Mobbing o straining: il diritto al risarcimento per il lavoratore

MOBBING O STRAINING: IL DIRITTO AL RISARCIMENTO PER IL LAVORATORE

Da Studio Cataldi dell’8 marzo 2018 su segnalazione di Marco Spezia e Medicina democratica

di Paolo Calmieri

Oltre alla fattispecie del mobbing, la giurisprudenza ha affermato che dà diritto al risarcimento in favore del lavoratore anche la singola condotta dannosa per lo stesso, legittimando di fatto la fattispecie minore dello straining.

Per integrare il mobbing sul luogo di lavoro, l’azione molesta deve essere caratterizzata da molteplici condotte persecutorie, ripetute nel tempo, e tali da provocare un notevole danno alla salute del lavoratore [1].

Dal punto di vista probatorio, ai fini della configurabilità della condotta mobbizzante del datore di lavoro, è necessario provare la serie di comportamenti di carattere persecutorio, l’evento lesivo, il nesso eziologico e l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi, in quanto la condotta non è configurabile per mera colpa [2].

Dunque, per ottenere il risarcimento dei danni da mobbing, si richiede una prova particolarmente rigorosa che deve essere fornita dal lavoratore.

Alcune pronunce hanno individuato sette parametri tassativi per il riconoscimento del fenomeno, rappresentati: dall’ambiente, dalla durata, dalla frequenza, dal tipo di azioni ostili, dal dislivello tra gli antagonisti, dall’andamento secondo fasi successive, dall’intento persecutorio [3].

Quando invece la condotta mobbizzante è effettuata dai colleghi del lavoratore, tale comportamento può portare ad ottenere il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro quando questo sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che rendono possibile, o le abbia addirittura determinate. Potrà essere chiamato a rispondere civilmente anche l’autore materiale delle condotte secondo le classiche regole civilistiche.

Infine, l’intento persecutorio unificante i comportamenti lesivi può desumersi anche dall’uso abnorme del potere direttivo, ossia quando il datore di lavoro o il superiore va al di là dei poteri ad esso consentiti.

Il fondamento della tutela contro il mobbing trae origine dal principio di buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, dovendo il datore di lavoro astenersi dal porre in essere comportamenti e azioni che comportino condizioni lavorative caratterizzate da stress, in quanto lesivi dei diritti fondamentali del dipendente.

La giurisprudenza ha riscontrato condotte mobbizzanti in caso di discredito continuo e palese del lavoratore; ostruzionismo nell’esercizio dei diritti del lavoratore; rimproveri immotivati ed aggressivi; demansionamento (però, quando sia dequalificante); e assegnazione di giorni arretrati di permesso diversi da quelli richiesti.

Quando il comportamento mobbizzante non ha il carattere della ripetitività della condotta, il lavoratore ha comunque diritto a vedersi risarcito il danno patito in conseguenza della condotta lesiva e persecutoria, anche qualora non derivi da molteplici comportamenti.

La fattispecie dello straining è stata recentemente legittimata dalla Corte di Cassazione [4], la quale ha avuto modo di confermare il risarcimento in favore del lavoratore danneggiato da attività di straining, che altro non è se non “una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie”. Sostanzialmente, mentre nel mobbing ci sono una serie di azioni ostili, ripetute nel tempo, nello straining è sufficiente anche soltanto un’unica azione, basta che gli effetti siano continui nel tempo.

In questo caso, dunque, il lavoratore vive sul luogo di lavoro una situazione stressante legata ad un’azione ingiusta [5].

Si può configurare lo straining con la privazione immotivata degli strumenti di lavoro, con l’assegnazione di mansioni incompatibili con la situazione personale del lavoratore, con il trasferimento ingiustificato in una sede disagiata, e con la svalutazione dell’operato del lavoratore.

Per concludere, non è importante la qualificazione dell’azione intentata dal lavoratore ai fini del risarcimento, in quanto il Giudice non sbaglia se qualifica la fattispecie come straining e non come il richiesto mobbing. Ciò che conta è che sia accertato il compimento di una condotta contraria alla buona fede, senza che rilevi la iniziale domanda giudiziale per l’accertamento ed il risarcimento da mobbing.

NOTE

[1] La normativa di riferimento è l’articolo 2087 del Codice Civile e il D.Lgs. 81/08

[2] Ordinanza della Corte di Cassazione Sezione Civile 21262/17

[3] Sentenza della Corte di Cassazione Sezione Civile 10037/15

[4] Sentenza della Corte di Cassazione 3977/18

[5] Sentenza della Corte di Cassazione 3291/16