Lavoro nero: manuale di autodifesa di Je so’ pazzo

manuale lavoro neroQuesto manualetto è il risultato di un percorso nato all’interno della Camera Popolare del Lavoro di Napoli, un’esperienza nuova, autogestita, interna allo spazio e al progetto dell’Ex OPG “Je so’ pazzo”.

Tra lavoratori ci siamo incontrati, abbiamo parlato, ci siamo scambiati esperienze, abbiamo ascoltato avvocati, ispettori e consulenti del lavoro e questo è ciò che ne è venuto fuori. Allora abbiamo deciso di condividerlo con tutte e tutti.

scarica e diffondi il manuale di autodifesa “50 sfumature di lavoro nero e come combatterle”


1. E’ di te che si parla in questa storia

Raffaella ha 22 anni. Nel 2012, arrivata da un paesino dell’entroterra, aveva iniziato a lavorare come cameriera in un locale in uno dei quartieri “bene” della città. Tre turni a settimana, ogni volta 10 ore di lavoro. Quando finiva la giornata, il gestore le metteva in mano 30 euro. Di un contratto nemmeno l’ombra. Dopo tre anni, qualche settimana fa, a fine turno, le è stato detto che, per “politica aziendale”, stavano “rinnovando” il personale e l’hanno invitata a non presentarsi più. Licenziata così, da un giorno all’altro. Liquidazione, contributi, ferie e permessi che avrebbe dovuto maturare – se avesse avuto un contratto – sono un sogno. Manco “arrivederci e grazie”, figuriamoci i soldi che le sarebbero spettati!

Valentina, invece, di anni ne ha 27. Viene da uno dei paesi della sterminata provincia. Da ormai parecchi anni fa l’animatrice. In giro, per feste per bambini, con una paga di 5 euro l’ora. All’inizio non volevano rimborsarle la benzina. Dopo un po’ di discussioni, almeno quello è riuscito ad ottenerlo. Di un contratto, però, anche per lei, neanche a parlarne.

Daniele ha 31 anni. Dopo anni di sbattimenti è finalmente riuscito a realizzare un sogno: fare il professore. Oggi lavora dieci ore a settimana in una scuola privata e ha firmato anche un contratto. Peccato però che sia totalmente fasullo e che a fine mese non gli venga dato nemmeno un euro. Qualcuno direbbe che lavora per la gloria, in realtà lo fa solo per maturare il punteggio in graduatoria, sperando in un domani migliore.

Anche Lucia un contratto ce l’ha. Oggi di anni ne ha 29. Da 6 fa la commessa nello stesso negozio, uno di quelli in cui a tanti sarà capitato di entrare, in una delle vie dello shopping cittadino. Dopo un lungo periodo “a nero”, due anni fa è stata “messa a posto”. Si fa per dire, visto che quello che sulla carta è un part-time, 4 ore di lavoro al giorno, si trasforma spesso in una giornata di 12 ore, per non parlare delle domeniche al negozio, della mancanza di riposo, ecc. A fine mese i soldi che guadagna non sono quelli riportati in busta paga. Ha pattuito una cifra con la proprietaria e da anni non ci si muove da quella. Ogni tanto, sotto le feste, magnanimamente le vengono “regalati” 50€…

Sanjeev è arrivato dallo Sri Lanka 12 anni fa. 35 anni, una moglie e due figli piccoli. Da anni lavora come cuoco in un locale del centro storico. Il contratto, anche se non veritiero, gli serve. Senza quello niente permesso di soggiorno.

Peccato che avrebbe diritto anche agli assegni familiari. Peccato perché quelli se li tiene il proprietario…

Potremmo andare avanti a lungo, ma ci fermiamo qui. Sono 5 storie, tutte diverse, eppure tutte uguali. Sono le nostre storie. Chi non ne ha una simile? Che si tratti di un tavolo da servire, di un palco da montare, di una lezione da preparare, di un bambino cui badare, di una borsa da fabbricare, di un palazzo da costruire, di pomodori da raccogliere, tutti abbiamo tantissime storie del genere da raccontare.
Non a caso l’Italia è considerata patria del lavoro “nero”. Che poi qualcuno una busta paga ce l’abbia pure non è che cambi molto: se la mansione, l’orario, la paga che vengono messi nero su bianco non corrispondono al vero, non è che ci renda poi così tranquilli, né tanto meno “regolari”. Lavoro “nero” o “grigio” – come si definisce il lavoro quando uno un contratto ce l’ha, ma quest’ultimo è falso – cambia poco: niente ferie, malattie, permessi, contributi, insomma zero tutele, zero diritti, e tanta, tanta impotenza e solitudine.
E la rabbia e il disincanto ci prendono quando televisione e giornali ci dicono che la situazione sta migliorando, che il Jobs Act funziona, che in fondo basta non essere “choosy” e una soluzione la si trova. E lo vengono a dire a noi, con le nostre storie di merda, con fratelli, sorelle e amici costretti ad emigrare perché qui è sempre più dura. E magari pretendono pure che gli crediamo, sennò siamo “gufi”. Ma come si fa, se attorno a noi il lavoro nero non diminuisce? Se le forme di lavoro “legale” gli assomigliano sempre più?

Ormai il contratto a tempo indeterminato non è solo una chimera; con le “tutele crescenti” praticamente non esiste più. Precariato a vita e per legge. Oppure prendiamo i voucher, sempre più diffusi e che un datore di lavoro può tirar fuori quando c’è un’ispezione (che poi, l’ispettore del lavoro è una figura quasi mitologica visto che quasi nessuno riesce a vederne uno!). Come è successo nel locale in cui lavorava Raffaella: è arrivato un controllo e – puff! – da un cassetto è uscito fuori qualche bel voucher che “dimostrava” che lei lì ci lavorava in maniera legale, altro che nero! Peccato che lei non lo sapesse, che un voucher non lo avesse mai nemmeno visto.
Lamentarsi non basta – ce lo dicono sempre. E hanno pure ragione. Allora noi qualcosa la vogliamo fare. Ne abbiamo piene le scatole di sentirci fare la predica. Ci fosse mai uno che viene e ti dice qualcosa di veramente utile, qualcosa che possa far cambiare un minimo la situazione in cui ci troviamo.


2. Come posso difendermi dal lavoro nero (o “grigio”)?

Partiamo da una cosa che può sembrare banale, ma molto spesso non lo è: se lavoro a nero, non c’è proprio nulla che possa fare per difendermi. FALSO! Abbiamo imparato, anche a nostre spese, che difendersi è possibile, però dobbiamo capire come…

Cerchiamo allora di procedere con ordine e partiamo proprio dall’inizio:

ASSUNZIONE:
nella “felicità” di questo momento ricordiamoci di non abbassare la guardia, perché fin da subito dobbiamo iniziare a difenderci. Se c’è la firma su un contratto, ce ne deve essere data una copia: non la trattiamo come un volantino pubblicitario qualsiasi, conserviamola (lo stesso vale per le buste paga: non sono carta straccia!). Se, invece, è “bastata” una stretta di mano, segniamoci il giorno in cui il patto tra “gentiluomini” è stato siglato!

Il primo passo per difenderci è, infatti, quello di raccogliere quanto più materiale possibile per DIMOSTRARE che c’è stato davvero un rapporto di lavoro, quando è iniziato, quanto è durato e cosa facevamo. Non è raro, infatti, che, nel momento in cui si arriva ad uno scontro che magari porta all’interruzione del rapporto di lavoro, il “gentiluomo” neghi la nostra stessa esistenza – se gli/le è possibile – o riporti dei tempi completamente sballati: data di inizio falsa, orari di lavoro inferiori a quelli reali, ecc.

Niente è inutile! E’ molto importante, anzi necessario, tentare di ricostruire il racconto del proprio rapporto di lavoro nella maniera più precisa possibile:
Annotiamo data di inizio, ed eventualmente anche di fine del rapporto di lavoro, le ore di lavoro effettive (comprese le eventuali pause) e, laddove possibile, prendiamo documenti che attestino le modalità di organizzazione del lavoro da parte del datore (schemi turni, foglio orari);
Appuntiamo e conserviamo eventuali provvedimenti disciplinari presi contro di noi (richiami orali o scritti, sospensioni, multe, diminuzione punitiva della paga);
Procuriamoci un’agendina e registriamo le nostre presenze ed i nostri orari nella maniera più precisa possibile, incluse date e orari di straordinari e assenze (malattie, ferie o permessi); eventuali chiusure estive o festive dell’impresa;
Raccogliamo e conserviamo qualsiasi tipo di corrispondenza (mail; sms; whatsapp; messaggi su fb) o materiale fotografico rilevante (anche una banale foto sul posto di lavoro, magari con i colleghi, che può sembrare inutile, può essere invece importantissima! Con i social network, capita che gli stessi esercizi commerciali pubblichino sulla loro pagina nostre foto mentre siamo al lavoro!);
Prendiamo nota delle effettive mansioni che svolgiamo: ad esempio, servire al tavolo è diverso da stare alla cassa e comporta retribuzioni ed indennità diverse che, purtroppo, non ci vengono quasi mai riconosciute;
Appuntiamo quando ci viene consegnato lo stipendio e con quale cadenza periodica (ad esempio a cadenza giornaliera o mensile), fotocopiando eventuali assegni di pagamento ricevuti dal datore di lavoro;
Cerchiamo di recuperare – per quanto sappiamo essere operazione per nulla facile – e conservare qualsiasi tipo di documento su cui si è apposta una nostra firma (ricevute, documenti dei corrieri, ecc.);
Accertiamo chi sia effettivamente il nostro datore di lavoro: spesso ci interfacciamo con un “gestore”, ma una causa andrà fatta col datore (il titolare dell’attività).

Un secondo passo, fondamentale per tutelarci al meglio, è quello di trovare delle prove testimoniali. Eventuali “testimoni” servono per dimostrare non solo l’esistenza stessa del rapporto di lavoro, ma soprattutto la sua continuità nel tempo e gli orari effettivi. Quindi, durante il rapporto di lavoro è molto utile:
• Redigere una lista di contatti dei colleghi, dei fornitori o di eventuali guardiani, portieri, guardie giurate, utili come testimoni;
• Annotare i nominativi dei clienti che incontriamo regolarmente;
• Frequentare abitudinariamente luoghi ed esercizi pubblici posti nelle immediate vicinanze del posto di lavoro (per eventuali testimonianze da parte di titolari e dipendenti);

Ovviamente, tra tutte queste figure, quella più importante è quella dei colleghi. Sono quelli con cui condividiamo il tempo, la fatica, gli abusi, le vessazioni, ma anche le piccole gioie quotidiane. Per quanto possa essere difficile, sono i primi con cui provare a difendersi insieme.


3. Un passo avanti: dall’accumulo di carte all’azione pratica

Ma, arrivati a questo punto, che ce ne facciamo di tutta questa documentazione, di queste informazioni e, eventualmente, di testimoni? Tutto e niente. Sono infatti le nostre armi, da tirar fuori al momento opportuno, se e quando lo riterremo necessario. Se lavoriamo, infatti, una ragione ci sarà: mantenere una famiglia, pagarsi un affitto, le bollette. Non è che lo facciamo perché ci piace. Quel lavoro – per quanto di merda sia – ci serve e in molti casi non possiamo permetterci di perderlo solo per affermare dei principi morali, per farci dare una pacca sulla spalla dagli amici e sentirci dire che avevamo ragione, che tutto è uno schifo e che abbiamo fatto bene. Dobbiamo quindi essere attenti, la nostra azione deve essere efficace, non semplicemente giusta.

Tutto quanto raccolto lo possiamo semplicemente tenere in un cassetto, conservandolo con cura. Ci sarà utile quando vorremo dare una svolta, quando la rabbia sarà troppa, quando l’ennesimo sopruso sarà la famigerata goccia che farà traboccare il vaso. O, semplicemente, quando il datore di lavoro deciderà che può fare a meno di noi, che non gli serviamo più e vorrà buttarci via come uno straccio…

CHE COSA SUCCEDE SE DECIDIAMO DI DENUNCIARE?
Se pensiamo a questa ipotesi bisogna mettere in conto anzitutto una cosa, che per quanto invisibili, latenti e poco funzionali, lo stato prevede degli strumenti per la tutela dei lavoratori, …in effetti, uno: l’Ispettorato del Lavoro. È un organo preposto alla tutela dei lavoratori, che ha il potere di effettuare delle “ispezioni” sui posti di lavoro per verificare che le regole siano rispettate. L’ispettore può visitare senza preavviso qualsiasi posto di lavoro, controllare le strutture aziendali, la documentazione dell’impresa, nonché sentire i lavoratori (ovviamente senza la presenza “ingombrante” del datore di lavoro) per raccogliere la loro testimonianza.

Chi può presentare una denuncia?
All’Ispettorato si può rivolgere il singolo lavoratore, un’organizzazione sindacale o un’associazione, ma anche il semplice cittadino che sia a conoscenza di situazioni di irregolarità.

Devo dare per forza le mie generalità? Denunciando il datore di lavoro, non rischio forse di perdere il “posto”?
La denuncia da parte del singolo lavoratore può essere anche anonima, ma aumenta il rischio che i funzionari dell’ispettorato non la prendano in considerazione. Gli ispettori del lavoro con cui ci siamo confrontati ci hanno consigliato di apporre comunque nome e cognome. Tuttavia, sappiamo bene che, sia in caso di lavoro “grigio” che, a maggior ragione, di “nero”, la minore esposizione possibile è consigliabile. In ogni caso, nessun problema. Come già detto, possiamo presentare una denuncia utilizzando un’associazione. Ad esempio, anche per andare incontro a quest’esigenza, abbiamo creato a Napoli l’associazione “Potere al popolo!”. Possiamo usarla come scudo dietro cui parare i colpi che ci potrebbero arrivare dalla controparte.

Cosa ci deve essere nella denuncia?
Tutta la documentazione di cui abbiamo scritto prima (inizio del rapporto, orari di lavoro, salario percepito, ecc.). Quanto più precisa una denuncia, tanto meglio.

Come fare la denuncia?
• Può essere inviata tramite posta (come sempre per la pubblica amministrazione, meglio una raccomandata con ricevuta di ritorno);
• Può essere portata direttamente all’ufficio di zona dell’ispettorato del lavoro;
• Può essere fatta telefonicamente: tuttavia, questa modalità ci è stata fortemente sconsigliata, dal momento che nel 99% dei casi non sarebbe presa minimamente in considerazione.

Ma questa denuncia serve poi a qualcosa? La situazione cambia davvero?
E qui i nodi arrivano al pettine. Inutile dire che, governo dopo governo, quest’ente è stato sempre più depotenziato. Meno fondi, meno personale, più burocrazia e meno possibilità di effettuare controlli. Se ci aggiungiamo che in alcuni casi il singolo ispettore può non agire esattamente nell’interesse dei lavoratori, la situazione non è idilliaca. Tutt’altro. Non a caso quasi nessuno di noi ha visto un ispettore, e chi lo ha visto non ha per questo migliorato la propria condizione.
Comunque, a questo punto dobbiamo entrare in gioco noi. Gli ispettori devono renderci conto del loro operato. Dobbiamo esercitare una pressione costante sul loro lavoro, stargli col fiato sul collo. Loro sono lì per tutelare noi. Individualmente, ma soprattutto se ci mettiamo insieme, in tre, quattro, decine di noi, possiamo “costringerli” a fare per bene il loro lavoro. È già successo che i lavoratori abbiano avuto successo in questo. Possiamo provarci anche noi. Anche perché più controlli, fatti sul serio, significherebbero maggiori difficoltà delle aziende ad assumere “a nero” o “a grigio”, con la conseguenza che, domani, quando cercheremo un altro posto di lavoro, magari almeno il rispetto delle condizioni minime ce l’abbiamo.

E SE VENIAMO CACCIATI, LICENZIATI?
Nel corso delle nostre esperienze lavorative, nelle chiacchiere che ci siam fatti con amici e parenti, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Ci cacciano e spesso ci danno pure le motivazioni più implausibili del mondo! A volte, davvero, ci offendono nella nostra intelligenza. Come quando ad una di noi hanno detto che sarebbe stato meglio se non fosse più tornata a lavorare perché c’era bisogno di una “pausa di riflessione”! No comment!

Anche quando sembra che tutto sia finito, comunque, nessuna resa. C’è ancora qualcosa che possiamo fare. Tutti i dati raccolti ci torneranno ancora una volta utilissimi. Possiamo infatti denunciare il datore di lavoro, rivolgendoci ad un avvocato o ad un consulente del lavoro.

Alla Camera Popolare del Lavoro abbiamo organizzato uno sportello legale gratuito per aiutarci anche in questo tipo di situazioni.

Potremmo pensare che la denuncia sia una soluzione del cavolo, che non abbiamo tempo da perdere dietro a queste cose e, soprattutto, che di soldi non ce ne sono per pagare chicchessia. È quello che pensiamo un po’ tutti. E poi vuoi mai vedere che il datore di lavoro è stato così disattento da poter perdere una causa? Ebbene sì. Anche quando a noi sembra che abbia preso tutti gli accorgimenti del caso, quando sappiamo che si è rivolto a fior fiore di consulenti, nella maggior parte dei casi, i lavoratori che denunciano vincono. Per essere precisi e non dire baggianate, in realtà in molti casi non si arriva nemmeno a processo. Il datore di lavoro – meglio, il suo avvocato – ci contatterà una volta partita la denuncia per proporci una transazione: anziché rischiare di doverci pagare somme che spesso sono tutt’altro che bruscolini, decidono di offrirci una cifra ben più bassa, purché rinunciamo ad andare avanti. Sta poi a noi scegliere se proseguire o accettare.
Ma che si arrivi a processo o che si giunga ad un accordo in precedenza, il risultato è chiaro: nella maggior parte dei casi VINCIAMO! E almeno recuperiamo una parte di ciò che ci sarebbe stato dovuto, per le situazioni che siamo costretti a subire.

Un’ultima postilla: a volte capita che il datore di lavoro che perde la causa risulti insolvente. Risultato? Rischiamo di essere vincitori morali, ma di non vedere nemmeno un euro. Neanche a questo punto però tutto è perduto.

Possiamo rivolgerci all’INPS. Difatti, è previsto che l’INPS ci riconosca almeno il pagamento del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) che ci spetterebbe (se agiamo entro 5 anni dalla fine del nostro rapporto di lavoro) e, se ci muoviamo per tempo (entro 1 anno dalla cessazione del rapporto di lavoro), potremmo riuscire ad ottenere anche il pagamento delle ultime tre mensilità – come da contratto e non come da “accordi” col datore di lavoro! – che ci sarebbero dovute toccare.


4. Tiriamo le somme

Abbiamo scritto questo manualetto per dotarci di uno strumento pratico, e utile, per combattere un problema che, troppo spesso, ci sembra senza soluzione. Siamo entrati nel merito di molti dettagli proprio per chiarire che, nonostante tutto, qualcosa si può fare, e non è poco.
Tutte le indicazioni fornite per costruire il proprio dossier sembrano noiose ma sono utilissime: quando un giorno decideremo di chiudere un determinato rapporto avremo ottime chances di recuperare quanto ci spetta, e anche farla pagare a chi ci ha sfruttato, magari facendocela passare come un favore.

Ma non è tutto. La denuncia non ci basta, e con questo manualetto abbiamo l’ambizione di andare oltre. Vogliamo rompere il muro di silenzio su una situazione che riguarda migliaia e migliaia di persone, e che a stento emerge dalle statistiche ISTAT, e costringere tutti – media, istituzioni – a non fare finta di non vedere e dare delle risposte. Vogliamo rendere il sonno dei nostri “donatori di lavoro” meno placido e sicuro, vogliamo vederli con la strizza addosso, in poche parole vogliamo combattere il problema a monte, non solo dopo che si è presentato. E possiamo farlo.

Se il lavoro fatto vi sembra utile, se ci sono delle correzioni o dei suggerimenti,
scriveteci a: camerapopolarelavoro.na@gmail.com
o contattaci su facebook: Camera popolare del lavoro

Se avete voglia di mettervi in gioco anche voi, direttamente, noi ci siamo!