Violenza contro le donne: il lavoro come arma per uscirne

Verso lo sciopero delle donne #8marzo2018!

Violenza contro le donne: il lavoro come arma per uscirne

di Simona Regina, da IoDonna del 7 gennaio 2018

Avere un lavoro è fondamentale per aiutare le donne vittime di violenza a liberarsi e non tornare dal partner violento. Non solo per l’aspetto economico. Molto spesso infatti, laddove il contesto familiare legittima o non contrasta la violenza domestica, il contesto lavorativo può supportare la donna nel rompere la dinamica di sottomissione. Se n’è parlato all’Università di Trieste

Non smetteremo mai di parlarne. È una piaga della nostra società, di cui bisogna parlare, parlare e parlare ancora, affinché non ci sia più alcuna donna vittima della violenza maschile. Parlare per denunciare. Parlare per sensibilizzare. Parlare per sostenere le iniziative a sostegno delle vittime. Perché la violenza che subiscono le donne per mano degli uomini è uno sfregio – come ha affermato la presidente della Camera Laura Boldrini – ma lo è anche l’indifferenza e lo sono i pregiudizi contro coloro che con molta fatica cercano di rompere il silenzio.

Con questo messaggio si è aperto all’Università di Trieste il seminario di studi “Sconfiggere la violenza contro le donne che ha focalizzato l’attenzione, in particolare, sulla centralità del lavoro come strumento di riscatto e di fuga da una trappola di dolore e umiliazione.

La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani

«La violenza maschile contro le donne è un dato strutturale della società, è il sintomo del rapporto asimmetrico tra uomini e donne, e questo spiega la grossa difficoltà a sradicarla». Così Patrizia Romito, psicologa e professoressa al Dipartimento di scienze della vita dell’ateneo triestino, che da anni si occupa di violenza su donne, minori e nelle giovani coppie, ha sottolineato come le radici di questo aberrante fenomeno affondino nello squilibrio (di potere) che caratterizza le relazioni fra uomini e donne.

«Nel 2016 – ha ricordato – in Italia sono state uccise 116 donne, quasi tutte da partner o ex partner, e dal 2007 al 2016 è stata denunciata la scomparsa di 4779 donne, di cui sono state ritrovate il 70% – molte erano scappate per sfuggire alla violenza domestica –, risultano decedute il 4% e il 26% manca ancora all’appello. Sono circa 1300 donne».

Numeri che tolgono il fiato. Dietro i quali ci sono storie di donne che hanno subito violenza fisica o sessuale o psicologica, insulti, denigrazioni, comportamenti di controllo estremo, nella maggior parte dei casi all’interno del nucleo familiare o di relazioni di coppia finite. «E c’è un continuum tra la violenza domestica quotidiana e gli omicidi» ha sottolineato Romito, citando dati Istat, secondi i quali in Italia il 13,6% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali da partner o ex partner.  Attenzione però a ridurre la violenza del partner a una perdita di controllo: caso mai è la manifestazione dalla volontà di imporre il controllo. «Insomma, non parliamo di raptus».

La violenza del partner si ripercuote anche sul lavoro della donna, e avere un lavoro è fondamentale per uscire dalla spirale della violenza. Per questo è importante sia sostenere l’occupazione femminile, in modo che le donne non siano dipendenti economicamente dal partner, sia supportare le vittime affinché troncare con il partner violento non significhi dire addio al proprio lavoro.

«Di fatto per molte donne – ha sottolineato Roberta Nunin, consigliera di parità della Regione Friuli Venezia Giulia – la violenza familiare ha ripercussioni evidenti sulla vita lavorativa: per molte vuol dire abbandonare il lavoro perché devono nascondersi, trovare rifugio in una casa protetta, allontanarsi…».

La violenza del partner si ripercuote anche sul lavoro della donna, e avere un lavoro è fondamentale per uscire dalla spirale della violenza. Per questo è importante sia sostenere l’occupazione femminile, in modo che le donne non siano dipendenti economicamente dal partner, sia supportare le vittime affinché troncare con il partner violento non significhi dire addio al proprio lavoro.

«Di fatto per molte donne – ha sottolineato Roberta Nunin, consigliera di parità della Regione Friuli Venezia Giulia – la violenza familiare ha ripercussioni evidenti sulla vita lavorativa: per molte vuol dire abbandonare il lavoro perché devono nascondersi, trovare rifugio in una casa protetta, allontanarsi…».

Ben vengano allora – come ha spiegato Maria Dolores Ferrara, professoressa di diritto del lavoro all’Università di Trieste –  gli strumenti normativi a difesa delle vittime: come il congedo lavorativo e la flessibilità oraria introdotti dal Jobs Act (d.lgs 80/2015) e il diritto al trasferimento previsto al decreto 165/2001.

«Disposizioni che cercano di dare strumenti ulteriori per contrastare la violenza e tutelare le donne vittime» ha detto.  «La possibilità di chiedere il trasferimento in altro comune, per chi lavora nelle pubbliche amministrazioni, e di usufruire del congedo con indennità pari al 100% della retribuzione (congedo che può essere fruito anche a ore nell’arco di tre mesi) è un sostegno per la donna che decide di affrontare il percorso di affrancamento dalla violenza».

Misure buone e giuste, «su cui però incombono ancora alcune ombre dettate dai margini di discrezionalità del datore di lavoro della contrattazione collettiva: l’articolo 24 del decreto 80/2015 stabilisce per esempio che la modalità frazionata del congedo (su base oraria o giornaliera) sia stabilita dai contratti collettivi.  Ciò significa che se i contratti non prevedono tutto ciò, la straordinaria funzione di questi diritti rischia di essere vanificata».

Avere o meno un lavoro è un aspetto determinante che entra in gioco ogni giorno nella decisione di liberarsi e di non tornare dal partner violento. E non solo per l’aspetto economico, seppur già di per sé molto rilevante. Molto spesso infatti, laddove il contesto familiare legittima o non contrasta la violenza domestica, il contesto lavorativo può supportare la donna nel rompere la dinamica di sottomissione.

«Diversi studi evidenziano infatti che le donne che lavorano hanno una probabilità più alta di liberarsi dalla relazione violenta e poi di non tornare dal partner violento» ha riferito la psicologa e psicoterapeuta Laura Pomicino. «Da una ricerca che abbiamo condotto con le donne che si erano rivolte al centro antiviolenza di Mestre, è emerso che non avere un lavoro aumenta di tre volte il rischio di continuare a subire violenza anche dopo aver intrapreso percorsi di affrancamento dal partner».

Il lavoro è dunque fondamentale per poter ripartire, altrimenti rischia di prevalere la paura di non riuscire ad andare avanti, la paura di non poter provvedere ai propri figli (la mancanza di indipendenza economica pesa ancor di più sulle donne con figli piccoli) e così, in silenzio, si resta nella prigione degli abusi e delle prevaricazioni, degli schiaffi e delle umiliazioni.

«A livello territoriale – ha spiegato allora Ferrara – l’associazione Goap, che dal 1999 gestisce il centro antiviolenza di Trieste, offre ospitalità alle donne maltrattate in case rifugio, alberghi per ospitalità di emergenza e in casa di transizione, a coloro che hanno superato la situazione di violenza ma non sono del tutto autonome economicamente. Offriamo anche percorsi di orientamento al lavoro e le sosteniamo con buoni spesa, ricariche telefoniche e per le donne con minori sono previsti contributi economici per potersi avvalere di babysitter e favorire così la conciliazione di tempi di vita e lavoro». Nell’ambio del progetto Matelda, pensato proprio per le donne che escono da percorsi di violenza, nel 2017 l’amministrazione del Friuli Venezia Giulia ha erogato contributi a 101 donne per l’acquisto di servizi di baby sitting, per un ammontare complessivo di 245 mila euro. «Inoltre una legge regionale prevede che alle donne vittime di violenza venga attribuito un punteggio specifico nei bandi per l’assegnazione delle case di edilizia popolare».