Parità salariale uomo-donna in Italia, i numeri di un miraggio

Parità salariale uomo-donna in Italia, i numeri di un miraggio

di Elena Paparelli, da Lettera43 del 13 gennaio 2018

Le lavoratrici hanno stipendi del 16,3% più bassi rispetto ai maschi. E la legge sulla trasparenza retributiva vale solo per aziende con oltre 100 dipendenti. Part-time, ruoli, maternità: le discriminanti.

In Islanda, “isola delle donne” a pieno titolo, la parità di stipendio fra maschi e femmine è diventata legge. E i riflettori sulla parità di genere nel lavoro si sono accesi anche in Italia. Nella piccola isola “del ghiaccio e del fuoco” è stata introdotta un’ammenda per chi non rispetta la norma: aziende e uffici pubblici con più di 25 dipendenti devono dimostrare che le donne ricevono lo stesso compenso dei loro colleghi uomini.

UNA LEGGE SPUNTATA. E nel nostro Paese? Le imprese con più di 100 dipendenti sono tenute a fornire, con cadenza biennale, un rapporto sulla situazione del personale anche rispetto ai differenziali retributivi. Si tratta di una legge che risale addirittura al 1991, anche se è entrata in vigore operativamente solo nel 1996. In teoria, anche in Italia per legge sono previste sanzioni per le aziende che non rispettano quest’obbligo. Ma in pratica, le cose si complicano un po’.

Alida Castelli, esperta di Pari opportunità e politiche di genere, spiega a Lettera43.it: «Un elemento fondamentale è rappresentato dalla situazione in cui operano le consigliere di parità regionali (figure che svolgono funzioni di promozione e di controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza e parità uomo-donna, ndr) cui vanno inviati i rapporti. A partire dagli ultimi 8-9 anni lavorano in gravi difficoltà sia in termini di dotazione economica sia per l’organizzazione dei loro uffici».

IMPOSSIBILITÀ DI CONTROLLO. Una situazione organizzativa che ha fatto sì che ormai in quasi tutte le regioni, i rapporti vengano raccolti, ma poi non siano catalogati e nemmeno elaborati. «Questo», aggiunge la Castelli, «produce evidentemente l’impossibilità di controllare se le aziende hanno prodotto il rapporto, sollecitare o sanzionare chi non lo ha prodotto, e conoscere la situazione reale delle lavoratrici e dei lavoratori di quei territori».

Loredana Taddei, responsabile delle Politiche di genere della Cgil nazionale, e anche cofondatrice del comitato “Se non ora quando?”, dice a L43: «La legge italiana è uno strumento utile per agire in materia di contrattazione, per esempio, oltre che per consentire ai sindacati un’analisi in termini di progressione di carriera. Ma il tetto degli oltre 100 dipendenti la rende una legge di nicchia, dal momento che aziende di queste dimensioni sono meno del 5% dell’intero sistema industriale».

NORME SOTTOVALUTATE. In più, quando le imprese sono piccole, il sindacato è meno diffuso. E In Italia la media dei dipendenti per azienda è di 3,6 addetti. Ma perché sul tema della parità di genere nel mondo del lavoro è così difficile far applicare le norme, che pure esistono? «La causa che pesa più di tutte», è il parere della Castelli, «è la totale sottovalutazione da parte di molti decisori politici dell’importanza generale delle norme che riguardano la parità di genere e il valore del lavoro delle donne».

DATI DA 10 ANNI NEGATIVI. La fa eco la Taddei: «Da noi si fanno molti convegni e seminari, ma manca l’azione di governo, la volontà politica di cambiare le cose. Non c’è nessun Paese avanzato messo male come il nostro e negli ultimi 10 anni siamo solo peggiorati. L’occupazione femminile resta tra le più basse d’Europa: in Italia lavora una donne su due, l’unica cosa che cresce è la precarietà».

Nel 2016 le donne nei consigli di amministrazione sono state 687, ma grazie a un obbligo di legge (L.120/2011) che prevede l’aumento progressivo di nomine femminili negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate. Se una crescita negli ultimi 8 anni c’è stata, ha registrato soltanto 17 amministratrici delegate.

DONNE IN PARLAMENTO: 31%. Il punto è che in Italia uno dei nodi chiave resta il problema della rappresentanza: le donne in parlamento sono appena il 31% del totale, mentre nei ministeri la quota si ferma al 27,8%. Non è un caso che il parlamento islandese – che ha votato praticamente all’unanimità la legge contro il gender pay gap – sia composto per il 50% da donne.

UNA PROPOSTA SUL “50&50”. Secondo la Castelli «una maggiore e qualificata presenza di donne nelle istituzioni è fondamentale per l’attuazione dei diritti femminili in ogni settore o campo sociale. L’Udi (Unione donne in Italia) ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare per il “50&50” ovunque si decide».

Organismi innovativi previsti dalla nostra legge per combattere le discriminazioni nel lavoro sono stati di fatto ridimensionati, depotenziati, se non quasi soppressi

ALIDA CASTELLI

Ma la strada è ancora tutta in salita. «Un vulnus sempre più grave», aggiunge, «è anche rappresentato dal fatto che organismi innovativi previsti dalla nostra legge per combattere le discriminazioni nel lavoro, in primo luogo le consigliere di parità, ma anche il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratori, sono stati di fatto ridimensionati, depotenziati, se non quasi soppressi».

DENUNCIATI I DIRITTI NEGATI. Eppure il mondo dell’associazionismo in questi ultimi anni non è rimasto a guardare. Dalla scintilla innescata da “Se non ora quando?” nel 2011 è seguito un nuovo attivismo delle donne in Italia, sono nati nuovi movimenti come Nonunadimeno, sono stati denunciati i diritti negati con la piattaforma Cedaw e con il “Rapporto ombra Cedaw – Lavori in corsa”, presentato a Ginevra a luglio 2017 e a cui hanno lavorato molte associazioni di donne.

Le differenze salariali a discapito delle donne si creano in tanti modi, a partire dall’imposizione del part time, che supera ormai il 60%

LOREDANA TADDEI

Ancora oggi però le donne in Italia risultano essere pagate in media il 16,3% in meno rispetto agli uomini, oltre che operare in quei settori in cui in genere le retribuzioni sono più basse. Puntualizza la Taddei: «Nelle aziende dove si applica il contratto nazionale non c’è una differenza salariale, ma non in tutte le aziende viene applicato e le differenze si creano in tanti modi, a partire dall’imposizione del part time, che supera ormai il 60%». E poi ci sono le difficoltà di carriera e degli avanzamenti professionali, ostacolati soprattutto per il timore della maternità.

AVERE UN FIGLIO PESA SUL SALARIO. Secondo l’Inps a 20 mesi dal parto le donne percepiscono stabilmente circa il 12% in meno rispetto al reddito potenziale in assenza della nascita del figlio, cifra che raddoppia per le donne senza un contratto a tempo indeterminato.

«Manco a dirlo, non si registra nessuna incidenza retributiva per gli uomini che diventano papà», commenta la Taddei. «Il pay gap è poi calcolato su base della differenza del salario medio lordo orario senza tenere conto dei diversi fattori che lo influenzano, come le ore lavorate, il grado di istruzione, i bonus, il tipo di attività svolta, i benefit, i premi produzione percepiti. Questo perché i dati vengono raccolti in maniera settoriale, ma non a parità di prestazione».

DOPO LA MATERNITÀ ADDIO POSTO. Le statistiche sono impietose: quando aspetta un figlio, una donna su quattro in Italia abbandona il lavoro. E dopo la maternità continuano a lavorare solo 43 donne su 100. Mentre è in aumento il numero complessivo di dimissioni e risoluzioni consensuali convalidate a livello nazionale: per l’anno 2016 sono state 37.738, con una crescita del 12% rispetto al 2015.

RIFLESSI NEGATIVI SULLE PENSIONI. Aumentano anche la precarietà, la discontinuità lavorativa, a causa della difficile conciliazione tra lavoro e famiglia, e il carico di responsabilità provocato dall’erosione del welfare. Tutto questo ha poi riflessi negativi anche nell’età pensionabile. «I dati Istat e Inps sulle pensioni», analizza la Taddei, «ci dicono che le donne sono titolari di pensioni “povere”».

Per l’Italia, dunque, l’Islanda nella pratica resta un modello ancora parecchio lontano. Per la Taddei «la questione economica resta fondamentale non solo in termini di giustizia sociale, ma perché consente alle donne di essere effettivamente libere, le mette in condizione di fare scelte di vita, anche nelle situazioni più difficili come quelle relative a convivenze con uomini violenti. Sappiamo bene che molte donne subiscono per anni violenze e soprusi perché non hanno una effettiva indipendenza economica».

«INTERVENGA LA COMMISSIONE». E l’Europa cosa sta facendo? La lotta per la parità di genere è tra gli obiettivi della strategia di crescita dell’Ue in vista del 2020. «Sarebbe utile che la Commissione», conclude la Taddei, «desse indicazioni agli Stati nazionali per un intervento legislativo finalizzato alla piena trasparenza delle retribuzioni da parte delle aziende, superando i vincoli legati al numero dei dipendenti».