Ilva: quanti miliardi ha perso nei sei anni senza proprietà

di Milena Gabanelli e Michelangelo Borrillo, da il Corriere della sera del 23 settembre 2018

Ora che l’Ilva ha una nuova proprietà si può tirare una riga e fare i conti: qual è stato il «prezzo» del commissariamento? La storia dell’azienda è piena di crocevia, colmi di speranze, poi quasi sempre disattese. Il primo bivio fu la scelta del quarto polo siderurgico italiano: dopo Cornigliano, Piombino e Bagnoli, si aprì Taranto. Il secondo bivio risale all’inizio degli anni Novanta, quando il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert costrinse l’Italia a scegliere fra Bagnoli e Taranto. Lo stabilimento siderurgico pugliese sopravvisse a quello di Bagnoli in un derby del Sud in cui nessuno ricorda di aver vinto: Napoli aspetta ancora, dopo più di venti anni, la riqualificazione dell’area e Taranto un futuro che concili ambiente e lavoro. Erano i tempi dell’Ilva pubblica, quella che si chiamava Italsider.

Dall’acciaio di Stato all’Ilva privata

Ma c’è stata anche un’Ilva privata, a partire dal 1995, quando arrivarono i Riva che si aggiudicarono quella che nel frattempo — dopo la messa in liquidazione di Italsider nel 1988 — era appunto diventata l’Ilva. Con un’offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superarono i rivali del gruppo Lucchini. Con un padrone privato, si pensò all’epoca, sarà più facile per la magistratura controllare che la produzione dell’acciaio venga fatta secondo le leggi. Non si sa, neanche con il senno di poi, se l’Ilva dei Riva abbia inquinato più o meno dell’Italsider di Stato, ma si sa con certezza che ai tempi dei Riva le leggi per la tutela ambientale erano chiare e severe.

Dai Riva ai commissari, agli indiani di Mittal

La storia dei Riva in Ilva dura 17 anni: il 26 luglio del 2012, infatti, l’acciaieria viene messa sotto sequestro (senza facoltà d’uso) a seguito di un’inchiesta della magistratura di Taranto. Le accuse per i vertici aziendali, a vario titolo, sono di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Nel 2013 arriva il commissariamento, nel 2015 l’Amministrazione straordinaria, nel 2016 il decreto per la vendita, nel 2017 l’aggiudicazione alla cordata Am Investco (in concorrenza con AcciaItalia), guidata da ArcelorMittal, gruppo nato nel 2006 dalla fusione tra la francese Arcelor e l’indiana Mittal Steel Company, con quartier generale in Lussemburgo. E l’Ilva torna privata.

Le condizioni dell’accordo

Perché ArcelorMittal potesse prendere possesso dell’Ilva, però, si è dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’offerta vincente, così articolata: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti (circa 2,2 miliardi al netto del contributo del gruppo Riva) entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali. E un’occupazione per 9.407 unità nel 2018, a fronte dei circa 14 mila addetti del gruppo (con cassa integrazione autorizzata fino a 4.100 dipendenti) del 2017.

L’accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ultimo a chiudere l’intesa migliorativa, ma non riesce a completare l’opera. Il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore al ministero dello Sviluppo economico Luigi Di Maio. Che prima prova ad annullare la gara per illegittimità, poi chiude — dopo una trattativa durata tutta l’estate e conclusa il 6 settembre — l’accordo migliorativo.
10.700 lavoratori assunti, 3.100 in cassa integrazione

ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i rimanenti 3.100, che nel frattempo restano sotto l’amministrazione straordinaria di Ilva in cassa integrazione, per un costo complessivo che può arrivare a 400 milioni. Molti lavoratori però potrebbero optare subito per l’incentivo all’esodo di 100.000 euro lordi. L’Amministrazione straordinaria invece resterà in vita fino al 2023, con il compito di decontaminare l’area fuori dallo stabilimento, ma per l’opera di bonifica basteranno circa 400 persone.

I costi dei 2.200 giorni senza padrone

Ma quanto sono costati gli oltre 2.200 giorni dell’Ilva senza padrone in cui si sono susseguiti 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), 4 commissari (Enrico Bondi, Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi) e un sub commissario (Edo Ronchi)? Poiché l’ultimo bilancio di Ilva approvato dagli organi sociali è quello del 2011, gestione Riva, il calcolo può essere soltanto approssimativo. Nel 2015 l’Ilva ha perso in media 50 milioni al mese (quindi 600 milioni nell’anno), 25 nel 2016 (300 milioni), 30 nel 2017 (360) e 25 nei primi otto mesi del 2018 (200 milioni). In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’amministrazione straordinaria, a oggi, l’Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro.

Dall’assegnazione ad Am Investco (5 giugno 2017) all’accordo con i sindacati (6 settembre 2018) si sono persi circa 380 milioni. Se si considera che inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016, nel conto dei due anni di ritardo vanno aggiunti altri 330 milioni, che portano il totale a circa 700 milioni. Per gli anni 2012/2014, si può far riferimento ai numeri emersi dalla data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’interesse: emergono perdite per 2,1 miliardi. Complessivamente sono quindi 3,6 miliardi le perdite del dopo Riva, quasi quanto i 4 miliardi offerti da ArcelorMittal per rilevare l’Ilva.
Gli stipendi dei Commissari

Nei costi dell’Amministrazione straordinaria rientra anche il compenso dei commissari: quello annuo di Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, al lordo delle imposte, è stato di 240mila euro ciascuno. In precedenza hanno operato Bondi e il subcommissario Ronchi per un anno, e poi Gnudi per sei mesi. Ipotizzando lo stesso compenso, si sfora un totale di 3 milioni di euro.

I soldi nascosti dai Riva tornano a Taranto

Rimane il tema da cui tutto è partito: il disastro ambientale. In questi sei anni si è risanato pochissimo perché non c’erano i soldi. Oggi a disposizione ci sono circa 2,2 miliardi. Chi li mette? Per metà la nuova proprietà, per l’altra metà la vecchia proprietà dei Riva. Perché nel 2013, grazie al filone milanese dell’inchiesta, la Guardia di finanza sequestra ai fratelli Adriano ed Emilio Riva circa 1,3 miliardi di euro sottratti alla holding Riva Fire. Portati in Svizzera anziché essere investiti nei filtri, nella copertura dei parchi minerali, nel trattamento delle acque, nella gestione dei fanghi velenosi.

Nell’ordinanza di sequestro il gip Fabrizio D’Arcangelo usa parole durissime: i fondi «costituiscono il provento dei delitti di appropriazione indebita continuata e aggravata» da parte degli indagati «ai danni della Fire Finanziara spa (poi Riva Fire) di truffa aggravata, di infedeltà patrimoniale e di false comunicazioni sociali, oltre che di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di trasferimento fraudolento di valori». I fondi vengono sbloccati definitivamente a dicembre 2016 e in applicazione della legge cosiddetta «Salva Ilva» destinati al risanamento e al rilancio dell’azienda, applicando tutte le prescrizioni del Piano Ambientale.
Dopo 7 anni parte il risanamento ambientale

Nell’effettiva disponibilità di Ilva arrivano solo a giugno 2017: 230 milioni vengono utilizzati per la gestione corrente, mentre dei restanti 1.083 milioni vincolati al risanamento aziendale, 61 sono stati già spesi e altri 600 sono stati impegnati. Il più importante degli investimenti ambientali è la copertura dei parchi minerari. Nei giorni in cui spira da nord-ovest, al quartiere Tamburi di Taranto il vento porta polveri pericolose, Pm10 e benzo(a)pirene. Tanto da aver fatto saltare, lo scorso anno, una decina di giorni di scuola, come prescritto dalle ordinanze del sindaco Rinaldo Melucci: perché nei «Wind days», così li chiamano, è meglio respirare lo stretto indispensabile.

Per evitarlo, già l’Autorizzazione integrata ambientale del 4 agosto 2011 prevedeva che il Parco minerale e il Parco fossile dell’Ilva venissero coperti. I lavori sono partiti solo nello scorso febbraio, dopo 7 anni, e si concluderanno nel 2020. Il costo previsto è di 300 milioni ed è a carico della nuova proprietà, ma la somma è stata anticipata dall’amministrazione straordinaria di Ilva con i fondi sequestrati ai Riva dalla procura di Milano. Verrà rimborsata da Am Investco entro 90 giorni dalla definitiva acquisizione dell’Ilva.
Il futuro sta nei controlli

Si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’azienda? La risposta è si. La responsabilità, in prima istanza, pesa sulle spalle dei Ministri dell’Ambiente, della Salute, i Governatori della Regione Puglia, Arpa, magistrati, sindacati, che a partire dal 1995 (anno in cui lo Stato ha venduto l’Ilva ai Riva) avrebbero dovuto imporre l’adeguamento alle norme. Invece, mentre la proprietà accumulava soldi nei paradisi fiscali e a Taranto si moriva, hanno fatto finta di niente. Fino a quando non è più stato possibile. Come a Genova, viene sempre il momento in cui la storia presenta il conto.