La disoccupazione al di là del senso comune. Un saggio di Giovanni Mazzetti

disoccupazione 2E’ la dinamica evolutiva che contraddistingue la nostra società che, ad un certo punto, produce, come conseguenza non voluta e non prevista, la disoccupazione di massa. Sfortunatamente solo di rado il movimento dei lavoratori è realmente riuscito a riconoscere nel dilagare della disoccupazione l’emergere di una contraddizione. Più spesso ha prevalso una rappresentazione della disoccupazione come calamità o come effetto della cattiva volontà degli imprenditori e del governo. Per non parlare di una terza lettura, attraverso la quale la stessa classe dei salariati, o una sua parte, ha talvolta fatto proprie le rappresentazioni della classe dominante, giungendo alla conclusione che la disoccupazione era l’effetto di una dissipazione di risorse, di un comportamento sociale teso a vivere al di sopra delle possibilità date! Occorre invece esaminare quello che, nell’ambito della società data, possiamo definire come il normale processo di riproduzione del lavoro, cioè quell’insieme di eventi che conducono al presentarsi e al ripresentarsi di questa attività. Solo così si potrà evitare l’ingenuità di considerare l’occupazione come un evento naturale, e si creeranno le condizioni per individuare l’elemento o gli elementi che ostacolano la partecipazione di una massa di individui alla produzione. Per poi agire su di essi in modo da rimuoverli.

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La disoccupazione al di là del senso comune

di Giovanni Mazzetti

Quaderno Nr. 2/2016 a cura del Centro Studi e Iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo

Presentazione 

Poco meno di vent’anni fa, nel 1997, aprivamo il nostro Quel pane da spartire.  Teoria generale della necessità di redistribuire il lavoro sostenendo che “in quasi tutti i paesi economicamente sviluppati sta finalmente prendendo corpo un orientamento sociale embrionalmente favorevole ad una redistribuzione del lavoro. Ci sono titubanze, continui ripensamenti e aspre resistenze. C’è una grande difficoltà a concepire una riduzione d’orario che, al pari di quasi tutte quelle intervenute in passato, lasci il salario invariato o addirittura lo veda aumentare. Ma il problema sembra ormai essere stato comunque posto sul tappeto in modo irreversibile. L’elevata disoccupazione, che ha quasi ovunque raggiunto i più alti livelli dopo la crisi degli anni trenta, rafforza questa tendenza e sollecita qualche intervento pubblico diretto a favorire prime sporadiche redistribuzioni all’interno di singole aziende in crisi. In qualche raro caso sono le stesse parti sociali a concordare riduzioni del tempo di lavoro, come un espediente per evitare il puro e semplice licenziamento di una quota rilevante della forza-lavoro.”

Ma quella nostra anticipazione delle tendenze in atto era decisamente sbagliata.  Faceva affidamento su una ragionevolezza del senso comune che non ha preso corpo nemmeno col precipitare della crisi degli ultimi dieci anni.

La convinzione oggi dominante non è diversa da quella di allora, fideisticamente fiduciosa sul futuro del lavoro.  Cosicché le parole usate, verso la meta degli anni Ottanta, da uno dei massimi dirigenti della CGIL, poi passato alla politica istituzionale, continuano a risuonare nel deserto culturale creato dalla crisi.  «I bisogni corrono sempre davanti a noi, cambiano e si moltiplicano man mano che quelli vecchi vengono soddisfatti. E per soddisfare i nuovi bisogni materiali, sociali e culturali, occorrerà anche in futuro lavoro. La tecnologia moderna risparmia lavoro nella soddisfazione dei bisogni materiali di oggi, ma non potrà farlo altrettanto celermente per quelli di domani». Da qui le politiche del lavoro che rimasticano vecchie convinzioni e non producono alcun risultato positivo, che hanno allontanato la prospettiva della redistribuzione del lavoro nonostante l’esplodere della crisi.

 La disoccupazione e il senso comune

Come ha giustamente osservato un noto economista conservatore, ognuno di noi si serve ogni giorno di innumerevoli merci e servizi: per mangiare, per vestirsi, per ripararsi dalle intemperie o semplicemente per provare piacere. E diamo per scontato che essi siano disponibili tutte le volte che vogliamo comprarli. Non pensiamo mai quanta gente ha contribuito, in un modo o nell’altro, a fornire quei beni. Non ci chiediamo mai com’è che la drogheria all’angolo – o al giorno d’oggi il supermercato – ha sui suoi scaffali gli articoli che vogliamo comprare. (1)

Il senso di questa descrizione è chiaro: il mondo nel quale siamo immersi, che pure è il risultato della nostra continua attività produttiva e di quella di una moltitudine di nostri simili, viene da noi normalmente percepito come un qualcosa di spontaneo, che sta lì per opera propria, un po’ come il mare per i pesci. Esso non ci appare dunque per quello che anche è, vale a dire un prodotto, il risultato dell’attività sociale di un insieme di individui, che interagiscono continuamente tra loro, pur senza percepire pienamente il complesso funzionamento dell’organismo che contribuiscono a far vivere.

Ora, noi riteniamo che qualcosa di analogo accada per quello che è uno dei momenti della vita di questo organismo: il lavoro. Fintanto che il lavoro c’è, non ci si interroga infatti sul come e sul perché ci sia; e ancora meno si affronta il problema di come esso sia venuto alla luce. Anche quando si profila all’orizzonte l’eventualità di licenziamenti, la prima reazione, soprattutto da parte di coloro che sono destinati a essere direttamente o indirettamente coinvolti nell’evento, è di stupore o di repulsione. Appunto, si considera scontato che, una volta dato, il lavoro debba inerzialmente continuare ad esserci. Ma anche quando il lavoro non c’è, e non c’è da lungo tempo, come accade in molti paesi e in molte aree economicamente arretrate dei paesi sviluppati, si tende a considerare questa situazione come un semplice dato di fatto. Non si spiegherebbe altrimenti come si possa sopportare per anni o per decenni una disoccupazione particolarmente elevata, senza che si verifichino esplosioni sociali.

Fintanto che il rapporto con il modo in cui il lavoro viene di giorno in giorno riprodotto è questo, e si trasforma l’occupazione in qualcosa di «naturale», si finisce inevitabilmente con il considerare il sopravvenire della disoccupazione come una sorta di calamità, dovuta a eventi straordinari, che la società, o una sua parte, non può far altro che subire. Certo, come accade per tutte le sventure collettive, che sono avvolte da uno spesso velo mistico fino a quando rimangono ignoti i meccanismi che le determinano, anche la disoccupazione dà talvolta adito ad un diffuso malcontento, tanto maggiore quanto maggiore è la sofferenza sociale che ad essa si accompagna. Esplodono comprensibilmente le manifestazioni, le occupazioni di aziende, le proteste; si infittiscono gli appelli, le dichiarazioni di solidarietà. Ma invece di trasformarsi in un’energia capace di influenzare produttivamente l’andamento dell’organismo sociale, e di assicurare quindi un suo sviluppo attraverso la soluzione dei problemi che intralciano il cammino, questo malcontento finisce dopo un po’ con il dissiparsi o, al massimo, sollecita la ricerca di presunti colpevoli e la fuga in una speranza di tipo miracolistico.

L’ignoranza dei processi attraverso i quali soltanto il lavoro viene di volta in volta riprodotto, ma che possono anche inibire od ostacolare questa riproduzione, spinge dunque a sperimentare la disoccupazione come un qualcosa che non ha immediatamente a che fare con la vita stessa dell’organismo che ne soffre. Essa viene piuttosto considerata come una deviazione, come uno stravolgimento, che sarebbe causato dal comportamento improprio – cioè volutamente distruttivo – di una delle sue parti. Se si crede che la situazione normale sia quella nella quale il lavoro spontaneamente esiste, l’anormale situazione nella quale scarseggia deve cioè essere stata prodotta da un comportamento anomalo! L’idea che la stessa dinamica evolutiva che contraddistingue la società possa, ad un certo punto, produrre, come conseguenza non voluta e non prevista, la disoccupazione di massa non sfiora neppure il senso comune. Se vogliamo comprendere la disoccupazione, noi dobbiamo però esplorare questa possibilità. Certo, questo passaggio rende tutto più complesso. Ma è una complessità che, se si trova nelle cose, non può essere evitata.

Intendiamoci, se ci riferiamo a una disoccupazione «non voluta», non puntiamo ovviamente a sostenere che quando l’imprenditore invia delle lettere di licenziamento non stia deliberatamente licenziando. Ma piuttosto che egli prende questa decisione condizionato da un insieme di fattori, che, come cercheremo di dimostrare, si impongono su di lui e ai quali si deve piegare, anche se soggettivamente vorrebbe farne a meno. Quando i conti non tornano e l’andamento del mercato minaccia la stessa sopravvivenza dell’impresa, il capitalista che agisce coerentemente con il proprio ruolo sociale e nel rispetto delle leggi non può non licenziare (o evocare un potere sovrastante come quello dello stato per non farlo, riconoscendo la sua impotenza). E comportandosi in questo modo non fa altro che praticare il normale rapporto sul quale la riproduzione di sé come imprenditore poggia. Considerare il licenziamento come una libera manifestazione della sua volontà, cioè come un arbitrio, equivale dunque a ipotizzare che lo stesso capitalista, con una semplice decisione, sia in grado di – e addirittura debba – sottrarsi agli stessi rapporti nei quali è immerso (2).  Una fantasia, questa, che difficilmente può essere mantenuta nello svolgimento di una seria riflessione scientifica.

E evidente che, se è voluta da qualcuno, ed è proprio il comportamento autonomo di questi a produrla, la disoccupazione si presenta come un evento positivo, del tutto coerente con gli scopi di quell’agente (anche se è incoerente con gli scopi di altri, ai quali appare come evento negativo). Così, ad esempio, la teoria economica dominante fino agli anni trenta del Novecento, imputava agli stessi lavoratori il comportamento sottostante al sopravvenire della loro disoccupazione, per il fatto che non sarebbero stati disposti ad accettare la diminuzione di salario che, a detta degli economisti ortodossi, avrebbe assicurato la loro occupazione, e con essa le condizioni di una vita normale. Teoria questa che è stata rispolverata negli ultimi trent’anni dalle organizzazioni degli imprenditori e da taluni governi conservatori, che si sono affannati a ripetere in continuazione che una maggiore “flessibilità” nella remunerazione e nell’uso del fattore lavoro permetterebbe alle imprese di dare occupazione a tutti, e che quindi i veri «responsabili» della disoccupazione sarebbero gli stessi lavoratori, con la loro insistenza sul posto fisso e col loro egoismo salariale.

Simili semplicistiche interpretazioni sono tuttavia precluse nel momento in cui si riconosce che gli agenti sociali procedono allo stesso modo in cui hanno fatto in precedenza ma, a differenza di quello che il loro comportamento ha di solito determinato, ora si vengono a trovare in una situazione nella quale le condizioni per riprodurre il lavoro sembrano non esistere più. Ad esempio, il lavoratore chiede lo stesso salario che chiedeva prima, ma gli si risponde che non può continuare ad essere pagato, nonostante il paese in cui vive non abbia visto diminuire la sua capacità produttiva, perché l’azienda non può più coprire i costi corrispondenti alla sua remunerazione. O, per fare un altro esempio, l’imprenditore non è più in grado di ottenere gli stessi finanziamenti industriali e commerciali di cui godeva precedentemente; oppure non è in grado di conservare il proprio mercato. La disoccupazione appare in questo caso come una negazione delle intenzioni originarie, e delle possibilità sulla cui base si sono formate. Vale a dire che contraddice le (fondate) aspettative dei soggetti, invece di confermarle. È vero che queste aspettative hanno poggiato sulla convinzione – errata – che il mondo continuasse a procedere come aveva fatto fino a quel momento, e che quindi non sarebbero intervenuti cambiamenti significativi nella vita. Ma è proprio questo approccio piattamente omeostatico, come vedremo nei quaderni successivi, che spiega le ragioni per cui uno sviluppo positivo, come quello corrispondente all’aumento della produttività del lavoro, può trasformarsi in un evento negativo, come quello della disoccupazione di massa, senza che si sappia che cosa fare.

È ovviamente essenziale affrontare e risolvere il dilemma se la disoccupazione sia un risultato positivamente voluto o una contraddizione subita. Nel primo caso, infatti, tutto si riduce a una questione di lotta, E quest’ultima può essere coerentemente limitata all’opposizione a una volontà che appare tesa a creare disoccupazione. Il risultato sarà poi determinato esclusivamente dal prevalere dell’una o dell’altra forza in campo. I licenziamenti potrebbero cioè essere impediti con una pura e semplice azione di contrasto da parte dei lavoratori, senza che da questa opposizione scaturisca un caos sociale. Oppure, dal punto di vista conservatore, gli imprenditori potrebbero usare coerentemente i licenziamenti per piegare i lavoratori a quelle che appaiono loro come le condizioni dell’occupazione di altra forza-lavoro, senza trascinare la società nel baratro. Nel secondo caso, invece, tutto si complica. E se l’opposizione non si accompagna immediatamente ad una chiara individuazione delle vie eventualmente aperte per il superamento della contraddizione, rimane sterile. La disoccupazione testimonia infatti una vera e propria incapacità, da parte di coloro – imprese e governo – che determinano il volume dell’attività produttiva, e con essa il livello di vita, di far fronte ai problemi emersi. E un’azione che contrasti la loro volontà o la assecondi, ma che non sia allo stesso tempo portatrice della soluzione che essi non sono in grado di elaborare, non può produrre alcunché di positivo, oltre la testimonianza del bisogno di lavoro.

Sfortunatamente solo di rado il movimento dei lavoratori, che  è quello che qui ci interessa, è realmente riuscito a riconoscere nel dilagare della disoccupazione l’emergere di una contraddizione. Più spesso ha prevalso una rappresentazione della disoccupazione come calamità o come effetto della cattiva volontà degli imprenditori e del governo. Per non parlare di una terza lettura, attraverso la quale la stessa classe dei salariati, o una sua parte, ha talvolta fatto proprie le rappresentazioni della classe dominante, giungendo alla conclusione che la disoccupazione era l’effetto di una dissipazione di risorse, di un comportamento sociale teso a vivere al di sopra delle possibilità date! In particolare la seconda lettura è stata favorita da un vero e proprio fraintendimento della teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva, che è stata, appunto, semplicisticamente interpretata come tesa ad affermare che i capitalisti vogliano positivamente la disoccupazione di massa e che il governo non voglia fare tutto il possibile per eliminarla, quando si presenta. Ma, a parte l’avvertimento generale, riferito proprio ai capitalisti, che Marx avanza nella Prefazione a II capitale, dove sostiene che non si deve «mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura», è evidente che si può definire un gruppo di disoccupati come «di riserva» solo se esso è destinato ad essere nuovamente impiegato. I lavoratori che compongono questa entità sociale – che Marx distingue da coloro che piombano nel pauperismo vero e proprio – non sono affatto destinati a essere esclusi strutturalmente dal processo produttivo, ma piuttosto a parteciparvi o ad esserne esclusi in corrispondenza con l’andamento dell’accumulazione.

L’imprenditore che persegue coerentemente i propri scopi sociali, oscillerà cioè in continuazione tra due tendenze contrastanti, che però solo congiuntamente spiegano il suo comportamento. Da un lato, quando l’accumulazione procede, e favorisce delle anticipazioni ottimistiche del futuro, punterà ad accrescere al massimo l’impiego del lavoro salariato, trovando la forza-lavoro aggiuntiva di cui ha bisogno proprio nell’esercito di riserva. Dall’altro, quando l’accumulazione incontra degli ostacoli, e lo stesso capitale non è in grado di riprodursi secondo le sue leggi, tenderà a «liberare» una parte della forza-lavoro dall’impiego produttivo, accrescendo così l’esercito di riserva.

Se noi esaminiamo la serie storica delle statistiche dell’andamento della disoccupazione nel secolo XIX nei paesi economicamente avanzati – appunto i paesi nei quali si è imposto il modo di produzione capitalistico – troviamo proprio questo susseguirsi di periodi di piena occupazione e di periodi nei quali una parte più o meno elevata della forza-lavoro rimane disoccupata. Rileviamo cioè un andamento sincronico con il processo di accumulazione e con le sue crisi.

disoccupazione in UK

Disoccupazione in UK 1973-2015

La mancata riproduzione del lavoro interviene dunque – e questo è un passaggio essenziale! – come un momento della mancata riproduzione dello stesso capitale. Gli imprenditori non tornano infatti a comperare tutta la forza-lavoro che precedentemente acquistavano, perché sono consapevoli che mancano le condizioni per la realizzazione del valore corrispondente al livello di produzione che scaturirebbe da quell’impiego. Non corrispondono un salario ad una parte della forza-lavoro, rinunciando così a trasformarla in una componente del capitale, perché il loro denaro finirebbe in tal modo, tutto o in parte, con l’essere sperperato invece che accumulato.

Il punto che deve essere tenuto fermo è dunque il seguente: l’impresa non produce e non può produrre lavoro a piacimento, bensì produce lavoro mentre riproduce se stessa. La forza-lavoro viene infatti acquistata dal capitalista, e diventa così parte integrante del suo capitale, come «capitale variabile», solo se può essere impiegata nella produzione di merci che, vendute, assicureranno un accrescimento del capitale anticipato, cioè una reintegrazione di ciò che è stato «speso», più un profitto. Questo processo è il processo attraverso il quale lo stesso capitale si riproduce su scala allargata.  Come precisa Marx, in una considerazione che sentiamo di poter pienamente condividere, «capitale e lavoro salariato esprimono soltanto due fattori dello stesso rapporto. Il denaro non può diventare capitale senza scambiarsi con la capacità di lavoro come merce venduta dal lavoratore stesso »(3).  Dunque, quello che per la forza-lavoro è il lavoro, per il capitale è il processo di valorizzazione, il movimento attraverso il quale interviene il suo accrescimento. Se questa valorizzazione è preclusa e, ciò nonostante, si chiede al capitalista di comperare il lavoro e di impiegarlo, si considera l’impresa in maniera impropria, come un organismo sociale il cui potere non sarebbe limitato dalla sua stessa natura, bensì risulterebbe assoluto. Non a caso però, quando vengono sollecitati a «dare lavoro» per porre rimedio alla disoccupazione, gli imprenditori fanno proprio valere questi limiti, sostenendo di non essere in grado dì garantirlo alle condizioni economiche nelle quali si trovano.

 Gli inutili appelli alle responsabilità

Nell’errore di attribuire alle imprese un potere che non hanno, non cade solo il cittadino qualunque, con la sua esperienza dei problemi fondata sulle ovvietà del senso comune. Si pensi, ad esempio, a quanto ha scritto a suo tempo uno dei padri fondatori del più grande sindacato italiano, in merito a ciò che  ha definito come «responsabilità delle imprese».  “Esse hanno il diritto (direi anzi il dovere che è largamente inadempiuto) di programmare il loro rinnovo nei suoi aspetti finanziari, tecnici, organizzativi, dì mercato. Ma il lavoro entra nei loro calcoli come esuberanza, non entra come ricerca di un reimpiego. Non penso certo a imponibili di manodopera o a blocchi di licenziamenti, non credo che le imprese possano risolvere il problema, ma credo che esse debbano affrontarlo insieme con le Regioni e con le Agenzie del lavoro. Il lavoro umano non può essere solo un «residuo» da scaricare sul bilancio pubblico e sulla strada. Il posto del lavoro nella società è tema che ci riguarda tutti.”(4)

Ma il «posto del lavoro nella società» non è qualcosa di opinabile, che può essere di volta in volta deciso con una determinazione meramente soggettiva di questo o di quell’agente sociale. Esso costituisce piuttosto uno degli elementi portanti della struttura sociale e, come vedremo più avanti, la stessa disoccupazione può essere del tutto coerente con questo «posto». Per negare tutto ciò si deve porre il problema, come a noi sembra che accada, solo come una questione di buona volontà e di attenzione ad un ipotetico interesse generale all’occupazione. Ma in tal modo si sottovaluta che l’impresa, quando può, ha tutta la convenienza a trattare il lavoro positivamente per quello che è, cioè come un momento del processo attraverso il quale viene valorizzato il capitale. Fintanto che può muoversi riconoscendo praticamente al lavoro questa funzione produttiva di profitto, l’impresa lo fa entrare nella sua strategia come elemento destinato a un continuo reimpiego. Lo pone, per così dire, costantemente come parte di sé. Infatti, per usare una efficace metafora di Marx che ci sembra di poter condividere, «il lavoro è il fermento che, gettato nel capitale, lo porta a fermentazione». (5)  C’è quindi uno stretto legame tra la crescita del capitale e l’impiego della forza-lavoro.

Ma le condizioni di questo impiego non sono decise dall’impresa, e anzi, come vedremo nei prossimi quaderni, nei suoi confronti appaiono sempre come una realtà prevalentemente esteriore, che l’imprenditore non ha sotto il suo controllo. Quando esse non sono date, perché manca la possibilità di un investimento profittevole, egli si trova oggettivamente – cioè fermo restando l’orizzonte sociale che giustifica la sua esistenza – nella situazione di non avere alcun uso per una parte della forza-lavoro. Mancando la possibilità di una «fermentazione», non ha senso l’uso del fermento. La forza-lavoro viene in tal modo posta come non parte di sé, e abbandonata al suo destino. Ed è qui che in genere scatta l’appello.

Ma come non si può chiedere al singolo individuo di comperare merci per le quali non è in grado di prevedere un qualsiasi uso, così non si può chiedere alle imprese di comperare delle merci per le quali non hanno alcun impiego. Se lo si fa, si chiede loro di agire secondo un criterio che è in totale contrasto con il rapporto di denaro, che sottostà al funzionamento del sistema e alla sua stessa razionalità. Paradossalmente, mentre nei confronti delle imprese la forza-lavoro continua a presentarsi come una merce, e a esigere il pagamento del corrispettivo della sua vendita, si chiede alle imprese stesse di prescindere proprio da un elemento essenziale per l’acquirente di merci – il valore d’uso della cosa che compera. Le si sollecita cioè ad acquistare una merce, la forza-lavoro, anche quando esse – nell’ambito degli scopi che giustificano la loro stessa esistenza – non ne vedono una possibile utilizzazione.

Questa sollecitazione può scaturire solo dalla convinzione che la crisi che investe le stesse imprese quando licenziano sia un qualcosa di accidentale, di non necessario, che può essere risolto con una semplice decisione, ferma restando la base sulla quale la riproduzione della società poggia.  Per questo si possono invitare gli imprenditori, per i quali la forza-lavoro è e rimane una merce da immettere nel processo di valorizzazione del capitale, a «considerarla» come un qualcosa di diverso, nonostante nei loro confronti la forza-lavoro stessa, domandando un salario, si presenti soggettivamente proprio come una merce. Appunto si chiede ai soggetti che operano all’interno del sistema capitalistico di trascendere i limiti dei rapporti nell’ambito dei quali riproducono la loro esistenza, pur lasciando immutata la struttura di tali rapporti.

Tutti questi appelli, al pari dei generici appelli all’intervento dello stato sui quali torneremo in altri quaderni, evidenziano quanto poco in genere si tenga conto di quelle che sono le condizioni sociali della riproduzione del lavoro, in assenza delle quali ogni tentativo volontaristico di porre rimedio alla disoccupazione è condannato al fallimento. Il riconoscimento di questo fatto, d’altronde, impone a sua volta un particolare indirizzo alla nostra riflessione, costringendoci innanzi tutto a verificare come il lavoro stesso venga alla luce e possa continuare a essere estrinsecato.

 Il processo di riproduzione del lavoro e i suoi momenti

Se si considera la disoccupazione come una patologia sociale alla quale occorre porre rimedio, e si vuole scoprire perché un uomo che cerca lavoro non lo trova, restando così disoccupato, si deve innanzi tutto analizzare che cosa avviene se, quando lo cerca, lo trova. Si tratta pertanto dì esaminare quello che, nell’ambito della società data, possiamo definire come il normale processo di riproduzione del lavoro, cioè quell’insieme di eventi che conducono al presentarsi e al ripresentarsi di questa attività. Solo così si potrà evitare l’ingenuità di considerare l’occupazione come un evento naturale, e si creeranno le condizioni per individuare l’elemento o gli elementi che ostacolano la partecipazione di una massa di individui alla produzione. Per poi agire su di essi in modo da rimuoverli.

Ma per quale ragione, in rapporto alla riproduzione del lavoro, si deve parlare di un processo? Appunto perché, come si vedrà tra breve, nello svolgimento del fenomeno che stiamo cercando di analizzare ha luogo un susseguirsi di momenti tra loro concatenati, che appaiono tutti indispensabili affinché il lavoro possa venire alla luce ed essere di volta in volta ripetuto. È raro però che, quando si parla di occupazione e di disoccupazione, questi momenti vengano tenuti tutti coerentemente presenti. Più spesso gli studiosi, così come il senso comune che ad essi oscuramente si richiama, si riferiscono ora a questo ora a quel momento, per di più considerato in forma astorica, ritenendo che si possa far tutto dipendere magicamente da esso. Ne consegue, di solito, un’analisi dell’esserci o del non esserci del lavoro decisamente unilaterale, che non tiene conto delle connessioni tra i diversi elementi, dalla cui interazione soltanto scaturisce eventualmente il lavoro.

Nei prossimi quaderni cercheremo di esporre in forma semplice alcuni degli elementi che hanno contribuito a favorire o a limitare la riproduzione del lavoro nella fase in cui il capitalismo ha raggiunto il suo apice. Per poi affrontare i mutamenti sociali che, con l’ascesa dello Stato sociale, hanno assicurato una nuova espansione del lavoro, e gli ulteriori mutamenti che hanno determinato il riesplodere della disoccupazione negli ultimi quarant’anni. Prima ci sembra però opportuno fissare quelli che appaiono come i momenti essenziali dell’emergere di una qualsiasi attività produttiva, qualunque sia la sua forma storica. Il lettore impaziente, con ogni probabilità, scalpiterà per entrare immediatamente nel problema. Ma noi lo invitiamo a pazientare, perché troppo spesso le discussioni inerenti alla disoccupazione diventano sterili a causa del fatto che gli interlocutori ignorano completamente anche i nessi più elementari tra le categorie che usano nel corso del ragionamento e che condizionano la sua validità.

 Il momento del bisogno

Si prenda ad esempio la fiduciosa affermazione dell’ex dirigente sindacale da noi richiamata sopra (6). Il suo succo può essere riassunto come segue: poiché i bisogni nel futuro tenderanno a espandersi, non potrà non intervenire una crescita del lavoro.

Ora, è fuori di dubbio che, se i bisogni non si espandessero non si potrebbe immaginare una crescita del lavoro. Ciò significa che l’espansione dei bisogni è una condizione necessaria per la crescita del lavoro, un suo presupposto, Ma non significa affatto che essa sia, come invece risulta implicito nell’argomentazione, anche una condizione sufficiente. (Per un approfondimento del tema rinviamo al Quaderno n. 1:  Meno lavoro o più lavoro nell’età microelettronica?) Da un certo punto di vista è anzi facile riconoscere che la stessa disoccupazione smentisce praticamente l’esistenza di un qualsiasi legame automatico tra bisogno e soddisfazione dello stesso; tanto è vero che il disoccupato, pur avendo un evidente (7) bisogno di lavoro, non necessariamente riesce a trovarlo. Se quindi è vero che il bisogno costituisce il primo momento di qualsiasi processo di produzione e di riproduzione del lavoro, occorre anche vedere se esso riesce ad entrare effettivamente in relazione con gli altri momenti, in modo che il problematico cammino che conduce all’emergere di un lavoro possa essere realmente compiuto.

E bene chiarire la questione con una semplice analogia. Un individuo può ammalarsi e trovarsi così nel bisogno di ricevere una cura. Se si conclude però che, poiché ha questo bisogno, sarà curato, si cancellano tutti i passaggi della vita reale – ad esempio individuazione della malattia, elaborazione delle forme e acquisizione dei mezzi più appropriati di cura, ecc. – che dovranno essere compiuti, e il cui mancato compimento – ad esempio perché scarseggiano le conoscenze o non esistono i farmaci – impedirà la cura (8). D’altronde, se non ci fossero bisogni da soddisfare, e cioè se i cittadini fossero in massa appagati dalla situazione nella quale si trovano, non si potrebbe nemmeno parlare di disoccupazione. La disoccupazione appare pertanto come difficoltà di creare lavoro, perché, come abbiamo già accennato nel primo quaderno, corrisponde alla difficoltà di soddisfare bisogni. Quindi la pura e semplice crescita dei bisogni non offre di per sé alcuna garanzia dell’espandersi del lavoro, perché questa espansione può intervenire solo se si acquisisce la capacità di far fronte a quella difficoltà, e di mettere così effettivamente in moto l’attività che corrisponde alla soddisfazione di quei bisogni.

Nel prendere in considerazione questo primo momento del processo di produzione del lavoro si presenta quindi un problema. La maggior parte delle persone, confondendo le proprie aspettative con la realtà, è infatti convinta che un bisogno sia di per sé sempre e comunque un elemento energetico contraddistinto da un’immediatezza operativa positiva nella realtà sociale. Ma non è così. Si pensi ancora per un attimo ai disoccupati. Essi hanno certamente bisogno di un lavoro. Ma non si può, da questo, concludere che il loro bisogno sia immediatamente in grado di generare, da parte di chi, nell’ambito del sistema economico esistente, dovrebbe «dare» loro lavoro (imprese e stato), il comportamento che corrisponde al problema. Nella pratica, come ben sanno coloro che restano senza lavoro, i bisogni debbono essere formulati – cioè trasformati in una realtà oggettiva, per cosi dire, socialmente valida – e la loro stessa percezione dipende interamente dall’efficacia e dalla carica energetica contenuta in questa formulazione. L’esperienza quotidiana ci fornisce, d’altronde, anche in altri campi una moltitudine di esempi di bisogni che, pur esistendo come esigenza soggettiva, rimangono insoddisfatti proprio a causa del modo in cui vengono formulati, o addirittura perché non riescono neppure a essere formulati. Genitori che sollecitano i figli ad un determinato comportamento, non ottengono il risultato atteso proprio perché non sanno esprimere ciò che vogliono in maniera adeguata. Studenti che si aspettano dai docenti una particolare forma di insegnamento e la trattazione di alcuni problemi che appaiono loro fondamentali, non le ottengono proprio perché non sanno concretamente dar corpo a questa esigenza. E quindi si limitano a seguire passivamente i corsi o esplodono in richieste di cambiamento radicali, che si esauriscono però quasi sempre in un nulla di fatto.

Insomma il bisogno in sé non è ancora un vero momento del processo di produzione del lavoro, ma solo una sua condizione. Affinché esso divenga una forza reale, un qualcosa di potenzialmente «produttivo », deve essere in grado di assumere praticamente – oggettivamente – una veste sociale, cioè una forma, corrispondente a quelli che sono gli altri momenti del processo che conduce eventualmente alla sua soddisfazione. Solo quando compie questo passaggio, e si rapporta coerentemente all’intero processo di cui è parte, il bisogno calca la scena come una forza effettivamente generatrice, e diventa un momento del processo di produzione del lavoro. Esso altrimenti costituisce solo la manifestazione dell’impotenza del soggetto, l’espressione della sua incapacità di rapportarsi coerentemente a quello che è l’oggetto del suo bisogno e alle condizioni della sua soddisfazione. Ciò che introduce la possibilità che il bisogno stesso esista senza però essere in grado di incidere sulla disoccupazione di coloro che potrebbero soddisfarlo.

 Il momento dell’oggetto del lavoro

Veniamo così al secondo momento del processo di riproduzione del lavoro. Il bisogno è sempre espressione di una relazione. Esso si riferisce quindi sempre e necessariamente ad un oggetto – sia esso una cosa, sia esso un’attività. E, come abbiamo visto, vi si deve riferire in un modo determinato. Ma anche questo non basta.  Fintanto che l’oggetto del bisogno è e rimane un oggetto naturale, spontaneamente fruibile nella sua immediatezza, la presenza del bisogno non è in alcun modo in grado di generare lavoro. L’aria, ad esempio, è innegabilmente oggetto di bisogno, ma per soddisfare questo bisogno nelle condizioni normali non è necessaria alcuna specifica attività produttiva. L’acqua è indubbiamente oggetto di un bisogno da parte di un agricoltore. Ma se il susseguirsi delle piogge nell’area in cui vive è cosa normale e non assume misure che richiedono una regolamentazione, il suo bisogno può essere soddisfatto senza alcun lavoro. Il bisogno può dunque generare lavoro, o altre forme dell’agire produttivo, solo se, per essere soddisfatto, esige la trasformazione di una parte dell’ambiente. Per respirare a lungo sott’acqua, c’è bisogno di qualcuno che pompi in continuazione l’aria dalla superficie, o la precomprima in bombole, e di mezzi idonei allo scopo. Per riuscire a irrigare i campi in aree scarsamente piovose, o per non farli allagare in zone con un eccesso di precipitazioni, occorre operare trivellazioni e costruire dighe e canali. In questa mediazione tra il dato, cioè l’ambiente preesistente, e il bisogno si colloca lo spazio del lavoro. Che cos’è infatti il lavoro? Mi si permetta di richiamare la lucida definizione di Marx: «II lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura».(9)

Per comportarsi attivamente nei confronti degli elementi dell’ambiente circostante, e renderli usabili nella loro vita, gli uomini debbono però cominciare con l’appropriarseli. Qui interviene uno strano paradosso. Nonostante questa appropriazione abbia continuamente luogo, e medi quotidianamente la vita delle persone, di norma essa rimane prevalentemente oscura alla loro stessa coscienza. Vale a dire che, in genere, gli esseri umani trattano il particolare rapporto nel quale si trovano con le condizioni della loro esistenza come un qualcosa che non potrebbe essere diverso da come è, e che quindi non deve essere oggetto di specifica attenzione. Un po’ come fanno col loro stesso camminare quando camminano. In tal modo essi però cancellano un elemento determinante della condizione umana, rappresentato dal fatto che quel rapporto è scaturito da uno sviluppo delle loro capacità, sviluppo che riassume in sé quello che astrattamente definiamo come «processo storico». L’uomo non si appropria, cioè, direttamente e istintivamente degli elementi che lo fanno vivere, bensì sempre e soltanto attraverso l’elaborazione di un modo dell’approccio, di una cultura.  Ciò implica che, per affrontare i problemi emersi, egli deve trasformare se stesso, imparare di volta in volta a praticare una specifica interazione con la natura e con gli altri esseri umani di cui non è naturalmente portatore. (Se poi sperimenta di essere «naturalmente» portatore di quelle capacità, ciò accade solo perché, fino a quando non emergono nuovi problemi, è spinto ingenuamente a considerare come un dato naturale ciò che invece è un prodotto delle generazioni che l’hanno preceduto). Per avere un’idea concreta di quello di cui stiamo parlando, il lettore può ad esempio far riferimento alla profonda differenza nel rapporto con gli alberi tra un costruttore di canoe delle isole Trobriand, descritto da Malinowski, e un moderno costruttore capitalistico di barche.

Questo rapporto, di volta in volta diverso, e conquistato attraverso un complesso processo di sviluppo, rappresenta la base della vita e si concretizza in una forma di proprietà, che imprime un carattere determinato alla riproduzione. La presa d’atto di questa componente della prassi ha una grande rilevanza in relazione al problema oggetto della nostra analisi. Essa ci dice infatti che non è sufficiente che le condizioni del lavoro – gli oggetti e i mezzi che impiega – siano materialmente date, affinché gli individui possano immediatamente procedere alla soddisfazione dei bisogni. Oltre ad esistere come oggetti materiali, esse debbono anche presentarsi con una veste sociale che consenta la loro utilizzabilità. Vale a dire che la ricchezza materiale non è mai fatta di sole «cose», bensì sempre di cose che hanno una determinazione sociale e che riescono o non riescono a essere pienamente utilizzate a seconda della capacità che la società dimostra di farle entrare nel proprio metabolismo, attraverso quella determinazione o mediante l’elaborazione di una determinazione alternativa.

Uno degli ostacoli maggiori sulla via della comprensione della disoccupazione è rappresentato dall’ignoranza di questa componente della vita sociale, e dei limiti che essa può frapporre, e talvolta frappone, alla concreta utilizzazione delle risorse date.  L’ingenua convinzione, condivisa da ogni epoca, secondo la quale la forma dell’appropriazione dominante nel proprio periodo storico e nel proprio limitato contesto è quella «naturalmente» corrispondente alla condizione umana in generale, fa sì che il problema della disponibilità delle risorse a fronte dei bisogni da soddisfare appaia sempre e soltanto come un problema di penuria, anche quando gli ostacoli sono di ben altra natura. Così, ad esempio, ai nostri giorni, come è sempre accaduto nel corso delle crisi capitalistiche, l’enorme capacità produttiva inutilizzata rimane nascosta dietro al fatto che «non ci sono i soldi» con cui metterla in moto. E questa mancanza di soldi, sulla quale più avanti rifletteremo in modo approfondito, non appare per quello che è, cioè un’espressione dei rapporti proprietari, ma viene piuttosto trasfigurata in una carenza di mezzi materiali.(10)

Al pari di quanto accade per i bisogni – che non esistono e non possono esistere in quanto tali, cioè in quanto manifestazione immediata di un modo «naturale» di essere umani, e sono sempre «condannati» ad assumere una veste sociale determinata – anche per l’oggetto del bisogno si pone dunque sempre un problema di forma, del suo modo di essere nella relazione con i bisogni stessi. La proprietà non è cioè mai un fatto naturale, ma piuttosto sempre un fatto sociale, un qualcosa di prodotto. E proprio per questo si presentano storicamente forme di proprietà che, costituendo esse stesse delle forze produttive o delle forze regressive, possono favorire o inibire la soddisfazione dei bisogni. Questo a causa del fatto che esprimono relazioni sociali che consentono o impediscono l’estrinsecazione dell’attività sugli oggetti del bisogno, attività indispensabile per assicurare quella soddisfazione. Le lotte per il diritto al lavoro, ad esempio, si sono quasi sempre accompagnate all’evocazione di un intervento diretto da parte dello stato nel processo di produzione. La richiesta della creazione di organismi pubblici, capaci di agire per finalità estranee agli imprenditori privati, poggiava cioè su un’esplicita critica ai limiti posti dal sistema della proprietà privata all’attività di soddisfazione dei bisogni e su una sollecitazione a spingersi al dì là di essi.

 Il momento degli strumenti del lavoro

II terzo momento del processo di produzione del lavoro si intreccia strettamente con il secondo. Ci riferiamo a quelli che si presentano come i mezzi del lavoro. A ben vedere, solo se supponiamo  una situazione arcaica, caratterizzata dalla pura e semplice appropriazione di mezzi di sussistenza esistenti belli e pronti in natura, il «lavoro» si risolve in una raccolta, e può stare così in un rapporto immediato con il suo oggetto. Non appena ci si spinge al di là di questo livello animalesco, il produttore si impadronisce dell’oggetto del lavoro solo attraverso l’impiego di un mezzo. Accanto al problema della forma della proprietà dell’oggetto del lavoro, sorge quindi un problema della forma della proprietà del mezzo che il lavoro impiega e deve impiegare. Per affrontare analiticamente il problema della disoccupazione, ad esempio, ho avuto bisogno di quaderni e di penne, di un computer e di una stampante, e prima ancora di libri e di riviste – per non parlare della casa, della scrivania, dell’elettricità ecc. – e ho dovuto comperarli, essendo essi disponibili solo come merci.

L’analisi della forma sociale nella quale questi mezzi si presentano, come abbiamo appena visto, è essenziale, proprio perché essa decide dell’uso delle forze produttive già esistenti, senza le quali l’attività produttiva non potrebbe estrinsecarsi o potrebbe estrinsecarsi solo in modo inadeguato. Il riconoscimento di questo elemento della pratica sociale ha avuto, come vedremo nei prossimi quaderni, una grande rilevanza nella cosiddetta «rivoluzione keynesiana», il cambiamento teorico che ha dato una giustificazione economica alla politica del pieno impiego che è stata seguita fino agli anni ottanta. Richiamiamolo qui brevemente, per afferrare il problema nella sua generalità.

“Se la nostra povertà” – scrisse Keynes nel 1933 – “fosse dovuta a carestie, a terremoti o a guerre, se ci mancassero i mezzi materiali e le risorse per produrli non potremmo sperare di trovare la via per la prosperità altrimenti che con il duro lavoro, l’astinenza e le innovazioni tecnologiche. Tuttavia, le nostre difficoltà sono evidentemente di altra natura. Scaturiscono da un qualche fallimento delle costruzioni immateriali della mente, dal funzionamento delle motivazioni che dovrebbero spingerci alle decisioni e alle azioni volontarie necessarie a mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo.”(11)

Qui gli impedimenti a creare lavoro non consistono nella mancanza di mezzi, ma piuttosto nelle limitazioni corrispondenti agli stessi rapporti di proprietà, che permettono o impediscono di impiegare concretamente quei mezzi. Cos’altro sono, infatti, «le motivazioni» che mediano «le decisioni e le azioni volontarie che mettono in moto le risorse e i mezzi tecnici disponibili», se non che le particolari forme della soggettività attraverso le quali gli strumenti e gli oggetti del lavoro, prodotti nelle fasi precedenti, entrano nuovamente nel processo vitale? Ma è proprio da questo aspetto che in genere si prescinde, riducendo il problema della disoccupazione alla mera mancanza di risorse materiali, e ignorando completamente gli ostacoli all’utilizzo dei mezzi già esistenti che possono essere determinati dalle forme proprietarie con le quali essi si presentano.

È vero che taluni di coloro che spingono per dei cambiamenti nel funzionamento della società non prescindono da questo aspetto, e sostengono che i problemi possono essere superati avventurandosi al di là dei limiti imposti dai rapporti di proprietà dominanti in un dato momento storico. Ma non è raro che, muovendosi in questa prospettiva, cadano in un errore opposto rispetto a quello appena rilevato, supponendo che il superamento dei limiti in questione possa essere attuato con un mero abbattimento delle barriere che essi rappresentano. Come se quei rapporti non costituissero anche la base stessa dell’esistenza, e potessero essere superati senza che si debbano allo stesso tempo produrre nuove e superiori forme della mediazione sociale!

 Il momento della forza-lavoro

Un problema analogo a quelli appena sollevati si pone, d’altronde, anche per il quarto e ultimo momento del processo di produzione del lavoro: la stessa forza-lavoro. Infatti, se anche calcassero la scena produttiva bisogni con una piena validità sociale, e ci fossero oggetti e mezzi del lavoro effettivamente disponibili per produrre, ma il produttore stesso non avesse ancora sviluppato la capacità di affrontare e risolvere il problema corrispondente al bisogno, e non sapesse come rapportarsi alle condizioni materiali della sua soddisfazione, il processo produttivo non potrebbe instaurarsi.

Non poche teorie della disoccupazione, soprattutto di matrice conservatrice, concentrano la loro attenzione su questo quarto momento; ma lo fanno in maniera distorta, spogliando il problema delle sue determinazioni storico-sociali. Tutto viene cioè ricondotto a una difficoltà da parte dell’offerta di lavoro di andare incontro alla propria domanda. In breve, la difficoltà di mettere i disoccupati al lavoro si risolverebbe interamente nella loro inadeguatezza personale rispetto ai compiti tecnici posti dallo stesso sviluppo. Il rimedio consisterebbe pertanto nell’organizzazione di corsi di formazione e riqualificazione(12) della forza-lavoro, nell’accrescimento della sua flessibilità e della sua mobilità, ecc.

Nella realtà il peso di questa componente è ben più ridotto di quanto queste «teorie» vogliono far credere. Per quanto possano esistere difficoltà frizionali nell’adeguamento di una frangia della forza-lavoro ai nuovi compiti tecnici, i lavoratori hanno in genere mostrato di sapersi adattare celermente alle nuove condizioni, una volta che queste sono state chiaramente definite e organizzate come lavoro. Soprattutto le ultime generazioni imparano presto a trattare le nuove situazioni tecniche come normali – se non altro perché gli stessi beni di consumo che servono alla riproduzione della loro vita incorporano già buona parte della nuova tecnologia. Quando si calca la mano su questo aspetto, pur in presenza di una forza-lavoro disoccupata di natura prevalentemente giovanile, lo si può dunque fare solo grazie ad un modo di ragionare tutto astratto, nell’ambito del quale il ricorso al modello teorico serve a ignorare completamente l’esperienza, invece che a rapportarsi a essa per interpretarla.

Ben altra è la questione relativa alla capacità della stessa forza-lavoro di far fronte, come classe o come insieme di classi, alle nuove problematiche sociali che determinano una tendenza strutturale alla disoccupazione di massa. Qui può effettivamente presentarsi il problema di un mancato sviluppo di nuove capacità. Vale a dire che, come le imprese e lo stato non riescono a metabolizzare coerentemente i bisogni emergenti, trasformandoli in concreti compiti da assolvere, in un lavoro organizzato, così i produttori immediati non riescono a individuare il modo in cui estrinsecare la propria attività senza sottostare alla mediazione delle imprese e dello stato. Per questo la loro capacità di produrre, anche a causa del rapporto proprietario che i soggetti instaurano con essa, è destinata a restare inutilizzata. Ma si tratta di una questione che non può essere affrontata sul piano delle riflessioni inerenti al mercato del lavoro. Questa struttura sociale, essendo l’espressione di una determinata forma della proprietà, esclude infatti per principio ogni problematica inerente al rapporto che intercorre tra il mutamento delle forme della proprietà e lo sviluppo economico e sociale. Vale a dire che, se la società è divisa in lavoratori che offrono sul mercato la propria capacità produttiva in cambio di denaro, e in «datori» di lavoro, che la domandano, e si riproduce attraverso questa mediazione proprietaria, è evidente che la questione inerente al modo in cui i primi possano superare la loro condizione di dipendenza e diventare in massa i creatori della loro stessa attività produttiva trascende il rapporto di domanda-offerta. Questo rapporto esprime infatti la dinamica corrispondente a questa situazione di dipendenza, invece di rapportarsi ad essa come ad un problema. E solo una strategia diretta a sviluppare una nuova forma dell’individualità, che si spinge al di là del rapporto mercantile, e che quindi considera la dipendenza stessa come un problema, può consentire di confrontarsi con questa difficoltà. Tematiche, queste, che diventeranno più chiare con il procedere degli approfondimenti.

 L’insieme dei quattro momenti

Ora, il primo punto che noi dobbiamo tener ben fermo nello svolgimento della nostra analisi è quello secondo il quale non solo tutti i momenti del processo di produzione del lavoro sopra descritti debbono essere presenti, affinché il lavoro stesso venga effettivamente alla luce e possa tornare a essere ripetuto, ma anche che essi debbono essere presenti in forme tra loro socialmente coerenti. Cosicché il passaggio dall’un momento all’altro non sia precluso dalla natura contraddittoria delle forme che essi assumono. È questa una questione che risulterà pienamente comprensibile solo alla fine delle nostre riflessioni, ma che il lettore deve tener ben presente con il procedere dell’analisi.

Questa tenderà infatti a verificare se l’attuale disorientamento sociale, che trova un suo momento centrale nel crescere della disoccupazione, sia la manifestazione di un corto circuito generale, che investe non già questo o quel momento del processo di riproduzione del lavoro, bensì tutti i momenti sopra richiamati, Si tratterà cioè di valutare se la sensazione così diffusa oggi, secondo la quale la difficoltà di creare nuovo lavoro rimanda a una più generale difficoltà nel processo dì riproduzione della società, facendo balenare la possibilità di una crisi epocale, non sia una sensazione più che giustificata. Su questa base si cercherà poi di indicare perché la redistribuzione del lavoro, con le molteplici implicazioni che la giustificano, può rappresentare una coerente soluzione dei problemi sottostanti all’attuale stato di difficoltà sociale.

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Note

1.   Milton e Rose Friedman, Liberi di scegliere, Longanesi, Milano 1981, p. 14

2.   Come scrive Marx nell’introduzione al Capitale:  “Una parola per evitare possibili malintesi.  Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario.  Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi.  Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali rimane esso stesso socialmente creatura, per quanto possa soggettivamente elevarsi al di sopra di essi”.  Prefazione del 1967 alla prima edizione

3.   Karl Marx, Manoscritti del 1861-1863, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 115

4.   Vittorio Foa, Appello al Presidente del Consiglio Amato, la Repubblica 10.5.1993, p. 10

5.   Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1970, vol. I, p. 283

6.    Il riferimento è a Luciano Lama, il quale aveva sostenuto:  “I bisogni corrono davanti a noi, cambiano e si moltiplicano man mano che quelli vecchi vengono soddisfatti.  E per soddisfare i nuovi bisogni materiali, sociali e culturali, occorrerà anche in futuro lavoro.  La tecnologia moderna risparmia lavoro nella soddisfazione dei bisogni materiali di oggi, ma non potrà farlo altrettanto celermente per quelli di domani”.  In Sul programma del PCI, l’Espresso 10.7.1986

7.   A dire il vero, uno degli aspetti fondamentali della regressione sociale in atto è proprio quello di occultare questa “evidenza”.  Le numerose modifiche apportate, negli ultimi quarant’anni, ai criteri di rilevazione statistica della disoccupazione tendono infatti a nascondere la disoccupazione dietro ad una presunta responsabilità immediata di coloro che ne soffrono

8.   Ma anche perché l’assistenza sanitaria viene via via ridotta

9.   Karl Marx, Il capitale, Libro I, vol. 1, p. 195, Editori Riuniti, Roma 1972.

10. Il ritornello ripetuto in forma ossessiva è:  ma dove si possono trovare le risorse che mancano?

11. John M. Keynes, The means to prosperity, in The Collected Writings, vol. IX, p. 335

12. La miserevolezza della maggior parte di questi corsi di riqualificazione la dice lunga sulla malafede che li sottende