Crescono le occupate, ma le madri si dimettono

dal sito ingenere.it, del 10 ottobre 2017

L’Italia è al suo record storico di occupazione femminile, lo riconfermano gli ultimi dati diffusi dall’Istat, che attestano un 48,9% di occupate nel nostro paese. Su inGenere abbiamo spiegato perché questo è accaduto proprio durante la crisi e come si traduce in termini di redditi e bilanci familiari.

Tuttavia, c’è bisogno di ricordarlo, siamo ancora distanti dalla media europea (65,3%) e tra i paesi Ocse l’Italia è al quarantunesimo posto per partecipazione femminile al mercato del lavoro e al terzo per tasso di inattività.

Il dato più significativo di questi giorni arriva proprio dall’Ispettorato del lavoro, che registra una diffusione consistente di dimissioni volontarie da parte delle lavoratrici madri. Nel 2016, riporta l’istituto nel suo ultimo rapporto, il 78% delle dimissioni volontarie ha riguardato le lavoratrici madri, e solo il 22% i lavoratori padri. Parliamo di 27.443 donne, a fronte delle 25.620 dell’anno precedente, che rispetto al totale rappresentano una lieve flessione percentuale.

Quella che cresce è la percentuale di lavoratrici che si licenziano perché non ce la fanno a gestire lavoro e figli. Le difficoltà nel conciliare la cura dei figli con il lavoro nel 2016 è stata infatti alla base di 13.854 dimissioni – il 44% in più rispetto a quelle rilevate nel 2015. Nel 98% dei casi questo ha riguardato le donne. Tra le motivazioni più frequenti: assenza di parenti di supporto, mancato accoglimento al nido, costi troppo elevati per delegare l’assistenza dei neonati a nidi privati o baby sitter.

Un fenomeno tanto diffuso quanto sintomatico di un sistema di servizi e politiche insufficienti a garantire la piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro. “La carenza dei servizi sociali, soprattutto nel Mezzogiorno, e un insufficente sostegno alla maternità e paternità fanno sì che il 30% delle madri che hanno un lavoro lo interrompe alla nascita del figlio” commenta nel suo ultimo rapporto l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), rete di esperte ed esperti che sta vigilando sul raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 in Italia.

“Con l’ultima Legge di Bilancio sono stati prorogati per il 2017 e 2018 i voucher per gli asili nido e sono stati istituiti il ‘Bonus bebè’ (1000 euro annui per l’iscrizione in asili pubblici o privati per i nati dall’anno 2016, non detraibile fiscalmente) e il ‘Bonus mamma domani’ (800 euro per le nascite – o per le adozioni- del 2017, che può essere chiesto dalla mamma al compimento del settimo mese di gravidanza)” ricorda l’Asvis, piccole misure che purtroppo non bastano.

Per cambiare davvero le cose c’è bisogno di investire nei servizi all’infanzia e predisporre un sistema di congedi di paternità obbligatori e abbastanza duraturi da fare la differenza, e su quest’ultimo punto il gruppo interparlamentare sulle pari opportunità sta conducendo in Italia una lunga e faticosa battaglia, che trova sostegno nella recente approvazione del Social pillar europeo.

E invece al momento “solo un bambino su quattro tra gli zero e i due anni in Italia è, in effetti, affidato alle cure di servizi formali di assistenza all’infanzia” riporta l’Ocse nel rapporto appena diffuso sulla gender equality.

Nel nostro paese le donne “svolgono la maggior parte del lavoro domestico non retribuito, hanno accesso limitato ad asili nido a prezzi accessibili e a posti di lavoro flessibili che potrebbero aiutarle a gestire lavoro e famiglia; inoltre il sistema attuale continua a favorire le madri – invece che i padri – a prendere il congedo familiare” ricorda ancora l’Ocse nell’ultimo rapporto sulle competenze. Questa, però, ci tiene a sottolineare, è solo una parte della storia. “Il tasso di fertilità in Italia è tra i più bassi dell’area Ocse, l’età media in cui una donna ha il suo primo figlio è abbastanza alta e ci sono molte donne senza figli”. Non è un caso che, al contrario di quello che spesso si pensa, occupazione femminile e natalità crescano insieme.