Beppe Scienza: previdenza integrativa, 10 anni di delusioni

titolo-sole24oredi Beppe Scienza, da Il Fatto Quotidiano del 1° marzo 2017

Il Sole 24 Ore pubblica un articolo e i sindacalisti lo affiggono nelle bacheche aziendali. Sembra strano, trattandosi dell’organo di stampa della Confindustria, in linea di principio loro antagonista e non alleata. Invece non lo è, quando l’argomento sono i fondi pensione chiusi o negoziali, le cui poltrone (presidenze e altri organi) sono spartite per legge fra sindacati e associazioni imprenditoriali. Da ciò tale innaturale corrispondenza di amorosi sensi.

Il canovaccio si è puntualmente ripetuto a dieci anni dal semestre gennaio-giugno 2007 di silenzio assenso per il TFR. I lavoratori del settore privato, che allora non si opposero, sono rimasti incastrati per tutta la vita lavorativa nella previdenza integrativa e, di regola, proprio in un fondo sindacal-padronale.

In questi giorni molti lavoratori leggono nelle bacheche sindacali e nelle e-mail titoli quali “il fondo pensione batte Tfr 4 a 2” oppure che i versamenti alle gestioni di categoria “hanno reso in media il 44% in più”. Spiace per gli interessati, ma non è vero. Come al solito, fallimenti vengono spacciati per successi.

In realtà sul fronte dei rendimenti la previdenza integrativa ha fatto cilecca. Lo vediamo, partendo dalla basilare ricerca dell’area studi di Mediobanca “Dati di 1003 fondi e sicav (1984-2015)”, integrata per l’anno scorso coi rendimenti provvisori della Covip. Da fine 2006 a fine 2016 la performance complessiva media dei fondi pensione chiusi risulta il 38% netto, che può essere spacciata per buona e invece non lo è.

Poiché tali fondi investono nei mercati finanziari, vanno innanzitutto confrontati con essi. Possiamo per esempio prendere a riferimento tutti i Btp non brevissimi: +71,4% netto nel decennio e ancora di più con quelli lunghi. Poi, viste tutte le vanterie sulla diversificazione azionaria, l’indice Morgan Stanley World: +47,6% in euro. Dando per buona la ripartizione fra comparti adottata, ai gestori bastava copiare i mercati per ottenere qualcosa come il 50% netto. Ciò equivale a un minus di gestione nell’ordine del 12%. È vero che meriterebbe approfondire e magari anche risalire alle cause (movimentazione esagerata, costi occulti, malversazioni ecc.). Impresa però impossibile per la totale opacità della previdenza integrativa.

Ma soprattutto i fondi chiusi non hanno affatto “reso il 44% in più del TFR”. Se verso soldi in un conto, il saldo sale. Ma grazie ai soldi aggiunti, non agli interessi accreditati. Vale lo stesso discorso, se ad alcuni risulta ora nel fondo una somma più alta rispetto al Tfr accantonato di chi non ha aderito. Ciò è dovuto soprattutto non al rendimento delle gestioni di categoria, bensì ai soldi in più versati da loro stessi e dai datori di lavoro, fra l’altro a discapito di quanti non hanno aderito. Per giunta, cosa regolarmente taciuta, i cosiddetti contributi datoriali sono sicuri al massimo per quattro anni e poi non più.

Il TFR si è rivalutato nel decennio del 25% netto. Quindi nessun fantasmagorico 44% in più, ma semmai un 13%, pari a un 1% annuo. E, concordando col giudizio già espresso dall’ufficio studi di Mediobanca, un tale differenziale è troppo modesto a fronte dei rischi molto maggiori, cui i futuri pensionati sono stati esposti.

In ogni caso, per chi ancora lavora, il vantaggio è solo contabile. È tutto da vedere se la situazione non si ribalterà prima della pensione, perché i tassi di mercato congiurano contro la previdenza integrativa e a favore del Tfr.