocco Papandrea, delegato delle Meccaniche Mirafiori, la Fiat arrivò alla fine con l’acqua alla gola. «I lavoratori avrebbero potuto resistere ancora, furono invece bruciati da come il sindacato gestì la fine della vertenza. L’apparato sindacale aveva cominciato a frenare, si stava mettendo di traverso, a cominciare dal rifiuto di rispondere adeguatamente alla prevista manifestazione dei capi che era in procinto di tenersi a Torino»[36]. L’atteggiamento della FLM nei confronti della prevista manifestazione dei capi fu quello di minimizzare la portata. Solo alcune centinaia di operai e Rocco tra loro, diedero vita quella mattina ad una contromanifestazione. Così ricordò quella giornata: «I capi che inizialmente si radunarono in assemblea al Teatro Nuovo erano pochi, 2-3 mila, e molto impauriti. Quando uscirono cominciarono ad aggregare gente che era venuta a vedere. Il corteo s’ingrossò fino a 4-5 mila persone». Quando giunsero al centro della città in via Roma «col cavolo che erano quarantamila, al massimo 12-13 mila, non molto di più. Infatti il Gazzettino regionale di mezzogiorno parlò di ventimila persone, La «Stampa Sera di 25.000. Poi «La Stampa» del giorno dopo sparò 30.000 e «Repubblica» 40.000. Fu una cifra gonfiata, manovrata ad arte»[37].
Al mattino dopo la “marcia dei 40 mila” molti lavoratori vennero ai picchetti, secondo alcune fonti non per entrare, ma perché avevano capito che la situazione si faceva difficile, precipitava. Nel frattempo era giunta la notizia del raggiunto accordo. Il pomeriggio si riunì il Consiglio dei delegati della Fiat Mirafiori al cinema Smeraldo con la partecipazione di tutto lo stato maggiore sindacale: Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin, Garavini, Marini e i dirigenti della FLM. Il clima era caldissimo, molti intervennero a criticare la proposta d’accordo, tutti accolti da calorosi applausi. Si discusse a lungo, molte le bordate di fischi verso i dirigenti sindacali, i quali ad un certo punto abbandonarono la sala dichiarando «non valido» il “Consiglione”. Ma l’assemblea non finì lì, come sembrerebbe da alcune ricostruzioni, i delegati restarono. Rocco Papandrea propose di mettere ai voti una mozione che rifiutava l’ipotesi di accordo. Si discusse per mezz’ora circa, poi la mozione passò praticamente all’unanimità: uno o due contrari, una decina di astenuti[38]. Più in là di questo non si andò. Esterrefatti e frastornati per l’abbandono dell’assemblea dei dirigenti sindacali,i delegati del consiglione non furono in grado assumere su di sé la continuazione della lotta, non riuscirono in quel frangente ad essere «gruppo dirigente»[39].
Il giorno seguente si svolsero varie assemblee coi lavoratori, ai quali fu chiesto di approvare il contratto. Un’analisi dettagliata dell’esito delle votazioni sull’accordo nelle varie assemblee che si tennero negli stabilimenti Fiat fu pubblicata nel libro Con Marx alle porte. Da essa risulta che le assemblee del mattino si espressero in stretta misura a favore, mentre quelle pomeridiane votarono a grande maggioranza contro. I cinegiornali ci restituiscono immagini di assemblee in cui, nei piazzali davanti a Mirafiori, a votare contro sono soprattutto gli operai che si accalcano intorno agli oratori, coloro cioè che avevano sostenuto i presidi, mentre sullo sfondo lo approvano schiere per lo più di capi ed impiegati. Complessivamente si può dire che in realtà l’accordo fu respinto. Di fronte a quei risultati la FLM di Torino esitò, i dirigenti sindacali si riunirono quel giorno con i segretari per un esame complessivoed al loro interno emersero molti dubbi. «La riunione avrebbe constatato il fatto che non esisterebbero le condizioni per andare a firmare un accordo, dopo la brusca virata della consultazione pomeridiana», scrisse a caldo un giornalista sul quotidiano «L’Unità»[40]. Ma fu un istante: CGIL, CISL e UIL avevano optato per l’approvazione dell’accordo e la FLM si adeguò.
Il modo d’agire di quella classe operaia si era fatto forte dell’esperienza acquisita nelle lotte dell’autunno caldo del 1969: premere a fondo e con decisione sui sindacati e sulle direzioni per costringerle a cambiare la linea rivendicativa o a tenerla senza cedere a compromessi. Una esperienza che aveva dato dei risultati, ma che questa volta non funzionò. In altri momenti una resistenza come quella, un dissenso come quello che si manifestò nel Consiglione e nelle assemblee, li avrebbe fatto indietreggiare. Ora non più. «La sola pressione [si rivelò] un’arma in gran parte spuntata nelle mani dell’avanguardia operaia. Le direzioni sindacali [capirono] che cedere alla mobilitazione operaia voleva dire moltiplicare per cento le difficoltà a far passare l’austerità »[41].
Di fronte a questo atteggiamento risoluto il “movimento dei cancelli”, che non aveva costruito, né prima né in quel frangente, strumenti organizzativi e di coordinamento alternativi a quelli sindacali, non trovò la forza «per ribaltare l’accordo, né tanto meno di gestire la situazione che si sarebbe creata scegliendo di proseguire la lotta. Non esisteva nessuna organizzazione che potesse assumersi un compito di questo tipo, contro il parere nazionale dei sindacati e dei partiti»[42].
La sconfitta subita dai lavoratori con la firma dell’accordo, che prevedeva la messa in cassa integrazione a zero ore, rappresentò la fine di un’epoca della storia del sindacato, quello conflittuale e antagonista degli anni Settanta. Se quel decennio era passato alla storia come gli anni della democrazia dei consigli, gli anni Ottanta segnarono il ritorno del comando verticistico delle direzioni sindacali, con conseguente diminuzione della democrazia interna e il venir meno del peso della rappresentanza, elemento sostanziale di quella democrazia. Il sindacato dei consigli era legittimato nell’agire da un mandato attribuitogli dai lavoratori. Negli anni Ottanta la legittimazione i sindacati iniziarono sempre più a cercarla nelle istituzioni e nell’impresa, come se fosse loro conferita dallo Stato o dal riconoscimento dell’azienda, invece che dai lavoratori. Questo tipo di riconoscimento istituzionale richiedeva la partecipazione cogestiva e concertativa ai progetti di gestione e di ristrutturazione capitalistica. E questo non si poteva fare finché nel sindacato dominava un’anima antagonista. Essa andava sostituita con quella contrattualista, ha scritto Piero Fassino; questo comportava una revisione profonda degli obiettivi, di cui alcuni andavano abbandonati, mentre se ne introducevano altri: «competitività, produttività», «adeguamento di diritti e condizioni di lavoro all’evoluzione della struttura produttiva e dei mercati», «part-time, mobilità interna e esterna»; lungo questo percorso, intrapreso allora, prosegue il nostro, si dovette ancora superare il difficile scoglio rappresentato dallo scontro sulla scala mobile del 1984[43]. Poi, secondo l’ex dirigente comunista, il travaglio sindacale, apertosi sulla fine degli anni Settanta, finalmente giungeva a termine con la concertazione e l’accordo del 23 luglio 1993[44].
Intanto, dei 102.508 dipendenti che ancora nel 1979 costituivano l’organico della Fiat Auto in Piemonte, nel 1984 ne restavano 55.398. Alle iniziali 23 mila espulsioni, infatti, se ne aggiunsero altre, fino a determinare un saldo negativo di circa 50 mila posti di lavoro perduti: con essi scomparve pressoché in modo totale la generazione di delegati e avanguardie operaie sulla quale si era retto dal 1969 l’esercizio del controllo operaio e sindacale all’interno degli stabilimenti.
Simili affermazioni e dati numerici ci fanno ulteriormente capire quanto quel conflitto rappresentasse uno snodo all’interno di una vicenda ricca e intensa del movimento operaio italiano che si concluse in quell’autunno sui cancelli di Mirafiori. Per come finì, il presente dà ragione ai Piero Fassino e torto ai tanti che vi parteciparono con entusiasmo e speranza di farcela. Oggi quei protagonisti stanno brechtianamente «dalla parte del torto», altri hanno avuto ragione. Non potendo, oggi come ieri, sedersi dalla parte di quelli che hanno ragione, perché i posti sono già tutti occupati, non rimane che continuare a stare «dalla parte del torto», conservando la memoria di quegli uomini in carne ed ossa, memori delmonito di Max Horkheimer: «La denuncia di ciò che al presente viene chiamato ragione è il più grande servizio che la ragione possa prestare».
[1]Cfr., Tesi sull’industria automobilistica in Europa, «Quarta Internazionale», n.2, 1971, p. 14
[2]L. Maitan, Per una storia della IV Internazionale, Roma, Edizioni Alegre, 2006, p. 344
[3]C. Aguiton, Il mondo ci appartiene, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 27.
[4] Cfr. P. Baral, Niente di nuovo sotto il sole, Torino, Ponsinmor, 2003; vedi anche G. Ghezzi, Processo al sindacato, Bari, De Donato, 1981.
[5] «La Stampa», 11 ottobre 1979.
[6] Vedi R. Renzacci, in Cento… e uno anni di Fiat, a cura di A. Moscato, Bolsena (VT), Massari Editore, 2000, p. 85, (ora sul mio sito: Cento… e uno anni di FIAT) e G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana, Roma, Manifestolibri, 2000, p.34.
[7]G. Amendola, Interrogativi sul “caso” Fiat, «Rinascita», 9 novembre 1979.
[8]Sindacato unitario dei metalmeccanici, Sulla sua breve ma brillante storia, oggi quasi del tutto volutamente dimenticata, cfr. N. De Amicis, La difficile utopia del possibile. La Federazione lavoratori metalmeccanici nel decennio operaio (1969-1984), Roma, Ediesse, 2010
[9] Cfr. rispettivamente: G. Polo, C. Sabattini, Restaurazione italiana, cit., p. 34 e L. Gianotti in Gli operai della Fiat hanno cento anni, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 238.
[10]Cfr. nell’ordine G. Pansa, C. Romiti, Questi anni alla Fiat, Milano, Rizzoli, 1988, p. 56; L. Gianotti, Gli operai della Fiat hanno cento anni, cit., p. 236; e R. Renzacci, Cento… e uno anni di Fiat, cit., p. 83.
[11] L’intervento fu pubblicato su «Il Manifesto» del 17 ottobre 1979.
[12] Sulla soggettività operaia in quel periodo vedi: Operai senza politica, a cura di B. Mantelli e M. Revelli, Roma, Savelli, 1979, Coscienza operaia oggi. I nuovi comportamenti operai in una ricerca gestita dai lavoratori, a cura di G. Girardi, Bari, De Donato, 1980, S. Belforte, Il fondo del barile: riorganizzazione del ciclo produttivo e composizione operaia alla Fiat dopo le nuove assunzioni, Milano, La Salamandra, 1980. Il PCI, nel 1979, aveva promosso un sondaggio di massa tra i dipendenti del gruppo i cui risultati furono pubblicati l’anno dopo: cfr. A. Accornero; A. Baldissera, S. Scamuzzi, Ricerca di massa sulla condizione operaia alla Fiat: i primi risultati, «Bollettino Cespe», Roma, 2 febbraio 1980. Si individuavano tre tipologie di comportamento operaio: conflittuale (chi riconosce l’esistenza e l’inevitabilità del conflitto tra azienda e lavoratori ma ritiene si debba cercare una mediazione attraverso la contrattazione), antagonista (chi è per la lotta intransigente e dura, senza mediazioni e accordi), collaborativo (chi è per la collaborazione con l’azienda).
[13] Abbassare i costi per vendere di più, «La Stampa», 17 febbraio 1980.
[14] R. Villare, Il pericolo maggiore viene dal Giappone, «La Stampa», 10 maggio 1980.
[15]Ibidem,. «La fabbrica madre diventa in realtà uno stabilimento di assemblaggio. E di qui si spiega perché la Nissan e la Toyota abbiano prodotto nel 1978 rispettivamente 1.733.000 e 2.039.000 macchine disponendo la prima di 55.70 dipendenti e la seconda di 45.200, mentre la Fiat ha superato quota 1.350.000 con 140.000 lavoratori» (E. Ferraris, Perché soltanto i giapponesi si salvano?, «La Stampa», 30 giugno 1980). Gli stessi dirigenti della Nissan sorrisero per queste comparazioni improponibili e dichiararono: «A Zama si fa solamente l’assemblaggio delle vetture. Ed è praticamente poco più del 30% del lavoro. Ce n’è un altro 70% che viene fatto in precedenza. Per cui se si vuole valutare esattamente la nostra produttività, bisognerebbe mettere nel conto anche i dipendenti di altre fabbriche Nissan da dove arrivano i pezzi necessari per assemblare le vetture. Oppure bisognerebbe considerare anche gli operai di quelle fabbriche che non sono della Nissan e che, tuttavia, producono componenti per la Nissan» (T. Fazzolari, Nissan banzai!, «L’Espresso» n. 26, 1980.
[16]E. Ferraris, Perché soltanto i giapponesi si salvano?, cit.
[17]Negli anni tra il 1979 e il 1980 la penetrazione sui mercati stranieri dell’industria automobilistica giapponese passava dal 4,1 all’8,5% in Germania, dal 9 al 9,3% in Gran Bretagna, dal 7 al 16% in Svezia, dal 20 al 30% in Belgio e Danimarca, dal 12,4 al 19,4 in Svizzera. Negli Stati Uniti la fetta di mercato conquistata si attestava attorno al 15%. In Italia l’esportazione giapponese era impedita da una misura protezionistica che limitava l’importazione a un numero insignificante. Su questo mercato la Fiat non era per il momento danneggiata. Lo era però su quello europeo e negli Stati Uniti, dove perdeva quote di mercato. Il timore della Fiat era anche dovuto al possibile accordo fra Alfa e Nissan, più volte ventilato, ma mai realizzato che avrebbe consentito ai giapponesi di aggirare il protezionismo e sfidare la Fiat sul terreno nazionale. Non a caso l’accordo non si fece e l’Alfa fu “acquistata” dalla Fiat.
[18] Si veda ad esempio G. Nardozzi (a cura di), I difficili anni ’70. I problemi della politica economica italiana 1973/1979, Milano, Etas Libri, 1980. Tra le ragioni della crisi l’autore mette l’accento sul mancato sostegno agli investimenti produttivi soprattutto da parte della spesa pubblica.
[19] E. Mandel, La crisi, Milano, La Salamandra, 1979, p. 42.
[20]LCR, Crisi dell’auto e risposta del movimento operaio, Milano, Nuove edizioni internazionali, 1980, p. 8.
[21] «In America un’auto sotto i 7 metri, con meno di 5-7 mila di cilindrata, era considerata scomoda. La crisi energetica ha mescolato le carte. Ingombri ridotti ed economia di consumi, molto spazio interno e buone prestazioni per i viaggi e le vacanze. Con questi parametri i progettisti europei hanno dovuto lavorare in tempi serrati per adeguarsi alla concorrenza, assieme ai loro concorrenti giapponesi» (C. Nobis, La guerra dell’auto è nella sua fase calda, e tutto si deciderà sulle piccole cilindrate, «La Repubblica», 17 settembre 1980.
[22]M. Pirani, Una crepa nella diga, «La Stampa», 9 maggio 1980.
[23]M. Pirani, Restare nell’Europa, «La Stampa», 2 luglio 1980. I dati citati nel testo sono tratti da questo articolo.
[24]Dichiarazione ripresa da «La Stampa», 2 luglio 1980.
[25] La notizia dell’accordo fu data nella metà di settembre. Si tratta «di un esempio concreto di come la Fiat intenda muoversi negli anni ottanta. Realizzando una strategia industriale che potrà consentire alle case produttrici europee di fronteggiare la già esistente aggressività delle industrie automobilistiche giapponesi e la prossima invasione delle “piccole” americane, le cosiddette “world cars”», commentava L. Villare su «La Stampa» del 16 settembre 1980.
[26] A. Lettieri, Problemi del sindacato nell’attuale fase politica, «Lettere di fabbrica e Stato», n. 7-8, 1 giugno 1977, pp. 106-107.
[27] «La Stampa», 6 settembre 1980.
[28] Cfr.: Con Marx alle porte, Milano, Nuove Edizioni Internazionali, 1980, P. Perotti e M. Revelli, Fiat autunno 80. Per non dimenticare, Torino, Cric, 1986, M. Revelli, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1989, G. Polo e C. Sabattini, Restaurazione italiana, Roma, Manifestolibri, 2000, R. Renzacci, Lottare alla Fiat, inCento… e uno anni di Fiat, cit., , Coordinamento Cassintegrati, L’altra faccia della Fiat, Bolsena, Massari editore, 1990, P. Galli, G. Pertegato, Fiat 1980. Sindrome di una sconfitta, Roma, Ediesse, 1994, L. Gianotti,Gli operai Fiat hanno cent’anni, Roma, Editori Riuniti, 1999, G. Berta, Conflitto industriale e struttura dell’impresa alla Fiat, Il Mulino, Bologna, 1998. Interessanti e ricche di informazioni le pagine del libro-intervista a Cesare Romiti (C. Romiti, G. Pansa, Questi anni alla Fiat, cit.). Vedi infine la parte che dedica a questo evento N. De Amicis in La difficile utopia del possibile, cit.
[29] F. Turigliatto, Dieci anni fa i giorni della Fiat, «Bandiera Rossa», n. 8, novembre 1990.
[30] G. Amendola, Interrogativi sul “caso” Fiat, «Rinascita», 9 novembre 1979.
[31] La Conferenza nazionale dei comunisti della Fiat si svolse a Torino dal 21 al 23 febbraio 1980.
[32] Cfr. R. Renzacci, cit, p. 93.
[33] Dalla direzione erano stati sicuramente forniti gli elenchi che, in una sorta di catena di Sant’Antonio effettuata per via gerarchica, aveva chiamato a raccolta quadri intermedi ed impiegati dall’alto verso il basso: dal capo d’officina a quello di reparto, da questi agli operatori e così via.
[34] Cfr. C. Callieri, Fui io a suggerire la marcia dei capi, «La Stampa», 16 gennaio 2008.
[35] Cfr. A. Baldissera, La svolta dei quarantamila, Milano, Edizioni Comunità, 1988.
[36]R. Papandrea, in Rocco: l’operaio della politica, a cura di S. Dalmasso, Torino, 2009, p. Di quei giorni convulsi Rocco ricordava una discussione con Cesare Damiano, segretario FLM a Torino e della Fiom. Lui propose una contromanifestazione, ma la sua proposta fu respinta. Lo stesso Damiano gli disse che sbagliava (ibidem).
[37]Ibidem.
[38] Cfr., Con Marx alle porte, cit., p. 43. Questo il testo della mozione: «L’assemblea, dopo un attento dibattito valuta l’ipotesi di accordo ancora insufficiente. In particolare riteniamo non accettabili i punti che accettano la cassa integrazione a zero ore per 23 mila lavoratori del listone Fiat. Ribadiamo quanto detto nel corso delle ultime settimane: nessun accordo può essere accettato se non viene ritirato il listone di proscrizione, poiché l’accettazione di esso vuol dire la distruzione della nostra forza organizzata in fabbrica. Per queste ragioni riteniamo che non si possano fare passi indietro nelle forme della mobilitazione e proponiamo ai lavoratori di discutere, organizzarci, per fare l’ultimo sforzo necessario a raggiungere tutti i nostri obiettivi» (ivi, p. 213)
[39] F. Turigliatto, Trentacinque giorni, vent’anni fa, «Bandiera Rossa», n. 3, novembre 2000
[40] Cfr., B. Ugolini, «L’Unità», 17 ottobre 1980. Per i dati riassuntivi delle votazioni cfr., Con Marx alle porte, cit., pp. 47-48.
[41] A. Caforio, Difendere oggi il sindacato di classe, «Bandiera Rossa», 2 novembre 1980.
[42] D. Antoniello, L. Vasapollo, Eppure il vento soffia ancora: capitale e movimenti dei lavoratori in Italia dal dopoguerra ad oggi, Milano, Jaca Book, 2006, p. 187. Per un decennio, «l’esperienza dei consigli di fabbrica si era come bloccata in uno stato ibrido: struttura di base del sindacato, ma senza possibilità di decidere nelle scelte delle organizzazioni e senza nemmeno possedere una piena autonomia politica, finanziaria, organizzativa; un ambito d’azione che si era sostanzialmente confinata dentro la fabbrica, delegando la rappresentanza generale alle élite politiche e sindacali, si mostrò incapace di reagire alla sindrome del tradimento costruendo un’alternativa alla politica dei grandi apparati del movimento operaio» (R. Renzacci, cit., p. 121).
[43] Lo scontro sui tagli dei punti alla scala mobile, voluto dal governo Craxi spaccò i sindacati confederali. Al provvedimento si opposero la componente comunista della CGIL e il PCI. L’esito negativo del referendum aumentò il peso e la determinazione di chi voleva portare fino in fondo la riforma della funzione dei sindacati.
[44] P. Fassino, Per passione, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 129-134. All’epoca era il responsabile fabbriche del PCI torinese. Le sue convinzioni, espresse nel libro autobiografico, erano del tutto simili a quelle che manifestò dopo i giorni caldi della lotta operaia a Torino, si veda in proposito la sua intervista, rilasciata nel 1983 e pubblicata in seguito su «Bandiera Rossa», n. 8, novembre 1990 col titolo In quei giorni a Torino la svolta tra due epoche.